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Riassumere in un solo libro gli oltre 2000 anni di storia della Chiesa (e quelli del suo Stato, il più antico dell'Occidente) non è affatto cosa facile, in effetti nell'impresa si sono cimentati ben pochi studiosi finora e quelli che lo hanno fatto in modo divulgativo, indirizzandosi al grande pubblico, ancora meno: colma ora la lacuna la professoressa Angela Pellicciari, storica dell'età contemporanea, che manda in libreria una agile storia della Catholica dalle origini ai giorni nostri per le edizioni Cantagalli, con cui in precedenza aveva pubblicato pure un interessante profilo critico di Martin Lutero (cfr. A. Pellicciari, Una storia della Chiesa. Papi e santi, imperatori e re, gnosi e persecuzione, Cantagalli, Siena 2015, Pp. 350, Euro 24,00). La motivazione di fondo che ispira qui il lavoro della studiosa è data da una constatazione oggettiva, tanto vera quando fu scritta per la prima volta e ancora di più attualmente, risalente alla lettera apostolica Saepenumero Considerantes (1883) di Papa Leone XIII quando questi osservando lo stato della scienza storica dei suoi tempi dichiarò che “sembra[va] essere una congiura degli uomini contro la verità” talmente tali e tanti erano i preconcetti, i pregiudizi, gli stereotipi e le falsità vere e proprie disseminate nelle ricerche storiche a danno dell'immagine della Chiesa e dei suoi rappresentanti. Così, in apertura, forse non a caso la studiosa, riprendendo una citazione di Benedetto XVI, si sofferma sul fatto che la nostra cultura occidentale, almeno fino ad oggi, sia stata il risultato storico dell’incontro fecondo realizzato tra il diritto romano e il Vangelo. Unicuique suum: “Da una parte, il grande diritto romano, il diritto naturale, la cultura naturale dell'uomo concretizzata nella cultura romana, con il suo diritto e il senso di giustizia; e dall'altra parte il Vangelo” (pag. 11) che valorizzando socialmente tanto l’uso della ragione (sulla base che il primo Lògos da cui tutto discende è proprio Cristo) quanto l’esercizio gratuito della carità si dimostrò fin dall'inizio come la Religio vera, gratificando nel profondo la sete di senso, amore ed eternità che abita nel cuore di ogni uomo: il Cristianesimo “convinceva grazie al legame della fede con la ragione e grazie all'orientamento dell'azione verso la caritas, la cura amorevole dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni differenza di condizione” (pag. 21).

Nel corso dei tempi è stata quindi la reiterata gratitudine delle popolazioni pagane - cominciando dai loro re e sovrani - verso i missionari prima e i monaci poi (si pensi ad esempio all’evangelizzazione promossa dall’irlandese San Colombano (542-615) nella sua instancabile Peregrinatio pro Christo inaugurando centri monastici – tra gli altri – a Luxeuil (Francia), Bobbio (Italia), San Gallo (Svizzera)) a fare sì che l’Europa, per esempio, diventasse un continente interamente cristiano (per inciso, si noti anche che la prima volta che viene attestata storicamente l’espressione linguistica ‘Europa’ è proprio con San Colombano, quando in una lettera del 600 diretta a Papa San Gregorio Magno questi si riferisce alla presenza della Chiesa nel continente utilizzando le parole ‘totius Europae’”). Scrive l’autrice con riferimento alla lunga stagione del Medioevo: “A cavallo del millennio tutti i popoli che hanno invaso i territori europei sono cristiani. Il fervore dei nuovi re appena convertiti, la loro gratitudine ai monaci e a Pietro che li ha inviati, fa sì che si dichiarino vassalli del Papa: così la Polonia, così l'Ungheria di Santo Stefano. A Kiev, l'immensa pianura della Rus' si converte, insieme al principe Vladimir, nel 989. Dalla seconda metà dell'undicesimo secolo anche i Normanni d'Inghilterra e di Sicilia diventano vassalli del Papa mentre Roma benedice la riconquista che gli spagnoli stanno facendo del loro territorio invaso dai musulmani” (pag. 117). Si vede insomma concretamente come le radici cristiane dell'Europa non siano un’espressione retorica romantica ma un fatto oggettivo osservabile storicamente dato dall’incontro delle rispettive culture nazionali con l’evangelizzazione promossa dalla Chiesa ai vari livelli. Ed è un fatto che rende ragione anche delle origini dei cosiddetti ‘conflitti di civiltà’ dal momento che l’invasione islamica del continente non è affatto un’idea recente: per tre secoli, dall'VIII all'XI, in pratica, gli arabi occupano e fanno razzie in Spagna, Sicilia e Provenza finché “incoraggiati dal vessillo di San Pietro, in nome e con la protezione dell'apostolo Giacomo, la cui tomba è miracolosamente ritrovata, aiutati dai cavalieri francesi, gli spagnoli strappano all'Islam gran parte della terra conquistata” (pag. 128) ma il confronto si ripeterà ancora e ancora anche più avanti, a testimonianza di una volontà di espansione ed occupazione delle milizie maomettane molto antica e dura a morire, a prescindere da tutte le valutazioni che eventualmente possono farsi sulla situazione nel tempo presente. Le pagine più belle della ricostruzione delle Pellicciari sono però senz’altro quelle dedicate ai Santi, ai tanti uomini e donne - cioè - che nel corso degli oltre 2000 anni di vicende terrene, talora complesse e controverse, vivendo sine glossa il primato della Parola divina hanno illuminato il volto della Chiesa in modo mirabile al punto da esercitare ancora oggi, a secoli di distanza, un'attrazione e un fascino senza limiti e senza confini in tutte le generazioni. Il primo è ovviamente San Francesco d’Assisi (1181-1226), il patrono d’Italia che il mondo intero c’invidia, fondatore di un ordine mendicante che farà – letteralmente – la storia della Chiesa e il padre stesso della lingua italiana dal momento che il primo componimento poetico nella nostra lingua è proprio il celebre Cantico delle creature da lui composto nel 1226. Ma, con lui, la schiera dei carismi sorti nelle varie epoche è praticamente senza fine, frutto dell'azione incessante dello Spirito Santo che in ogni tempo – perfino quando all’orizzonte sembra dominare quel mysterium iniquitatis di cui parla San Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi – assiste e rinnova la missione della Chiesa ai quattro angoli del globo suscitando sempre nuovi testimoni e maestri, spesso giovanissimi.

Dal punto di vista invece, più terreno, dello sviluppo sociale sarà ancora la Chiesa, con la forza della sua predicazione itinerante, a porre fine al dramma della schiavitù che aveva caratterizzato le epoche pagane e che riprenderà non a caso “in tutto il suo orrore dopo la conquista musulmana quando le coste dell'Europa occidentale sono flagellate dalle incursioni dei pirati islamici che riducono in schiavitù un gran numero di cristiani” (pag. 218). Sarà allora che sorgeranno, tra gli altri, l’ordine dei Trinitari (fondato dai religiosi francesi San Giovanni de Matha (1154-1213) e San Felice di Valois (1127-1212)) e l’ordine dei Mercedari (fondato da San Pietro Nolasco (1182-1256)) proprio con l’intento dichiarato di riscattare i tanti fratelli nella fede ridotti nel frattempo in schiavitù in terre lontane: una storia a dir poco toccante e clamorosa di cui oggi si sono purtroppo perse quasi completamente le tracce tanto nella memoria popolare quanto nell’immaginario collettivo, con grande danno per la comprensione anche dei fatti del presente. Ma l’attenzione della studiosa si sofferma non solo sulle grandi questioni internazionali sociali e sui loro risvolti interreligiosi ma anche sulle vicende di quei Paesi particolari, come la Polonia, che nel corso di questi 2000 anni hanno giocato un ruolo di primissimo piano nelle varie battaglie per la libertà e per la difesa della civiltà cristiana: così quando il re Jan Sobieski (1629-1696) salvò Vienna dall’assedio islamico nel 1683 e così quando il maresciallo Jozef Pilsudski (1867-1935) salvò non solo la sua Nazione ma anche l'Europa occidentale tutta dall'espansione comunista nella battaglia della Vistola a Varsavia nel 1920 contro i russi. E ancora, sempre dalla Polonia verranno tre figure che più di tante altre incideranno sulla storia tanto sociale e politica quanto religiosa del secolo scorso, tutte canonizzate: la religiosa mistica Santa Maria Elena Faustina Kowalska (1905-1938), il frate francescano San Massimiliano Maria Kolbe (1894-1941), il Papa San Giovanni Paolo II (1920-1005), tre autentici giganti dello spirito di Dio, profeti di santità e virtù per i nostri tempi attraversati da due terribili guerre mondiali (1914-1918, 1939-1945) e poi dalla pluridecennale guerra fredda (1945-1989). Capitoli a parte anche per quei Paesi di più antica tradizione cristiana e dal forte culto mariano a livello popolare, come la Spagna, la “tierra de Marìa”, o il Messico, che dopo l’apparizione all’indio Juan Diego nel 1531 della Vergine di Guadalupe – la “morenita” – nel Novecento darà origine a uno dei fenomeni più impressionanti di resistenza organizzata al processo di scristianizzazione politico e ideologico e a difesa della libertas Ecclesiae, la cosidetta ‘Cristiada’, l’epopea dei cristeros che armati di poche armi ma tanta fede combatteranno per anni praticamente da soli – tenendogli testa a lungo – contro il governo locale tirannico e oppressivo sotto ogni aspetto esponenzialmente più forte. La conclusione dell’autrice, che ricorda come dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) e ancora di più dopo la fine dell’epoca delle ideologie moderne (1789-1989) tutta la Chiesa sia impegnata in uno sforzo missionario globale – la cosiddetta ‘Nuova Evangelizzazione’ – è tratta dal Vangelo di San Marco e dal mandato missionario che il Signore affida agli apostoli prima dell’Ascensione: “'Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno'. [...] Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano” (pag. 349).

Nell’antichità la Sicilia per la sua particolare forma triangolare si chiamava Trinàcria (dal greco Trinakrìa), con perspicuo riferimento alle sue tre cuspidi. Lo stesso nome fu coniato dal poeta Omero nell’Odissea e da numerosi storici, finché i Romani tradussero questo nome in Trìquetra, che significa “triangolare”.

Ma questa splendida Terra fu anche indicata come “l’isola del sole”; il suo simbolo è infatti un volto contornato da raggi solari.

Nei secoli la Sicilia ha vissuto diverse dominazioni e la sua multisfaccettata cultura non è altro che il risultato dei passaggi storici fenici, greci, romani e così via.

Sin dal periodo classico, il termine “Sicilia” prese il posto di Trinàcria ed anche di Sicània, ovvero Terra dei Sicani, fra i primi abitanti dell’Isola. Ma va sottolineato che nel periodo Medioevale il termine “Sicilia” non si riferiva esclusivamente all’Isola, ma si estendeva a tutta la Penisola, per indicare i domini normanno-svevi presenti nell’Italia meridionale.

Secondo gli studi di Marco Terenzio Varrone, il termine “Sicilia” deriverebbe dalla voce italica sica, che sta ad indicare la falce. Pertanto, Sicilia significherebbe “Terra dei falciatori”, poiché i Romani sostenevano che la Sicilia fosse la regione più ricca di grano per approvvigionare Roma. Tuttavia, questo termine è anteriore alla dominazione romana, iniziata nell’isola nel 264 a.C. ed esistono numerose interpretazioni in merito al toponimo.

Quindi, solo se volessimo approfondire le radici del suo nome, già occorrerebbero fiumi di inchiostro.

La poetessa e scrittrice Giusi Lombardo, nata a Palermo, dove vive con la famiglia, è una vera appassionata ricercatrice dell’ancestrale cultura della Terra che le ha dato i natali e nella sua interessantissima opera “A BUELA E’” (2014,Edizioni THULE) si è dedicata alla ricerca di proverbi, modi di dire, filastrocche che appartengono alle radici culturali della Sicilia.

Del resto –Biagio Scrimizzi, autore delle note introduttive dell’opera – parafrasando il letterato e storico tedesco Herder, il quale diceva che i canti popolari sono “L’archivio dei popoli”, afferma a ragione che si potrebbe dire lo stesso di filastrocche, leggende fiabe e racconti, che accompagnano il percorso storico di ogni popolo.

Il merito di Giusi Lombardo è quello di portare avanti con dedizione un’attività di ricerca e divulgazione delle tradizioni della sua amatissima Terra volta a tramandare un inestimabile patrimonio di cultura popolare, riuscendo pienamente a suscitare nel lettore interesse e tante emozioni.

Lei coltiva sin dall’adolescenza una grande passione per le arti letterarie. Qual è il periodo storico che la affascina maggiormente?

Intanto volevo ringraziarla per la grande opportunità che mi offre con questa intervista di parlare di un argomento che mi sta molto a cuore: la mia Terra, la mia Sicilia. In effetti, oltre ad essere appassionata della letteratura di tutti i tempi, l’argomento che mi ha sempre intrigato maggiormente è stata la storia, in particolar modo il Risorgimento italiano, durante il quale il processo di sviluppo economico e sociale in Sicilia era pervenuto ad ottimi risultati grazie alla monarchia Borbonica che, nel Regno delle due Sicilie, aveva avviato uno sviluppo industriale notevole.

Il suo percorso professionale, seppur frenetico, le ha consentito agevolmente di ritagliare spazi da dedicare alla scrittura, che nel suo caso rappresenta una vera necessità?

Beh, diciamo che non è stato proprio agevole conciliare un’attività lavorativa a stretto contatto con un pubblico esigente, con le necessità della famiglia e dei figli. Ma il bisogno di trascrivere sulla carta le molteplici emozioni e sensazioni giornalmente che pervadevano il mio animo era per me una necessità, chiamiamola pure una valvola di sfogo, alla frenetica vita di quel periodo.

La sua modalità di scrittura evidenzia estrema chiarezza e concisione formale, unita ad una forma artistica che vuol anche essere metodo di conoscenza. Vorrebbe spiegare ai nostri lettori il valore intrinseco alle tradizioni?

Le tradizioni rappresentano per un popolo, secondo me, un patrimonio genetico paragonabile a quello trasmessoci dai nostri genitori. Perdere le tradizioni della Terra nella quale si è nati e dove affondano le proprie radici, sarebbe come rimanere orfani, trovarci spaesati in un mondo che ci vuole tutti uguali, negando la singolarità e le caratteristiche che fanno di ogni popolo un popolo unico.

Se ci riferiamo alla sua Sicilia, una regione ricca di fascino e cultura, cosa vorrebbe aggiungere?

La mia è una Terra unica, le sue tradizioni derivano da molteplici dominazioni che l’hanno resa ricca di un patrimonio culturale e monumentale non indifferente. Da qualsiasi parte si guardi, si può scorgere una distesa di aranceti, limoneti, campagne coltivate a vigneti e uliveti, insieme a resti archeologici, testimonianze di antiche egemonie che hanno lasciato un segno visibile, sia nelle architetture che nei vari dialetti che compongono la lingua siciliana. I parchi naturali si alternano a distese di spiagge infinite, con un mare cristallino non paragonabile ad altri. Purtroppo, tutte queste risorse naturali non sono ben sfruttate; in Sicilia non s’investe in industrie, che darebbero la possibilità di uno sviluppo economico notevole, oltre a limitare la disoccupazione dei nostri giovani, costretti, dopo gli studi, a cercare lavoro al nord Italia, se non addirittura all’estero.

Grazie all’attività lavorativa che ha svolto per tanti anni, il quotidiano contatto con le persone ha determinato in lei l’interesse verso un approfondito studio antropologico, dalla cui analisi si evidenziano gli aspetti più intimi dell’animo umano. Quindi, oltre la “maschera pirandelliana”, che ognuno di noi inconsapevolmente indossa, quali sono state le sue scoperte?

Sono rimasta anch’io sorpresa, non le nascondo, di intuire nel comportamento della gente, una sorta di eccessiva diffidenza iniziale, come un volersi difendere anticipatamente da un nemico invisibile. Certo il naturale calore di noi gente del sud è notorio a tutti ma, forse, i lunghi anni di soprusi e di depredazioni che si sono succeduti dopo l’Unità d’Italia, hanno spinto la mia gente a modificare la propria mentalità, almeno inizialmente. E’ come se ognuno di noi avesse il sospetto di venire imbrogliato ed in qualche modo danneggiato e cerchi ,quindi, di difendersi. Certo, gli anni bui delle guerre di mafia non hanno aiutato; la mia gente è stanca, molte volte si è sbagliato ma perché non si vedeva una possibile alternativa. Ma adesso, a poco a poco, la situazione sta cambiando e così anche la mentalità delle persone e spero che presto tutti noi potremo renderci conto che non dobbiamo più subire passivamente, ma rimboccarci le maniche e difendere il futuro di questa magnifica Terra.

Il costante impegno, volto alla conservazione e alla divulgazione della preziosa sapienza popolare, attraverso la ricerca della propria identità socio-culturale, le è stato più volte riconosciuto attraverso importanti premi. Vorrebbe parlarmene?

Sono davvero onorata e approfitto per ringraziare di nuovo e pubblicamente tutti coloro che hanno ritenuto opportuno assegnarmi un riconoscimento per questa attività. Tuttavia, il mio scopo non è quello di essere gratificata da targhe e attestati, bensì quello di risvegliare le coscienze della mia gente, in maniera che ognuno di noi possa essere orgoglioso della propria Terra, delle proprie tradizioni e si impegni, facendo di tutto per trasmetterle e tramandarle in maniera che non vadano perse.

Ho letto con interesse la sua opera originale e ricca di sentimenti fondanti “ABUELA E’”, il cui atavico titolo rimanda al gioco del nascondino. Vorrebbe illustrarne gli aspetti salienti?

Nel preparare questo libro mi sono impegnata al massimo per trovare il giusto modo per trasmettere il mio messaggio a chi avesse letto. Io ritengo che, anche se è giusto imparare tutti un linguaggio comune come la lingua italiana, che ci consente di relazionare con gli altri, perdere allo stesso tempo le proprie tradizioni linguistiche sia una sorta di menomazione. Per tale motivo ho voluto raccogliere in questo volume le filastrocche, le ninna-nanne, alcune favole di famosi autori siciliani come Giuseppe Pitré e Luigi Capuana, oltre a qualche racconto sui miti e le leggende della mia Terra, in maniera da riportare alla memoria di coloro i quali ne avessero perduto le tracce, le belle storie raccontate da genitori e nonni nelle lunghe sere d’inverno accanto al focolare. Sperando così che tutti, a loro volta, possano avvertire il desiderio di continuare a trasmetterli…

La nostra Italia è sempre più divisa in due; un aspetto preoccupante, le cui conseguenze ricadono principalmente sulla qualità di vita e le prospettive delle nuove generazioni. Qual è oggi il senso dell’Unità d’Italia?

Da sempre è risaputo che il Sud Italia sia discriminato rispetto al Nord del Paese, tanto che viene spontaneo chiedersi a chi poi sia convenuta questa tanto acclamata Unità d’Italia. Nel periodo rinascimentale il Regno delle due Sicilie, sotto la guida di Ferdinando di Borbone, ha vissuto il suo periodo d’oro. Fiorenti erano le industrie, l’agricoltura e l’artigianato in Sicilia, dove ad esempio, erano presenti telai all’avanguardia che permisero all’industria tessile di ampliarsi ed esportare i propri manufatti ,arricchendo notevolmente l’economia della regione. Dopo l’Unità d’Italia questi macchinari vennero trasferiti in Piemontee contribuirono alla rinascita delle industrie in quella larga zona e noi siciliani fummo costretti ad importare i tessuti da quelle fabbriche. E così anche per quanto riguarda il grano, il petrolio, i prodotti ittici e minerari e così via. Non abbiamo avuto nulla in cambio, né potenziamento né creazione di nuove industrie, solo tutto ciò che veniva dismesso al nord veniva poi inviato al sud. La rete ferroviaria, creata da Ferdinando di Borbone in Campania, venne “dimenticata” per decenni, le prime autostrade furono utopia e persino oggi la Salerno- Reggio Calabria deve ancora essere ultimata. Così, mentre al nord il progresso era visibile, al sud era in corso un regresso inammissibile, che ha generato una scadente qualità di vita quasi per tutti, determinando forti limitazioni di prospettive per i nostri giovani.

Spero con tutto il cuore che questa situazione possa presto cambiare.

Difficilmente si trova un libro dove si affrontano tre realtà complesse come il banditismo, l'insorgenza e il brigantaggio, fenomeni che hanno caratterizzato la storia di almeno tre secoli del nostro paese, dal XVII al XIX secolo. E' riuscito a farlo Francesco Pappalardo, studioso e storico in un agile pamlhet, Dal banditismo al brigantaggio. La resistenza allo Stato moderno nel Mezzogiorno d'Italia, edito dalla battagliera casa editrice D'Ettoris Editori, di Crotone nel 2014.

“Può apparire forzata - scrive Pappalardo nell'introduzione - la scelta di riunire in un'unica trattazione i banditi, gl'insorgenti e i briganti, per di più accumunati non dall'aspetto eversivo che comunemente evocano nell'immaginario collettivo ma dalla resistenza, più o meno consapevole, da essi opposta in tempi diversi allo Stato moderno nascente o in via di affermazione”. Infatti se l'insorgenza del popolo italiano contro le armate francesi di Napoleone nel 1799, è poco nota al grande pubblico, a causa del lungo silenzio imposto dalla storiografia ufficiale, banditismo e brigantaggio, spesso sono confusi tra loro e vengono inclusi nell'ampia categoria della delinquenza comune, al massimo abilitati, come forma di protesta sociale primitiva.

Nel libro Pappalardo lega a un filo rosso banditi, insorgenti e briganti, cioè figure apparentemente molto diverse fra loro: è quello della resistenza, più o meno consapevole, da essi opposta in tempi differenti allo Stato moderno nascente o in via di affermazione. Mentre il banditismo è un fenomeno a metà strada fra l’opposizione passiva e la sollevazione popolare, che raccoglie fra i secoli XVI e XVII soldati disoccupati, disobbedienti fiscali, fuorusciti, protagonisti di conflitti tra fazioni e nobili impoveriti o preoccupati per l’invadenza statale, l’Insorgenza (1792-1814), cioè l’insieme delle resistenze contro la Rivoluzione e contro il regime di Napoleone Bonaparte in Italia e in Europa, è una vera sollevazione popolare. Anche il brigantaggio postunitario è una realtà complessa, in cui rientrano
la fedeltà dinastica e la resistenza all’invasore, l’opposizione alla coscrizione obbligatoria e alla pesante fiscalità, antiche tensioni sociali e l’inevitabile delinquenza. Per l'autore del libro sono tre momenti distinti ma collegati fra loro e importanti per la storia della nostra Penisola.

I Banditi.

Nel 1° capitolo, dedicato appunto ai banditi, originali e interessanti le riflessioni sulle numerose rivolte verificatesi in Europa, tra il XIV e il XIX secolo. Pappalardo può sostenere che tutte mostrano un attaccamento del popolo e dell'aristocrazia ai propri diritti, infatti secondo lo scrittore cattolico, “le rivolte esprimono spesso una forte insoddisfazione contro l'accentramento delle strutture di governo”. E citando Giovanni Cantoni, sono “per un certo verso, preinsorgenze non contro lo Stato moderno nella sua maturità[...]bensì contro ogni fase di formazione di tale Stato moderno”.Tuttavia si tratta “di manifestazioni di insofferenza del corpo sociale nei confronti d'ingiustizie, imputate a singoli e intese non a modificare strutture ma a correggere appunto le ingiustizie”.

Pertanto, queste rivolte popolari,“ si distinguono dalle rivoluzioni, che formalmente prendono di mira persone ma nella sostanza perseguono un cambiamento violento delle strutture e la costruzione di un nuovo ordine sulla base di un programma ideologico”. In pratica secondo lo storico Mousnier, i contadini in rivolta,“erano furiosi, ma non rivoluzionari”. E' dello stesso parere lo storico inglese sir John Elliot, che ritiene anacronistico parlare di “rivoluzioni” durante l'Antico regime, applicando le nozioni di ideologia o di lotta di classe, la gente non era ossessionata dalla ricerca dell'innovazione ma, “[...]dal desiderio di ritornare a vecchi costumi e privilegi, e ad un antico ordine sociale”. Ecco perchè gli storici, in relazione alle rivolte del XVII secolo nel Mezzogiorno d'Italia, le leggono, “come affermazione del diritto di resistenza contro comportamenti considerati tirannici da parte di chi esercitava la sovranità e suggeriscono di sostituire la categotia di 'rivolta' con quella di 'resistenza'.

dal banditismo al brigantaggio

Pappalardo nel libro dà conto delle diverse interpretazioni che si sono date al fenomeno del banditismo, citando diversi storici e sociologi, che hanno scritto sull'argomento come John Hobsbawn, Raffaele Nigro e Rosario Villari, ma anche Giuseppe Galasso. Tutti concordi sulla varietà e complessità del fenomeno.“I banditi, non sono mai contadini poveri, vanno infine distinti dai vagabondi, dagli oziosi, dagli ambulanti, dai girovaghi, dai contrabbandieri, cioè da quanti erano privi di lavoro stabile e di fissa dimora...”.

Naturalmente Pappalardo, ha consultato e studiato diversi testi, così ha potuto rilevare le caratteristiche generali di certe rivolte scoppiate nei vari periodi storici, in particolare nei secoli XVI e XVII. Per esempio, la rivolta capeggiata da Tommaso Aniello (1620-1647), detto Masaniello, qui la popolazione non intendeva “[...]chiedere né ottenere la soppressione del regime feudale, ma solo il suo contenimento entro i limiti della legalità, della tradizione e dell'equità”. In pratica secondo Pappalardo, non viene messo in discussione il ruolo della regalità, che, invece, ne esce rafforzato. Piuttosto si intendeva mettere in discussione “la crescita smisurata dell'apparato amministrativo e burocratico: 'Viva il Re, mora il malgoverno”. Infatti spesso le rivolte possono essere considerate come scrive lo storico Paolo Prodi,“come estremo tentativo di lotta delle forze particolaristiche locali contro l'invadenza maggiore dello Stato”.

Gli insorgenti. La storia dei vinti.

Il 2° capitolo del libro è dedicato agli insorgenti, quei popoli italiani che tutti insieme presero le armi contro gli eserciti francesi che hanno invaso l'Italia nel 1799. Prima di entrare nel merito delle rivolte, Pappalardo si sofferma sul contesto. Siamo negli anni del dopo Rivoluzione Francese, che aveva abolito la società degli ordini e sancito il livellamento dei sudditi, la persona viene spogliata di tutto, non entra più in contatto con il potere statale perchè membro di una famiglia, di una corporazione, di un ordine, ma direttamente come individuo isolato, come scrive Francoise Furet, il 4 agosto, all'Assemblea Nazionale Costituente, si fa tabula rasa, si liquida tutti i poteri intermedi che possono esistere tra l'individuo e il corpo sociale. “La Rivoluzione Francese segna, dunque, lo spartiacque fra due mondi radicalmente diversi”.

La storia degli insorgenti “è una storia dei vinti, non solo materialmente, quanto culturalmente. Perchè l'Insorgenza è stata rimossa dalla storia patria e, quindi, dalla memoria storica degli italiani”.

Pappalardo inizia a dare conto come è stata interpretata a cominciare dai cronisti, riportando la testimonianza del domenicano Antonino Cimbalo, testimone oculare della spedizione del Cardinale Fabrizio Ruffo di Baranello (1744-1827), forse l'insorgenza più importante, quella meno frammentaria. Ma soprattutto più meditata è l'opera cronachistica di un altro testimone oculare, il siciliano Domenico Leopoldo Petromasi. Egli descrive la marcia dell'esercito della Santa Fede dalle Calabrie a Napoli.

Il carattere della radicalità del conflitto viene colto sia nel versante rivoluzionario da Vincenzo Cuoco, che individua le ragioni del fallimento della Repubblica Napoletana, nel fatto che sostanzialmente i giacobini avevano operato non tenendo conto della storia e delle tradizioni del regno. Ma anche nel campo legittimista dall'abate Domenico Sacchinelli, ma soprattutto da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa.

Per il momento mi fermo alla prossima.

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