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Il Crystal_Palacedi Londra dove nel 1851 si tenne la Grande Esposizione delle opere industriali di tutte le nazioni

Il Crystal Palace di Londra dove nel 1851 si tenne la Grande Esposizione delle opere industriali di tutte le nazioni

A distanza di sedici anni dalla prima edizione, l’economista Vera Zamagni — che insegna Storia economica nell’Università di Bologna e ha pubblicato, fra l’altro, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, nel 1999, e Introduzione alla storia economica d’Italia, nel 2008 — ha operato una profonda revisione del suo Perché l’Europa ha cambiato il mondo. Una storia economica (il Mulino, Bologna 2015, pp. 344, € 24,00). L’idea è scaturita dai profondi mutamenti intervenuti nei primi anni del secolo XXI e dall’apparire di nuovi studi che hanno inserito la storia europea in un contesto più mondiale.

Se buona parte dell’opera segue lo schema della prima edizione ed esamina le linee principali dello sviluppo economico europeo, attraverso i modelli teorici dello sviluppo e le componenti tecnologiche, istituzionali e sociali, «un’attenzione tutt’affatto speciale è [...] stata rivolta a spiegare come mai non furono l’Asia o il mondo islamico a produrre la rivoluzione industriale» (p. 9). A questo tema sono dedicati i primi due capitoli, quasi del tutto nuovi. La tesi portante, che ne giustifica il titolo, è che la rivoluzione industriale poteva vedere la luce solo «in quell’Europa dove si era affermata una concezione dell’uomo di origine cristiana che a un tempo ne esaltava la libertà, ma ne limitava il potere sugli altri uomini attraverso la pratica della giustizia e della fraternità» (p. 10), lasciandolo libero di esprimere la sua creatività e il suo talento. Se il clima, la localizzazione geografica e le risorse naturali hanno svolto un ruolo facilitante nell’espansione economica, è indubbio che le società sono state rese dinamiche da altri fattori. Un esempio lampante è l’America Settentrionale, ricchissima di risorse naturali ma abitata da popolazioni seminomadi, il cui sviluppo è avvenuto solo dopo l’arrivo di coloni europei, portatori di un preciso universo culturale. «Il vero ruolo strategico nel determinare il grado di progressività delle varie società è dunque stato giocato dalle visioni filosofico-religiose del mondo e dalla organizzazione sociale che ne è derivata, con le diverse istituzioni politiche ed economiche che si sono susseguite» (p. 17).

Mettendo a confronto le tre aree economicamente più avanzate, cioè l’Europa, il mondo islamico e la Cina — non l’India, perché priva di quei prerequisiti istituzionali, soprattutto di tipo politico, che invece le altre aree avevano —, l’Europa prevale per quattro motivi: la definizione cristiana di persona umana come unico valore assoluto, da cui deriva il concetto di lavoro come attività propria degli uomini liberi, attuata per la prima volta dal monachesimo, benedettino e cistercense; la relazione orizzontale fra le persone tipica del cristianesimo, e dunque la solidarietà e la fiducia, da cui derivano il concetto di bene comune e quello di un’economia a servizio della comunità; l’approccio razionale e dinamico al reale, che favorisce la nascita della scienza; e infine la distinzione, anche questa cristiana, fra potere civile e potere religioso, nonché l’articolazione della società in corpi intermedi che godevano di vaste autonomie.

La copertina del libro

Andando alla ricerca delle istituzioni e delle pratiche economiche dimostratesi decisive nella creazione del vantaggio europeo, l’autrice prende in esame prima le città-stato italiane, dove gli uomini d’affari svolgevano anche un ruolo politico di autogoverno ignoto fuori dall’Europa, generando innovazioni significative nel campo delle istituzioni economiche, nei contratti e nella gestione del denaro; e quindi il grande ruolo del commercio internazionale, attivato dalle esplorazioni geografiche, che portò a migliorare i trasporti, diversificare i consumi e utilizzare materie prime strategiche per molte innovazioni tecnologiche.

Spiega poi che il passo decisivo ebbe luogo in Gran Bretagna grazie a un sistema politico-istituzionale che favoriva l’innovazione, all’esistenza di una legislazione che offriva la certezza di una rete di salvataggio e aumentava quindi la propensione al rischio, e allo sfruttamento delle risorse del sottosuolo, innanzitutto il carbone, che produceva un’energia molto maggiore e consentiva di liberare il suolo dalla produzione di altri beni, specialmente la legna, per dare spazio alle altre coltivazioni. A fronte della convinzione di molti che tutte quelle innovazioni fossero un portato della scienza moderna, Vera Zamagni osserva che «nessuna delle invenzioni importanti della rivoluzione industriale inglese richiese basi scientifiche diverse da quelle già esistenti nell’impero romano. Persino la caldaia a vapore era nota, ma non ne era apprezzata l’utilizzabilità pratica e, come la polvere da sparo in Cina, veniva impiegata solo per attività ludiche» (p. 59).

Fra le conseguenze della prima rivoluzione industriale vengono ricordate anche il trasferimento del lavoro da ambienti domestici, o comunque di dimensioni artigianali, alle grandi fabbriche, con l’urbanizzazione e l’abbandono delle campagne; e l’espulsione delle donne dal mondo del lavoro, confinate a casa nel momento in cui le fabbriche erano sempre più distanti e gli orari di lavoro sempre più lunghi.

Il libro prosegue, poi, sulla scia della prima edizione, descrivendo il processo di industrializzazione europea, il pesante lascito delle due guerre mondiali, il passaggio del testimone agli Stati Uniti d’America e infine l’attuale periodo d’instabilità e crisi.

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La 14a edizione di Più libri più liberi, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria promossa e organizzata da AIE – Associazione Italiana Editori in programma fino all'8 dicembre 2015, vede anche quest’anno la partecipazione creativa e coinvolgente delle Biblioteche di Roma, che con tante occasioni diverse di incontro e lettura contribuiscono ad animare lo Spazio Ragazzi. A cominciare dal ciclo di appuntamenti Nati per Leggere in mostra, vetrina dei testi della bibliografia nazionale Nati per Leggere: una guida per genitori e futuri lettori (2015): 10 incontri (ogni giorno alle 10.30 e alle 17.30) ordinati in 11 moduli tematici relativi ai tempi e aspetti della vita del bambino, per avventurarsi fra libri di storie illustrate, favole e fumetti, sull’onda dell’invito Ad ascoltare le storie, serie di letture ad alta voce con le associazioni Cartastraccia e con Il Semaforo Blu. E, allo Stand

istituzionale delle Biblioteche di Roma, prende il via la Campagna promozionale Bibliocard: personaggi della cultura e grandi lettori si danno appuntamento per diventare sostenitori delle biblioteche attraverso la sottoscrizione della nuova Bibliocard, che proprio all’inaugurazione della Fiera è stata donata al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini: tesserato numero 1. La tessera dà accesso a tutti i servizi di base, a quelli aggiuntivi e a numerosi vantaggi. Ai lettori più giovani, fino ai 14 anni, le Biblioteche dedicano la nuova Youngcard, per far sì che i lettori più piccoli diventino i più grandi. La personalità e le necessità formative dei più piccoli sono al centro di Il bambino? Tante occasioni per una domanda: esposizioni, incontri, laboratori e spettacoli per raccontare il bambino ed esplorare il tema dell’identità. Dall’intreccio di note, parole e immagini, il visitatore può immergersi in una galleria di ritratti che piacerà a piccoli e grandi, dando agli adulti la possibilità di riflettere e ragionare sulle mille facce dell’infanzia. E così accanto all’esposizione della mostra iconografica Che cos’è un bambino? (lunedì 7 ore 16.30) che riproduce le pagine dell’omonimo libro scritto e illustrato da Beatrice Alemagna (Topipittori, 2008), ecco lo spettacolo Pozzanghere di latte, ispirato al libro, con Ursula Mainardi (domenica 6 alle 11 e alle 16.30), e la tavola rotonda Che cos’è un bambino? Tante voci per una domanda (che si è svolta ieri, venerdì 4, alle 16.30), con Anna Maria Di Giovanni, Giulia Mirandola, Giovanna Zoboli e Marco Rossi Doria.

Lo Spazio Ragazzi in Fiera, inoltre, ospita altri 12 appuntamenti fra letture, laboratori e spettacoli, proposti dall’Accademia di Santa Cecilia (Il gioco della musica, domenica alle 12, e Pianissimo Fortissimo, domenica alle 15), dai Servizi educativi - Laboratorio d'arte dell'Azienda Speciale Palaexpo e dal Teatro di Roma (lo spettacolo Mediterranea Foodball TM Club di Gigi Palla, Nicola Sapio e Gianfranco Teodoro, lunedì 7 alle 11, e il Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli con

Roberto Gandini, lunedì alle 14.30). Dal laboratorio Io disegno, di Vanvere edizioni (da venerdì 4 a martedì 8), alle Letture ad alto ritmo (venerdì 4 alle 12.30 alle 18.30), la Visita guidata sedentaria tra le migliori novità di illustrati e narrativa (sabato 5 alle 16.30), con Carla Ghisalberti – Lettura candita e le Letture in Fiera (venerdì 4 alle 14.30, lunedì 7 e martedì 8 alle 12), e i quattro appuntamenti delle Letture in circolo: venerdì 4 alle 15.30 con Stefania Fabri su Il ritorno della fiaba, lunedì 7 alle 10 con Ermanno Detti e Gli autori dimenticati, ancora lunedì 7 alle 12.30 con Eleonora Rizzoni e i Libri per conoscere il mondo, infine martedì 8 alle 12.30 Le vie del pepe e quelle del cibo. Libri da mangiare, incontro con Vichi De Marchi.

Un filone a parte in Fiera (in collaborazione con le Biblioteche di Roma) che di certo attrae aspiranti investigatori e informatici in erba, è quello curato da Poliziamoderna – mensile Polizia di Stato: cinque incontri (uno al giorno) coordinati da Annalisa Bucchieri, per aiutare i più giovani a difendersi dai pericoli del web come da quelli quotidiani sulle strade, accanto alle sfide investigative dei romanzi. Si discuterà di Furti d’identità, Cyberbullismo, Pirateria on line, di Bullismo, Delitti, omicidi e Sicurezza ambientale, Impronte fatali sulla scena del crimine e Sicurezza in auto, in scooter, in bicicletta e sui pattini.

Presso lo Stand istituzionale delle Biblioteche di Roma, è protagonista la Campagna promozionale Bibliocard: personaggi della cultura e grandi lettori si daranno appuntamento per diventare sostenitori delle biblioteche attraverso la sottoscrizione della Bibliocard. E ai bambini e ragazzi fino ai 14 anni è dedicata la nuova Youngcard, che per la prima volta si affianca alla tessera di iscrizione

tradizionale facendo così sentire i giovanissimi protagonisti in prima persona della vita delle, e nelle, biblioteche. A proposito dell’impegno quotidiano di queste ultime nella diffusione della lettura, a Più libri più liberi si è parlato (venerdì 4 alle 15) della Fabbrica dei lettori, i circoli di lettura nei luoghi di lavoro, con Paola Gaglianone,

Gioacchino De Chirico e Flavia Cristiano, si è assistito (sabato 5 alle 13) a biblioRing – Ultimo round (incontro conclusivo progetto biblioRing), con Sandra Giuliani e Paolo Di Paolo, e si rifletterà (martedì 8 alle 11) sul Prestito digitale: un confronto tra biblioteche di pubblica lettura ed editori, con Piero Attanasio, Carlo Gallucci, Stefano Gambari e Massimo Greco.

Sul web Più libri più liberi è presente attraverso gli aggiornamenti del sito ufficiale www.plpl.it e grazie all'attività sui social network che affiancano il claim #peramoredeilibri all’hashtag ufficiale #piulibri15.

Promossa e organizzata dall'Associazione Italiana Editori, con il sostegno di Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Centro per il Libro e la Lettura, Regione Lazio, Roma Capitale -Assessorato Cultura e Sport, ICE -Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane, in collaborazione con Biblioteche di Roma e l'azienda per i trasporti capitolina Atac e con la media partnership di Rai, Radio3, Rai3, Rainews24, la Repubblica, L’Espresso e Repubblica.it, la Fiera non è solo un punto di riferimento per la proposta e il lancio di nuovi autori internazionali, ma si conferma osservatorio insostituibile sulla varietà della produzione italiana.

L’iniziativa è stata realizzata anche mediante il finanziamento del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e di Arcus S.p.a.

 

Caldwell-Ultima rivoluzione

Se il nostro tempo non fosse generalmente refrattario a una pedagogia fondata sul principio di autorità e sulle prescrizioni, modello «compiti a casa», ai nostri politici dovrebbe essere imposto lo studio, più che la mera lettura, dell’opera di Christopher Caldwell, Reflections on the Revolution in Europe (il titolo è un trasparente omaggio alle Reflections di Edmund Burke [1729-1797]), fruibile anche in una pregevole e tempestiva traduzione italiana presso Garzanti, con il titolo L’ultima Rivoluzione dell’Europa. L’immigrazione, l’islam e l’Occidente.

Il giornalista statunitense, che lavora a The Weekly Standard e collabora con prestigiose testate come Financial Times, Slate, The New York Times, Wall Street Journal, The Washington Post, studia da tempo il fenomeno dell’immigrazione in Occidente e particolarmente in Europa, e ha in qualche modo organizzato i suoi numerosi interventi sull’argomento in questo volume. Esso ha forse il carattere del pamphlet, pur essendo tutt’altro che breve, in quanto di facile e scorrevole lettura e soprattutto portatore, e non senza un sano spirito polemico, di una tesi ben precisa. Ma è certamente ben argomentato e documentato, sì da avvicinarsi al saggio, e perciò costituisce un testo imprescindibile per una seria discussione e per riconoscere i problemi che l’immigrazione comporta, al fine di affrontarli con competente responsabilità e non rimanere stupiti, quando non stupidi, nel momento in cui maturano ed esplodono, talvolta con tragica virulenza.

Caldwell, genero del giornalista cattolico conservatore Robert Novak (1931-2009), con dovizia d’informazioni di prima mano e mostrando una singolare – per un giornalista americano – conoscenza della politica europea e dei suoi protagonisti, affronta il tema dell’approccio occidentale all’immigrazione come tendenza, come ideologia e come fatto. Quest’analisi globale lo induce a cogliere, non senza allarme, la potenzialità, se non proprio la realtà, rivoluzionaria dell’immigrazione contemporanea, soprattutto in connessione con due fenomeni tipicamente europei che con essa interagiscono: la denatalità, che assume il carattere di autentico «suicidio demografico», e la crisi d’identità, che sempre più somiglia alla condizione tipica, secondo il modello psichiatrico, dello smemorato.

La questione dell’immigrazione in Europa nella seconda metà del secolo XX trascende la mera analisi sociologica, economica, culturale, di un fenomeno storico, per quanto di vasta portata, quasi epocale. Essa ha assunto il carattere di un’ideologia, generata e alimentata soprattutto da tendenze – inclinazioni psicologiche –, che, dalla fine della seconda guerra mondiale e specialmente fino agli anni 1970-1980, hanno provocato nell’anima dell’uomo europeo profonde trasformazioni culturali e di sensibilità, per così dire. Se l’ideologia dell’immigrazione è stata definita dal filosofo francese Pierre-André Taguieff immigrationisme, immigrazionismo, le tendenze che l’hanno generata e la alimentano sono da individuare in un diffuso complesso di colpa per le malefatte colonialiste cosiddette, e più in generale per lo sfruttamento con il quale l’Occidente si sarebbe fatto ricco e potente ai danni delle popolazioni e dei mondi da cui muovono i «migranti». «Da un certo momento in poi, fu possibile avere un’unica opinione accettabile in materia, e cioè che l’immigrazione era un successo e un “arricchimento” per la società. Definirla un fallimento equivaleva a proclamarsi razzisti; esprimere qualche dubbio era come confessare inclinazioni razziste. […] l’immigrazione sarebbe sempre “inevitabile e buona”» (Caldwell, p. 112 [i riferimenti senz’altra indicazione oltre il numero di pagina sono all’opera recensita nella sua edizione italiana del 2009]).

Il fatto immigrazione assume perciò una dimensione qualitativa che va ben oltre la sua dimensione quantitativa, pure abnorme e soprattutto in costante se non geometrica crescita. Da un lato, per troppi europei, soprattutto membri delle élite politiche e intellettuali, è diventato una via per espiare reali o solo pretese colpe dell’Occidente, ovvero il modo privilegiato di attuazione di un modello relativista e multiculturale, e dunque per decenni è stato favorito indiscriminatamente, senza mai porsi seriamente il problema di come disciplinarlo e poi di come regolarsi con gl’im-migrati. Dall’altro, per molti, troppi, di questi ultimi, l’immigrazione ha acquisito il carattere della rivincita, magari proprio sotto l’influenza dello stato d’animo, prima ancora della cultura, corrente in Occidente.

Le teorie successive – come quelle che fanno perno sulle necessità economiche e sociali che consigliano di tenere aperte le porte agl’immigrati, perché gli unici disposti a fare lavori che i nativi ormai rifiutano, ovvero perché senza di loro non sarebbe possibile sostenere il nostro welfare –, spesso elaborate per giustificare l’immigrazionismo, non reggono all’esame econometrico più elementare. Quanto ai «lavori che gli europei non vogliono più fare», si tratta solo di capire che sono lavori che i nativi rifiutano perché scarsamente retribuiti, perciò destinati a scomparire, ovvero a essere rifiutati dagli stessi migranti man mano che si radicano. Quanto al welfare, si calcola che per compensare gli effetti del combinarsi di denatalità e allungamento della vita media, e cioè per ripristinare nel rapporto tra lavoratori e pensionati, che ormai tende verso due a uno, il più sostenibile quattro a uno, occorrerebbero in Europa settecento milioni di immigrati… (pp. 51-61)

Ma il problema è ancora più profondo e grave, e perciò Caldwell parla di Rivoluzione, intesa nel senso di «cambiamento sociale» (p. 352), del perfezionamento della trasformazione radicale del nostro mondo storico e della nostra civiltà, un’autentica sovversione, che va dall’ethos agli assetti ordinamentali europei, coinvolgendo anche la stessa libertà religiosa. Che cosa sono, infatti, la tendenza a mettere in sordina il Natale e i suoi simboli, la guerra al crocifisso e l’occupazione islamica dei sagrati delle chiese per la preghiera – ciò che ha per i musulmani una fortissima valenza socio-religiosa – se non modalità diverse e di diversa intensità, che va dal modulo dell’autocensura a quello dell’aggressività, della riduzione al privato degli spazi di libertà della religione cristiana in Europa? Con motivazioni anche opposte tra loro, ma che affondano le proprie radici nel multiculturalismo laicista, si tende a togliere spazio pubblico al cristianesimo in Europa, guardandosi bene, però, dal praticare la stessa misura con l’islam: l’islamofobia, non la cristianofobia, è un delitto!

Nel 1965, lo scrittore svizzero-tedesco Max Frisch (1911-1991), a proposito dell’immigrazione nella sua patria – ma il discorso è facilmente suscettibile di traslazione all’intera Europa – scrive: «[…] è stata chiamata mano d’opera e arrivano uomini». Si può aggiungere: e uomini che, in quanto tali, inevitabilmente portano con sé una cultura, che non può che essere anche, se non soprattutto, religiosa, e che nel caso dei musulmani è una cultura forte, molto forte e aggregante. Giungono cioè in Europa, più che individui, comunità. Comunità che lungi dal disperdersi sul suo territorio – come i due milioni di musulmani immigrati e residenti negli USA, comunque sottoposti a rigide politiche di assimilazione culturale, che l’autore definisce «procustee», (p. 362) – si concentrano, e fanno gruppo anche nello spazio. E tutto questo con una tendenza demografica alla crescita cui corrisponde, in una combinazione potenzialmente letale, la tendenza all’estinzione dei nativi europei. È questa l’immigra-zione che interessa davvero Caldwell, e che deve interessarci: quella intracomunitaria, o comunque religiosamente omogenea, come la latinoamericana, presenta molto meno problemi, quasi esclusivamente di sicurezza.

Le comunità islamiche – certo non monoliticamente omogenee, non riducibili ad unum, ma abbastanza omogenee, e comunque riconoscibili secondo parametri sufficientemente definiti – si confrontano quotidianamente con un uomo europeo che spesso, come è proprio dello smemorato, non sa chi è e che cosa dev’essere, e quindi assume identità sempre fluide e cangianti, fino a convincersi di non essere nessuno e di non dover essere niente. Il nichilismo europeo scandalizza tra gl’immigrati coloro che optano per il pensiero forte della propria identità – quale che ne sia la ragione – molto più della ferma rivendicazione della cultura e religione europee, che può tradursi nel «prendere o lasciare» rivolto all’immigrato rispetto ai costumi e ai principi propri del Paese in cui ha deciso di andare a vivere (cfr. pp. 366 e ss.). E così, parallelamente alla guerra terroristica all’Occidente – che, com’era facile prevedere, il nuovo clima da Nobel per la pace ha eccitato viepiù –, ai massacri periodici delle minoranze cristiane (indigene, beninteso, non immigrate) nelle aree a dominante sociale islamica, le comunità islamiche in Europa tendono a espandersi, a occupare il vuoto spirituale lasciato dai processi di secolarizzazione, e soprattutto a plasmare l’ambien-te sociale in cui si sono insediate, pretendendo persino di affiancare all’ordinamento giuridico vigente la shari’a, magari nella prospettiva di una totale sostituzione, attesa la sua superiorità morale.

Ma l’Europa politica e culturale, in molte sue componenti, ha forse poco da dire sul punto: «non sa più per quale ragione dovrebbe difendersi» (p. 372). E mostra anche di aver paura.

Da una parte, c’è una «destra» complessata che teme di passare per xenofoba e razzista – senza rendersi conto che spesso tali termini sono autentici strumenti balistici, ma privi di qualunque legame con la realtà – e perciò talvolta somiglia all’allievo che addirittura supera il maestro-sinistra in immigrazionismo. E in questo senso Caldwell descrive puntualmente le posizioni di Gianfranco Fini e Nicolas Sarkozy (soprattutto quando quest’ultimo era ministro dell’interno), irridendo le clausole da essi apposte alle proprie «aperture», e cioè che «gl’immigrati rispettino la legge», come se non fosse un’ovvietà (che però non risolve la questione del conflitto e dell’assimila-zione culturali per la salvaguardia dell’ethos europeo), e come se tra gli effetti delle politiche guidate dall’immigrazionismo non ci fosse anche il deficit di legalità in alcuni, ma non piccoli, ambiti delle comunità d’immigrati (cfr. pp. 335 e 340 e ss.).

Dalla stessa parte, poi, ci sono una «destra» e una sinistra, unite da anti-ameri-canismo e anti-sionismo, quest’ultimo spesso maschera di un antisemitismo o almeno di un antigiudaismo di fondo, e che vedono negl’immigrati «credenti», quindi specialmente in quegli islamici, un alleato oggettivo contro americanizzazione e giudaizzazione.

Dall’altra, c’è una sinistra alla perenne ricerca di un «proletariato interno», per dirla con Toynbee (1889-1975), visto che quello autoctono tende all’estinzione – e cioè non tanto di un gruppo definito socialmente, quanto di gruppi radicalmente ostili all’ordine e alla tradizione culturale occidentali (fa niente se poi il loro modello sociale, almeno in alcune parti, dovrebbe far paura a questi sinistri più di quanto avversino quello che combattono), ché in tal senso va inteso il concetto rivoluzionario di proletariato –, che possa rimpinguare la propria base elettorale (nella più benevola delle ipotesi).

Contro l’immigrazionismo e i suoi effetti, dunque, restano due opposizioni.

Il radicalismo libertino, anch’esso nichilista, che correttamente intravede nelle culture comunitarie di larga parte dell’immigrazione in Europa una minaccia per i propri «principi non negoziabili»: l’assoluta libertà sessuale e l’assoluta indifferenza dei generi (meglio, dei sessi), nonché tutte le libertà legate ad un’idea di autodeterminazione priva di qualsiasi normazione sociale ed etica, e cioè totalmente individualistica. È l’opposizione alla religione e alla sua rilevanza sociale, che fiancheggia la burocrazia e le istanze giudiziarie della UE nella loro ostilità al cristianesimo, ma se ne distanzia per la debolezza nei confronti dell’immigrazione islamica, di cui teme possa prendere il posto dell’ormai superato cristianesimo. È difficile, tuttavia, pensare che l’edonismo nichilista e individualista che lo ispira gli consenta di opporsi in modo organico e oserei dire militante alle temute conseguenze sociali dell’immigrazionismo. L’appello libertino edonista non solo non sembra un richiamo forte, ma soprattutto appare contraddittorio in se stesso per la sua anima individualistica.

Rimane allora l’opposizione fondata sulla piena consapevolezza di ciò che ha dato forma all’Europa, continente culturale e non geografico: la sintesi – non sempre ben attuata e rispettata, ma certo feconda di civiltà – tra la fede cristiana, la ragione ellenica e il diritto romano. Realtà impegnative e che forse dicono poco ai nostri contemporanei in termini concettuali, ma molto dicono in termini di buon senso, soprattutto da quando essi sono stati «assaliti dalla realtà» dell’immigrazione comunitaria di massa, e dell’islamismo come «fenomeno sociale totale» (p. 303). Infatti, i popoli europei, per quanto afflitti da quella crisi di smemoratezza cui più sopra si è fatto cenno, sono in larghissima maggioranza contro l’immigrazione incondizionata e non governata. Sono affezionati, anche se poco o per niente praticanti, ai simboli della loro religione, che stanno ricominciando almeno a stimare e difendere perché avvertono minacciata da religiosità estranee. Sono soprattutto contro la declinazione relativista e neutralista del multiculturalismo, come appare evidente dal risultato – democratico – del referendum svizzero sui minareti del 2009. Tale orientamento però è un problema per la democrazia e per i politici europei abbagliati dalla missione immigrazionista – la trasformazione in senso multietnico e multiculturale delle società europee –, come appare evidente dal rifiuto del risultato di tale referendum nelle reazioni ufficiali degli «abbagliati» e dei «missionari», perché in questo modo essi mostrano di non rispettare le maggioranze, che pure hanno i loro diritti (p. 353).

Quanto possa quest’ultima opposizione costituirsi e agire, è difficile dirlo. Essa è evidentemente in fieri, e scritti come quello di Caldwell, benché non tutti i suoi giudizi siano condivisibili da questo punto di vista, possono aiutarla a formarsi. Certamente non è ancora iscritta all’anagrafe, ma è già nata: pochi tra i politici e intellettuali d’Europa vogliono darle il nome e riconoscerla, ma tra i popoli è viva. Le politiche dell’allora governo italiano e le posizioni della Lega Nord, per esempio, non solo non vengono liquidate dall’autore come razziste o xenofobe, ma traspaiono in filigrana nelle sue domande e nei suoi abbozzi di risposta, come una possibile alternativa.

Non si tratta – è evidente – di azzerare l’immigrazione o di espellere tutti gl’immigrati. L’Europa autentica – quella che vorremmo socialmente ri-fondata sulle proprie radici, il connubio fecondo tra fede, ragione e diritto, cioè sul diritto naturale – si suiciderebbe culturalmente se si chiudesse in se stessa e se negasse l’umanità, e i correlativi diritti e personalità, dei migranti. Chi non vuole che sia negata ai feti, non vedo come potrebbe negarla agli uomini immigrati. Ma anche il magistero della Chiesa – che è cosa diversa dall’opinione degli ecclesiastici – riconosce la legittimità di politiche dell’immigrazione volte a tutelare il bene comune dei popoli verso cui questa si dirige e la loro identità culturale e religiosa (cfr., fra i tanti pronunciamenti, l’enciclica Caritas in veritate, n. 62). La dottrina sociale della Chiesa non solo non nega le frontiere, ma affida ai politici la responsabilità della loro salvaguardia e del-l’individuazione delle soluzioni tecniche allo scopo, senza dimenticare che l’emigra-zione di necessità è un male, e depaupera di risorse umane gli stessi popoli in cui si verifica, per cui anziché favorita, meglio sarebbe adoperarsi provando a rimuoverne le cause in loco. Naturalmente, nessuno può negare all’immigrato ormai giunto i diritti fondamentali della persona umana, ma nessuno può impedire di chiedergli di osservare i doveri che ne derivano altrettanto fondamentalmente, e l’ethos del Paese in cui si è recato (certo diventa un problema quando questo Paese il suo ethos l’ha dimenticato: è allora indispensabile e preliminare restituire la memoria a chi l’ha persa).

Se l’Europa non è in grado di sopportare né la malattia, rappresentata dalle sperimentate ricadute sociali – le rivolte, la pressione religioso-culturale, la solidarietà quando non la complicità attiva con il terrorismo, l’illegalità diffusa, i diversi costumi familiari e sessuali – di decenni di immigrazione di massa incontrollata e identitaria, soprattutto islamica, né la cura, da individuare nella linea dura finalizzata all’assimi-lazione (che per Caldwell, soprattutto se riferita all’immigrazione islamica, ha bisogno di tempi lunghi o lunghissimi e adeguata fermezza), allora il problema appare di difficile soluzione.

Ma i problemi – e l’immigrazione di massa incontrollata è certamente un problema, che non sarà il mantra dell’«accoglienza» senza se e senza ma a renderla ipso facto una risorsa – non si risolvono negandoli, o con le scorciatoie come la cittadinanza facile (la cittadinanza può essere un punto d’arrivo, non di partenza), o stupidaggini politicamente corrette come l’ora di Islam a scuola. Essi consistono in domande non più eludibili, come «[…] può l’Europa rimanere sé stessa pur ospitando una popolazione diversa?». Secondo l’autore, «la risposta è no» (p. 35). Perché, «quando una cultura insicura, malleabile, relativista incontra una cultura ancorata a delle dottrine comuni che le infondono forza e fiducia, è generalmente la prima a cambiare per uniformarsi all’altra» (p. 374).

Credo pertanto che la più urgente missione per l’Europa sia ricostruire la coscienza della propria identità sulle fondamenta del pensiero forte che l’ha formata. Allora nessuna immigrazione potrà più farle paura, com’è accaduto nei secoli passati.

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