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il caso Mare Jonio pare ad essere tornato, dalla scorsa giornata di martedì, ad agitare nuovamente le acque all’interno degli uffici del tribunale siciliano. Dopo la richiesta di archiviazione per Luca Casarini e Pietro Marrone, rispettivamente capo missione e comandante della Mare Jonio, attivata dai magistrati agrigentini, sono apparse diverse indiscrezioni sulla stampa circa le prossime mosse della procura.

In particolare, è trapelata la notizia secondo cui l’indagine adesso potrebbe essere orientata verso i finanzieri, “rei” di aver dato un ordine “senza alcun fondamento giuridico”, come hanno scritto proprio i magistrati nella richiesta di archiviazione. Patrinaggio ha subito smentito questa circostanza, tuttavia non ha negato la posizione secondo cui “la Guardia di Finanza ha operato in un quadro normativo non sempre chiaro e in un contesto sociale caratterizzato da forti tensioni”.

"Nessun appartenente alla Guardia di Finanza è indagato nell'ambito dell'inchiesta sulla nave Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans. Lo conferma all'Adnkronos il Procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio. Gli indagati sono il capo missione della nave Luca Casarini e Pietro Marrone, il comandante della nave, che l'anno scorso avevano disatteso l'ordine della Gdf di entrare in acque italiane. La Procura stessa nei giorni scorsi aveva chiesto al gip l'archiviazione delle posizione di Casarini e Marrone. 

I due sono indagati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e il mancato rispetto di un ordine dato da una nave militare. Nel marzo 2019 il comandante Marrone non aveva obbedito all'alt intimato dalla Guardia di Finanza durante la traversata con a bordo 49 persone. La Procura aveva iscritto i due nel registro degli indagati e sequestrato la nave.

A bordo della nave c'erano uomini e minori non accompagnati provenienti da Camerun, Gambia, Guinea, Nigeria, Senegal e Benin. Tra questi anche in gambiano sceso a terra per primo per le precarie condizioni fisiche. Casarini era stato iscritto qualche giorno dopo il comandante quando venne ascoltato dal procuratore aggiunto di Agrigento, Salvatore Vella, e dal pubblico ministero Cecilia Baravelli. I pm interruppero l'interrogatorio di Casarini come persona informata dei fatti

"In relazione a quanto apparso su alcuni quotidiani si precisa che nessun appartente alla Gdf è indagato per il caso della Mare Jonio - spiega il Procuratore Patronaggio - La Gdf ha sempre operato nel contrasto alla immigrazione clandestina con impegno e dedizione pur in un quadro normativo non sempre chiaro e in un contesto sociale caratterizzato da forti tensioni".

Tali intercettazioni sono contenute all’interno della richiesta di archiviazione per i due indagati e sono state rese note dall’AdnKronos: “Mar Jonio da Pattugliatore Guardia di Finanza Paolini, ripeto, non siete, non siete autorizzati all'ingresso in acque nazionali italiane”, sono queste le prime parole contenute nella trascrizione della conversazione. I fatti sono avvenuti nella notte tra il 18 ed il 19 marzo scorso, nelle concitate ore in cui la nave Mare Jonio, dell’Ong Mediterranea Saving Humans, ha provato ad entrare in acque italiane con 49 migranti a bordo, mentre la Finanza ha intimato l’alt.

“Non siete autorizzati da Autorità Giudiziaria italiana all'ingresso in nostre acque nazionali – prosegue la comunicazione – inoltre, se dovreste entrare in acque nazionali italiane sarete perseguiti per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Cambio”.

È stato questo passaggio ad indispettire maggiormente i magistrati: come già detto nei giorni scorsi,scrive il Giornale .. il finanziere parlando con l’equipaggio della Mare Jonio ha fatto riferimento ad un ordine dell’autorità giudiziaria che in realtà non era mai stato emanato. Da qui quell’infondatezza giuridica, nell’alta intimato dai finanzieri, di cui Patronaggio ha parlato nella richiesta di archiviazione.

“Vi intimiamo l'alt – si legge ancora nelle intercettazioni – arrestate le macchine, ripeto vi intimiamo l'alt, fermate i motori arrestate le macchine, cambio". Quest’ordine dalla Mare Jonio non verrà mai eseguito: "Comandante io non posso fermare nessuna macchina – dichiara un membro dell’equipaggio della nave dell’Ong – perché qui siamo a rischio di pericolo di vita, qui c 'è ci sono due metri di onda comandante, non fermo proprio niente io, io mi ridosso sotto l'isola, perché qui siamo in gravi condizioni di pericolo di vita comandante!”

Dalla motovedetta della Guardia di Finanza, si è risposto ripetendo ancora una volta l’ordine: “Mar Jonio da Pattugliatore Guardia di Finanza Paolini, ripeto, non siete, non siete autorizzati all'ingresso in acque nazionali italiane. Non siete autorizzati da Autorità Giudiziaria italiana all'ingresso in nostre acque nazionali inoltre, se dovreste entrare in acque nazionali italiane sarete perseguiti per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Cambio”.

E qui vi è l’altro riferimento all’autorità giudiziaria che ha ulteriormente richiamato l’attenzione degli inquirenti. Come detto in precedenza, Luigi Patronaggio ha smentito ogni tipo di indagine nei confronti dei membri della Guardia di Finanza. Al contempo, nello scagionare di fatto Casarini e Marrone, la procura di Agrigento ha evidenziato il contesto in cui hanno operato i finanzieri e Patronaggio, nelle sue dichiarazioni, non ha fatto mistero della sua percezione secondo cui l’operato della nave militare in questione è apparso condizionato da un contesto normativo poco chiaro.

Quest’ultima affermazione, rilasciata all’AdnKronos, ha costituito la conferma di come, all’interno della procura, vogliano vederci chiaro. Base dei sospetti dei magistrati sono alcune affermazioni contenute nelle intercettazioni delle comunicazioni tra una motovedetta della Guardia di Finanza e la stessa Mare Jonio.

Intanto l'indicazione di voto della Lega Quello che aveva detto Salvini, di dire anche in Senato sì al processo". Erika Stefani, senatrice della Lega e membro della giunta per le Elezioni e le immunità, conferma all'AdnKronos che la Lega terrà il punto, chiedendo il processo per il suo leader anche in Senato, dove l'Aula è stata convocata mercoledì 12 febbraio, per esprimersi sul caso Gregoretti-Salvini.

I senatori dovranno votare la richiesta di dare il via libera al Tribunale dei ministri di Catania, per processare Matteo Salvini per "sequestro di persona", relativamente ai 131 migranti bloccati lo scorso luglio per quattro giorni al largo di Augusta, sulla nave Gregoretti, della Guardia Costiera.

 

Amato e odiato con la stessa intensità, osannato e ferocemente detestato, fino al lancio delle monetine davanti all'hotel Raphael a Roma, Bettino Craxi viene ricordato e riscoperto a vent'anni dalla morte - avvenuta il 19 gennaio 2000 ad Hammamet, in Tunisia - attraverso documenti, testimonianze inedite e racconti di chi lo ha conosciuto. Mentre sul grande schermo esce  il film 'Hammamet' di Gianni Amelio con Pierfrancesco Favino , in libreria arrivano in questi giorni saggi, romanzi e memoir dedicati al leader socialista. Tra questi 'Presunto colpevole' (Einaudi Stile Libero) in cui Marcello Sorgi ripercorre il crepuscolo di Craxi, il destino di un uomo e di un politico con cui il Paese non ha ancora fatto i conti fino in fondo.

Il caso Craxi rappresenta l'ultimo scorcio del Novecento italiano, sospeso tra la caduta del Muro di Berlino, il crollo della Prima Repubblica e l'alba dei poteri forti che si impongono all'inizio del nuovo secolo.

«La morte di Craxi conclude gli anni Novanta e consegna alla storia del Novecento il principio del primato della politica, mettendoci una bella pietra sopra»

Perché alla fine del 1999 non fu possibile costruire un corridoio umanitario per far rientrare in Italia da Hammamet Bettino Craxi, gravemente malato, e farlo operare e curare in un centro specializzato senza che fosse arrestato? «La mia libertà equivale alla mia vita», dirà fino all'estremo il leader socialista per spiegare il rifiuto di accettare il carcere e la decisione di restare in Tunisia, dove muore il 19 gennaio 2000. Nel resoconto della trattativa, oltre ai familiari del leader socialista si affacciano il governo, il Quirinale, il Vaticano, l'America e la Cia, i magistrati di Mani pulite e i socialisti dispersi dall'inchiesta su Tangentopoli.

Perché una Repubblica che da sempre ha negoziato su tutto per due suoi uomini di punta, due grandi statisti, cioè Aldo Moro e Bettino Craxi, si è rifiutata di farlo, mostrandosi, quanto meno, intransigente e disumana? Se lo è chiesto Marcello Sorgi nel suo recente volume, dedicato agli ultimi giorni e alla scomparsa del leader socialista, giusto venti anni fa: “Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi” (Einaudi).

Sul banco degli imputati ieri sera, al Circolo della stampa estera a Roma, alla presentazione del libro, c’era Massimo d’Alema, che era allora presidente del Consiglio e che oggi almeno, a differenza dei suoi ex compagni di partito che hanno fatto pesare la loro assenza ad Hammamet la scorsa settimana nelle commemorazioni ufficiali, non si sottrae ai dibattiti. D’Alema parla di Craxi come di un uomo sconfitto, su due fronti: su quello giudiziario, ove si trovò ad essere il capro espiatorio di un’operazione di “purificazione” della politica italiana; su quello politico, ove le sue idee non trovarono sponda nel Pci.

Sorgi richiama alla memoria anche i rapporti mai chiariti fra Di Pietro e il consolato americano a Milano, che veniva addirittura informato in anticipo delle azioni del pool. L’ex leader comunista osserva poi di non dover fare autocritica politica, perché l’ha fatta anzi tempo e che, comunque, vicende tanto lontane vanno storicizzate perché è ridicolo chiamare in causa la lotta politica fra Berlinguer e Craxi per spiegare i problemi di oggi della nostra democrazia. Più che un apprezzabile richiamo alla storia, questa considerazione di D’Alema è sembrata però ai più un voler sottrarsi da responsabilità che, da una parte, furono di certo equamente distribuite fra i partiti politici, ma, dall’altra, appartenevano anche in modo rilevante all’ex Pci.

In stampa estera alla presentazione del libro c'è stato un dibattito molto acceso, ancora attuale, tra gli ospiti dell'evento, Massimo D'Alema e Stefania Craxi. Un confronto su un punto preciso: il mancato rientro in Italia da Hammamet del leader socialista per potersi curare, mentre D'Alema era premier a palazzo Chigi. ''C'è stata o no, una grande abdicazione della politica nel confronti di un altro potere? Ti ho sentito spesso rivendicare il primato della politica, dopo 20 anni si può dire che in quel caso non ci fu?'', ha detto Stefania Craxi, rivolgendosi a D'Alema in merito all'intervento che fece con la procura di Milano per il rientro di Craxi, ma che non andò a buon fine, almeno secondo il leader socialista. ''Craxi - ribatte D'Alema - era tecnicamente un latitante. Noi come governo prendemmo una posizione pubblica, dicendo che eravamo favorevoli a che Craxi potesse venire a curarsi in Italia. In quel momento oltre il 90 per cento degli italiani era contrario. Assumemmo una posizione molto impopolare. Parlai con la procura di Milano: Craxi non sarebbe stato arrestato, ovviamente, Borrelli però si impuntò sul fatto che loro lo avrebbero piantonato in ospedale. Ma Craxi disse 'io posso venire solo da uomo libero'. Io non so quale fantasia, Stefania, si sarebbe potuta inventare per impedire che i magistrati decidessero di piantonare Craxi, fare un decreto? Le condizioni erano quelle e Craxi rifiutò".

''Non fu una trattativa nascosta, il governo - continua D'Alema - prese una posizione pubblica, impopolare, e mandammo una delegazione ai funerali''. Una scelta che non piacque alla famiglia Craxi: ''Dici che era un latitante - osserva la figlia dell'ex leader socialista - e voi volevate fare i funerali di Stato. Questa è una vostra contraddizione''. Risponde D'Alema: ''Io ho ritenuto di proporre i funerali di Stato perché le condanne non cancellano il ruolo di Craxi nella storia della Repubblica. Nessuna abdicazione quindi del primato della politica ma anzi la politica si assunse una grande responsabilità. Quale decreto potevano fare per cancellare una sentenza passata in giudicato''. Ribatte Stefania Craxi: ''potevate fare un'amnistia e non lo avete fatto''.

Io non ho partecipato mai al linciaggio politico e giudiziario di Craxi". Lo dice Massimo D'Alema alla presentazione del libro di Marcello Sorgi 'Presunto colpevole, gli ultimi giorni di Craxi' alla stampa estera. "Nel corso di questi vent'anni sono tornato più volte sul rapporto tra comunisti e socialisti, su Craxi. Da tempo insomma siamo arrivati a un giudizio non demonizzante su Craxi".

D'Alema ricorda il ruolo che ebbe Craxi per l'ingresso del Pds nell'Internazionale socialista: "Veltroni ed io andammo a Rimini a incontrare Craxi, c'era anche Giuliano Amato. Noi ponemmo problemi importanti e Craxi ebbe un atteggiamento aperto sul cambiamento in corso nel nostro partito e facilitò adesione del nuovo partito all'Internazionale socialista".

Fatto sta, incalza Stefania Craxi, che, sul primo punto, il fronte giudiziario risparmiò o quasi i comunisti, che pure finanziavano anche loro illecitamente la politica, e costoro li ripagarono non contrastando il loro operato e non facendo valere il primato della politica; sul secondo, gli eredi di quella storia a tutt’oggi si rifiutano di fare fino in fondo i conti con il loro passato, ammettendo che Craxi aveva visto giusto e che la via riformista e anticomunista era per la sinistra quella da seguire. D’Alema non ci sta, dicendo che più che fare la scelta pubblica e impopolare di tentare di far ritornare in Italia Craxi a curarsi non poteva fare: non poteva imporre che tornasse da uomo libero, come il leader socialista giustamente pretendeva.

In uno Stato di diritto, dice, la politica deve garantire l’autonomia dei magistrati. Peccato, ha osservato Sorgi, che le sentenze con cui Craxi era stato condannato tutto erano fuorché imparziali: la Corte dei diritti europea avrebbe riconosciuto qualche anno dopo, in una sentenza storica, che le indagini erano state condotte senza garanzie per l’imputato.

Ma davvero D’Alema non poteva andare più a fondo, salvando la vita del leader socialista, casomai, chiede la figlia, patrocinando un’operazione attraverso i servizi di cui allora era capo? Incalzato anche dal moderatore, il direttore de Il Messaggero Virman Cusenza, D’Alema ha osservato poi che il clima era tale in Italia che quello che lui fece, tantissimo a suo dire, lo ha reso a vita “sgradito a Dio e a li nemici suoi”. E chiama in correità i media che, in quella occasione, presero acriticamente posizione facendo montare nel paese un pericoloso clima giustizialista. Rivendica poi il fatto di essere stato l’unico, con la Bicamerale, ad avere, nel 1997, proposto un sostanzioso riequilibrio dei poteri fra politica e magistratura.

Fu Berlusconi, che del clima giustizialista si era qualche anno prima avvantaggiato, a far saltare allora il tavolo: e così si perse, dice, una “occasione storica”. Aggiunge che non ha mai partecipato al linciaggio di un uomo che, messe da parte le vicende giudiziarie, ha considerato, su un altro piano, un importante uomo di Stato (arrivando a chiedere per lui i funerali istituzionali). Si spinge poi fino a parlare di Mani Pulite come una trama ordita da quel mondo finanziario che pure si era servito del potere politico.

Siamo sicuri che quelle vicende non c’entrino con l’oggi ? Non è forse vero che tante contraddizioni attuali della nostra politica hanno origine in certi nodi né allora né in seguito sciolti ? La storia, come suol dirsi, non fa salti. E, aggiungo, non fa nemmeno sconti.

 

poi, prosegue "all'indomani delle elezioni del '92, Craxi ci propose un accordo di governo e per noi non era proponibile quella strada, Occhetto spinse per questa direzione e credo avesse ragione: per noi non era possibile votare Forlani al Quirinale e Craxi premier. Era troppo tardi. Ma io ho riflettuto molto volte su questo mancato appuntamento e tanti anni fa al nostro congresso a Firenze, io ero leader e riconobbi il valore politico di Craxi. Ma ecco non è che a ogni anniversario si può fare autocritica".

 


Nei giorni scorsi, l’Ambasciata indonesiana a Roma ha organizzato un incontro con i giornalisti presso la Residenza dell’Ambasciatore, al fine di trasmettere le ultime novità dall’Indonesia, diffondere il comunicato stampa annuale del Ministro indonesiano degli Affari Esteri Retno LP Marsudi e aggiornare i media in merito agli sviluppi della cooperazione bilaterale Indonesia-Italia in vari settori durante il periodo 2017-2019.
S.E. L’Ambasciatrice Esti Andayani ha annunciato che nel 2019 i nostri due Paesi hanno celebrato i 70 anni di relazioni diplomatiche e che ci saranno attività particolarmente mirate ad ottimizzare la cooperazione nell’economia creativa e tra le micro, piccole e medie imprese. “Oggi sono molto felice di condividere gli aggiornamenti delle politiche e il recente sviluppo dell’Indonesia-ha ribadito l’ambasciatrice. Inoltre, accogliamo con piacere le presentazioni dei rappresentanti del Ministero Degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale d’Italia e dei Consoli onorari dell’Indonesia riguardanti le relazioni bilaterali tra Indonesia e Italia. Nel campo economico, Indonesia e Italia hanno avuto relazioni crescenti in vari settori economici negli ultimi anni. L’Italia è un importante partner economico, si colloca al 17* posto come paese di destinazione di esportazione dell’Indonesia nel mondo e al 4* posto dopo Paesi Bassi, Germania e Spagna nella Eurozona. Nel settore del commercio, facendo riferimento alle statistiche indonesiane, il valore commerciale tra i due paesi ha raggiunto l’importo totale di 3,77 miliardi di dollari alla fine del 2018. Nel frattempo, nel periodo gennaio-novembre 2019, il volume degli scambi ha raggiunto un valore di US $ 3.17 miliardi. Gli investimenti italiani in Indonesia sono aumentati negli ultimi anni. Nel 2019, fino al secondo trimestre (gennaio-giugno), il valore degli investimenti italiani in Indonesia è stato registrato a 3,9 milioni di dollari, in aumento rispetto a 1,6 milioni di dollari nello stesso periodo del 2018. Nel settore turismo, i dati sull’arrivo dei turisti italiani in visita in Indonesia hanno raggiunto 90.022 persone (+ 13,3% rispetto al 2016), mentre nel 2018 il numero di turisti raggiunto 94.288 persone (+ 4,7%). Nell’anno 2019 (fino a ottobre), i turisti italiani che hanno visitato l’Indonesia sono arrivati a 80.810 persone. Quest’anno 2020, come principio del nostro Presidente Joko Widodo “lavora in fretta, lavora sodo”, l’Indonesia lavorerà di più per migliorare il ruolo di leadership dell’Indonesia, principalmente attraverso la nomina dell’Indonesia come Presidente del Gruppo 77 e della Cina e la nostra partecipazione al Consiglio FAO per il periodo 2020-2021”.
L’Ambasciatrice Esti Andayani a conclusione dell’incontro ha espresso il suo apprezzamento per l’impegno di tutti i collaboratori dell’Ambasciata indonesiana a Roma volto a migliorare le relazioni tra i due Paesi. Inoltre ha anche espresso la sua gratitudine per la solidarietà e l’assistenza dal governo e dal popolo italiano nelle occasioni in cui l’Indonesia è stata colpita da disastri naturali.

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