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Breve storia dell’esplorazione dell’universo

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Abbiamo visto, prima, come la concezione teologica abbia consentito la nascita della scienza; scienza, che poi, sempre più minuziosamente, ha rivelato diversi dettagli quantitativi di quel cosmo uscito dalle mani del Suo Creatore- secondo le Scritture giudaico-cristiane-, disposto con misura, calcolo e peso (Sap. 11,21.) Naturalmente, un universo siffatto, lungi dall’essere caotico o assimilabile a un soggetto vivente pieno di appetiti volitivi, poteva costituirsi come oggetto di studio da parte dell’uomo. Con fatica, in modo sistematico e matematico, da Galileo (1564-1642) e fino agli ultimi dati raccolti dalla sonda Planck, ci siamo fatti un’idea abbastanza precisa dell’Universo fisico nel quale viviamo.

Potrà sembrare strano, ma fino al 1917 le nostre idee sull’universo erano ancora abbastanza vaghe e sulle sue dimensioni non c’era accordo: per molti, l’universo coincideva appena con la Via Lattea, al di fuori della quale si estendeva uno spazio infinito vuoto. Nell’anno su ricordato, invece, Albert Einstein (1879-1955) pubblicò il quinto saggio sulle conseguenze cosmologiche della relatività generale: per la prima volta nella storia era possibile un trattamento scientifico privo di contraddizioni della totalità delle cose interagenti gravitazionalmente (…), contenente, anche, le formule della massa totale e del raggio dell’Universo. (S. Jaki) Tutto questo era stato possibile perché Einstein, con la sola forza della teoria, aveva dimostrato l’equivalenza tra massa ed energia, l’invalicabilità della velocità della luce e la non assolutezza di spazio e tempo. Modificò anche l'interpretazione della gravità: vista come un effetto puramente geometrico, dovuto alla curvatura dello spazio, a sua volta indotta dalle masse. Questa modellizzazione della gravità aveva reso possibile spiegare l’avanzamento di Mercurio al perielio, la deflessione di un raggio di luce stellare passante in prossimità di un forte campo gravitazionale, come quello del Sole e, addirittura, lo spostamento verso il rosso di un raggio di luce emesso all’interno di un campo gravitazionale: c’erano tutte le basi per comprendere l’universo. Allo scopo sarà utile raccontare un divertente episodio accaduto durante la visita che Einstein fece a Hubble, per visitare il grande telescopio da 100 pollici (2,54 Mt), allora il più grande del mondo, a Monte Wilson, in California. Durante questa visita Einstein era accompagnato dalla seconda moglie, sua cugina Elsa Einstein (1876-1936); si narra, che a un certo punto, mentre erano alla base della grande cupola contenente il telescopio, qualcuno fece notare alla signora che quel telescopio era indispensabile per conoscere la struttura dell’universo, lei facendo spallucce, rispose: ” Bene, bene…è quello che fa mio marito sul retro di una vecchia busta”! Tuttavia, neanche la pubblicazione di Einstein aveva risolto la diatriba se l’universo coincideva o no con la Via Lattea: erano, quelli, gli anni del cosiddetto Grande dibattito. Gli schieramenti in campo furono due; da una parte gli astronomi dell’osservatorio di Monte Wilson, capitanati da Harlow Shapley (1885-1972), sostenevano che la Via Lattea contenesse l’intero universo, nebulose comprese. In oppositionem gli astronomi dell’osservatorio Lick, capitanati da Heber Curtis (1872-1972), ritenevano le nebulose altre galassie simili alla nostra. Per risolvere la questione, l’Accademia Nazionale Delle Scienze di Washington, nell’aprile 1920, convocò un’assemblea generale di grandi scienziati. La discussione, spesso accesa, non portò ad alcun risultato definitivo: per capire la sua posizione nel Cosmo, l’uomo doveva ancora indagare.Questo onore toccò nel 1923 all’astronomo americano E. Hubble il quale sfruttò una mirabile scoperta effettuata nel 1912. Quell’anno, la studiosa Henrietta Leavitt (1868-1921) scoprendo nelle stelle variabili cefeidi una relazione tra periodo e luminosità effettiva, offrì agli astronomi un parametro decisivo per misurare l’universo. Non restava che trovare delle Cefeidi nelle nebulose, e il Grande dibattito sarebbe stato risolto: fu proprio quello che fece Edwin Hubble (1889-1953), scoprendone una nella nebulosa di Andromeda o M31. L’emozione fu enorme; M31 risultò trovarsi a novecento mila anni luce dalla Via Lattea. Benché, questa misura risultasse, poi, errata per difetto, era ormai chiara la natura extra-galattica della maggior parte delle nebulose. Anche questa vicenda è accompagnata da un contorno grottesco: vediamolo in sintesi. Shapley aveva calcolato correttamente le distanze degli ammassi globulari, la posizione esatta, non centrale, del Sole nella Via Lattea, della quale aveva trovato le giuste dimensioni, aveva dedotto la giusta formula per calcolare le distanze con le Cefeidi e …dulcis in fundo, probabilmente, aveva fotografato per primo le Cefeidi in M31! C’e n’era abbastanza da vincere il Nobel e, invece, si fece del male da solo; vittima di un carattere testardo, polemico fino all’ultimo, finì col litigare con tutti, a partire da Hubble. Così lasciò il posto a M. Wilson per Harvard, finendo un po’ ai margini Quel che accadde, dopo è veramente pazzesco, inaspettato; prima di partire lasciò le sue lastre a Milton Humason (1891-1972), l’assistente di Hubble, il quale scrutandole e confrontandole con altre, scoprì delle Cefeidi. Humason, correttamente, avvisò Shapley, ma questi, anziché prenderne atto, puntare un telescopio su Andromeda e fare nuove lastre di confronto, appena poté, prese un fazzoletto e cancellò i segni rossi con i quali Humason aveva cerchiato le possibili Cefeidi: non contento, partì lasciando le lastre a Hubble. Per l’astronomo americano, a quel punto, fu un gioco da ragazzi ri-fotografare tutto, confrontare e calcolare mediante la formula, la distanza di M31; ironia della sorte, aveva utilizzato le lastre di Shapley, aveva usato la sua formula matematica adatta a calcolare le distanze delle Cefeidi, per…distruggerne la carriera di scienziato! Si narra, che Hubble, il quale ricambiava, -con gli interessi- l’antipatia verso Shapley, subito mandò a questi un telegramma per informarlo; Cecilia Payne, che era presente al momento dell’arrivo del telegramma, raccontò la reazione di Shapley: ”Ecco la lettera che ha distrutto il mio universo”. Storia significativa e monito verso coloro che, nella scienza come nella storia, non si “piegano ai fatti”, ma sono schiavi delle ideologie, di un pensiero pre-costituito che rifiuta di confrontarsi con il reale. Morale: oggi Shapley è pressoché sconosciuto al grande pubblico, mentre Hubble -che in realtà era un avvocato-, ha dato addirittura il suo nome all’omonima legge, e al grande telescopio spaziale! Eppure, all’epoca, Shapley era anni - luce, è proprio il caso di dirlo- avanti a lui! L’uomo, dunque, aveva “dilatato”, in ogni senso, la sua comprensione dell’universo. Dai tempi di Galileo con il cannocchiale, si era giunti, grazie al grande telescopio di M. Wilson, a registrare la posizione remota delle altre “nebulose”, ora galassie, in più, con l’aiuto dell’analisi spettroscopica Hubble e Humason scoprirono che la luce delle galassie aveva una frequenza spostata verso il rosso. Circostanza, questa, che fece dedurre- ad Alexander Friedmann (1888-1925) e Georges Lemaitre (1894-1966), che le galassie, in accordo con le equazioni della relatività generale, ma contro gli stessi Einstein e Hubble, in un primo momento-, si stanno allontanando velocemente. Si arguì che le galassie si spostano come se fossero state tutte originate, anni prima, da un’unica, gigantesca esplosione. In sintesi, oggi sappiamo che l’universo sotto i nostri occhi è il risultato “invecchiato”, di uno scoppiettante inizio, che ha lasciato in giro tante ceneri, scintille e radiazioni che noi possiamo misurare. Le galassie, tuttavia, non si espandono in uno spazio pre-esistente e infinito, ma è lo spazio stesso a espandersi. Il vecchio esempio del palloncino per bambini che gonfiamo, è sempre valido per rendere l’idea. Tutta una serie di osservazioni, ci conduce, infine, a credere che all’inizio tutta la materia fosse concentrata in un punto piccolissimo: è la singolarità iniziale, ma come disse una volta la prof. essa Margherita Hack (1922-2013), qui finisce la fisica, e inizia la metafisica. Questo perché, all’istante t uguale a zero, cessano tutte le leggi fisiche. L’uomo può iniziare a studiare il cosmo dal cosiddetto tempo di Planck, 10-43s, ma questo lo vedremo la prossima volta.

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