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Si torna al bipolarismo. Il risultato di questa tornata elettorale di inizio anno ci riporta all'eterna sfida tra centrodestra e centrosinistra. Reduce dalle dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico, i Cinque Stelle, che agli ultimi appuntamenti non hanno fatto altro che logorare consensi su consensi, perdono ovunque. E lo fanno incassando un botto senza precedenti: in Emilia Romagna Simone Benini incassa appena il 3,6%, mentre in Calabria Francesco Aiello fa un po' meglio ma viene confinato al 6,7% e non entra nemmeno in consiglio regionale. Un vero e proprio tracollo che conferma il trend di un logorio che dalle elezioni politiche del 2018 in poi è diventato una costante e che ha, appunto, riportato al centro del confronto politico il braccio di ferro tra centrodestra e centrosinistra. Con un dato significativo: dopo la straordinaria vittoria dello scorso ottobre in Umbria, Forza Italia, la Lega e Fratelli d'Italia strappano un'altra Regione al mal governo della sinistra, la Calabria, che fino all'anno scorso era governata dal piddì Mario Oliverio finito indagato per abuso di ufficio in un'inchiesta della procura di Catanzaro. "Forza Italia ha una classe dirigente vincente - commenta il vice presidente di Forza Italia, Antonio Tajani - in tutta Italia c'è una classe dirigente in grado di condurre il centrodestra alla vittoria".

Sia in Calabria che in Emilia Romagna i risultati per i pentastellati sono stati imbarazzanti: solo il 3,47% nella storica Regione rossa e il 7,28% al Sud. "Il risultato dei 5 stelle sul voto di ieri produrrà molto nervosismo nel Governo", aveva commentato Giorgia Meloni. E sembra che la tensione nell'esecutivo sia già arrivata alle stelle. "Basta smarcamenti e bandierine" nel governo, ha tuonato Conte che ha poi cercato di tranquillizzare: "Non vedo nessuna instabilità. Il M5S a marzo arriverà agli stati generali per rilanciare entusiasmo. Si definirà questa fase di transizione e vedrete che avrò ancora di più gli amici del M5S pronti a dare un grande contributo alle riforme e a tutte le misure urgenti che i cittadini attendono".

Poi il premier ha cercato di giustificare il flop pentastellato. "Il M5S non ha conseguito risultati brillanti, ma bisogna considerare tre aspetti - ha detto Conte -. Di Maio si è dimesso; il Movimento si è strutturato sul territorio non come un patito; terzo proprio in Emilia Romagna c'è stata fino all'ultimo incertezza se presentarsi, quindi si è arrivati in una fase di transizione. Non dobbiamo essere ingenerosi quando valutiamo la prestazione".

L'Emilia Romagna resta rossa, mentre il centrodestra strappa alla sinistra la Calabria. Al termine di una campagna elettorale durissima e senza esclusione di colpi, che dal piano regionale ha sempre sconfinato su quello nazionale, il governatore uscente Stefano Bonaccini inacassa il 51,39% delle preferenze e vince sulla leghista Lucia Borgonzoni (43,68%).

In Calabria, la vittoria del centrodestra è una valanga che travolge tutto: Jole Santelli spazza via la sinistra con il 55,82% e confina Pippo Callipo al 30,33%. In questo braccio di ferro, che finisce sostanzialmente in parità, c'è un unico sconfitto: il Movimento 5 Stelle. Tanto che da Silvio Berlusconi e da Matteo Salvini già parte l'assalto al carrozzone del governo Conte.

Giuseppe Conte commentando i risultati delle elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria e chiedendo "una maggiore coesione" nel governo. Dopo il flop del Movimento 5 Stelle, Conte alza i torni e attacca la coalizione di centrodestra e Salvini.

Un attacco frontale al quale il leader della Lega non ha esitato a rispondere: "Leggo che anche oggi il signor Conte passa il tempo ad attaccarmi e a dire che deve lavorare per contrastare me e le destre. Gli ricordo che deve lavorare per il bene degli Italiani, non perché odia qualcuno. Chi vive di rabbia e rancore vive male poverino, camomilla per Giuseppi!".

Per il presidente del Consiglio i risultati delle Regionali non influenzeranno il governo. E non conta nulla se il Movimento 5 Stelle è sparito dal Paese. "È improprio attribuire un significato politico a livello nazionale a degli appuntamenti regionali. C'è una prospettiva di più ampio respiro: dobbiamo lavorare per contrastare queste destre e mi auguro si possa rafforzare un ampio fronte, chiamatelo come volete, progressista, riformista, alternativo alle destre dove possono trovare posto tutte le forze che però vogliono condurre una politica alternativa alle destre".

Un vero e proprio attacco che è stato poi diretto esplicitamente contro il leader della Lega. "C'è chi ha voluto fare di questo voto un referendum pro o contro il governo - ha affermato Conte -. Mi riferisco in particolare a Matteo Salvini, che ritengo esca come il grande sconfitto di questa competizione". Ma le parole del premier non sono finite qui.

Conte ha infatto definito "indegna" la campagna elettorale di Salvini: "Trovo veramente indegno andare di giorno con le troupe e con il clamore mediatico a citofonare additando privati cittadini - colpevoli o innocenti poco importa - per dei reati. Mi ricorda delle pratiche oscurantiste del passato, è un dare all'untore, lo ritengo inaccettabile. Queste sono scorciatoie mediatiche e spettacolari che non possiamo accettare".

La vittoria di Stefano Bonaccini in Emilia Romagna galvanizza il Partito democratico anche a livello nazionale al punto che il vicesegretario dem, Andrea Orlando, è pronto a batter cassa con i 5Stelle.

"Ad esempio il M5S, dopo questa severa sconfitta, dovrebbe rinunciare a un armamentario che non paga elettoralmente e che rende difficile l'attività di governo", spiega a Circo Massimo su Radio capital l'ex ministro della giustizia. Ed è proprio sui temi giudiziari - prescrizione in primis - che Orlando vuol far leva: "Dovrebbe esserci una disponibilità al confronto superiore a quella che c'è stata finora", incalza, "Crediamo che la rivisitazione debba essere fatta nella maggioranza senza coinvolgere altre forze, ma che quella norma debba essere modificata. È un fatto assodato e mi sembra che la trattativa vada in quella direzione. Ora questa spinta può contribuire a dare un esito positivo".

Orlando gongola anche per i dati del Partito democratico che è tornato il primo partito "dopo due tornate in cui in Emilia Romagna era molto distante dall'esserlo". Ma avverte: "Ora bisogna andare a un momento rifondativo" perché "c'è bisogno di aprire il partito e di rimettere in discussione gli organismi dirigenti". Anche perché il voto ha dimostrato - a suo dire - che non esiste una "subalternità" al M5S: "Se la subalternità fa sì che il Pd va oltre un terzo dei voti e il M5S passa al 4%, c'è da augurarsi una subalternità consolidata nel tempo", dice, "Non mi sembra che dagli elettori sia stata avvertita questa subalternità, altrimenti i risultati sarebbero stati rovesciati".

All'esponente dem replica, via Twitter, il pentastellato Michele Gubitosa: "Mi dispiace sentire le parole di Orlando sulla necessità di rivedere l'asse politico del governo. Il Pd e noi stessi abbiamo sempre detto che il voto alle regionali non avrebbe pregiudicato l'attività di governo", spiega, "Spero non si vogliano strumentalizzare le elezioni locali per fare passi indietro su temi decisivi quali la prescrizione o la revoca delle concessioni autostradali. Per il M5s al centro di qualsiasi accordo resteranno sempre i temi per i cittadini"

Luigi Di Maio rassegna le dimissioni da capo politico del Movimento cinque stelle. Il ministro lo ha annunciato, commosso, al termine di un lungo discorso nel quale ha sottolineato la necessità di rifondare M5s. "Io mi fido di voi - ha detto - mi fido di noi e di chi verrà dopo di me. Per arrivare fin qui abbiamo fatto salti mortali. Hanno iniziato Beppe e Gianroberto e a loro va tutto il mio grazie di cuore". "Tanti - ha assicurato - mi hanno scritto non mollare. Ma io non mollerò mai il M5S, il Movimento è la mia famiglia".

"Noi dobbiamo pretendere il sacrosanto diritto di essere valutati almeno alla fine dei cinque anni di legislatura. Io penso che il governo debba andare avanti, perché alla fine" della legislatura "i risultati si vedranno ma dobbiamo avere il tempo di mettere a posto il disordine fatto da chi ha governato per trent'anni prima".

"Le mie funzioni - ha detto Di Maio - passano a Vito Crimi che è il rappresentate anziano del Comitato di garanzia, che ringrazio". Crimi ha fatto sapere che Di Maio non sarà capo delegazione a governo.

"Agli Stati generali - ha detto Di Maio - discuteremo sul cosa, subito dopo gli stati generali passeremo al chi". "Sono consapevole - ha detto il ministro - che parte del Movimento è rimasta delusa e si è allontanata". "Ho lavorato - ha detto Di Maio - per far crescere il Movimento e proteggerlo dagli approfittatori e dalle trappole lungo il percorso, anche prendendo scelte dure e a volte incomprensibili. La storia ci dice che alcuni la nostra fiducia l'hanno tradita ma per uno che ci ha tradito almeno dieci quella fiducia l'hanno ripagata".

"Abbiamo tanti nemici, qualcuno che resiste e che ci fa la guerra. Ma nessuna forza politica è mai stata sconfitta dall'esterno. I peggiori nemici sono quelli che al nostro interno lavorano non per il gruppo ma per la loro visibilità", ha accusato Di Maio. "C'è chi è stato nelle retrovie e, senza prendersi responsabilità è uscito allo scoperto solo per pugnalare alle spalle".

La logica suggerisce che la decisione non può essere totalmente scollegata dalle dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico del Movimento 5 Stelle e dal terremoto interno ai grillini. Scrive il quotidiano il Giornale che la situazione è delicata e il capo del governo non è affatto tranquillo. Anche perché la maggioranza è praticamente a pezzi: altri due pentastellati Michele Nitti e Nadia Aprile hanno lasciato il gruppo per approdare al Misto. Sebbene al momento non vi sarebbe alcuna ripercussione immediata sulla tenuta dell'esecutivo, la tensione è alle stelle. Tuttavia Roberto Gualtieri, rispondendo da Davos alla Cnbc, ha precisato: "Non è una crisi politica. Non sta in alcun modo nuocendo al governo. Rimarrà ministro degli Esteri e non farà male nemmeno alla maggioranza, che è molto ampia in Parlamento. Non cambia nulla". A suo giudizio è da considerarsi semplicemente come "un cambiamento fisiologico nel partito".

Conte deve fare i conti anche con le imminenti elezioni Regionali in Emilia-Romagna: domenica 26 gennaio la roccaforte rossa potrebbe cadere e andare in mano al centrodestra. Il premier ha tranquillizzato: "Il voto in Emilia-Romagna è importante, ma rimane espressione di una comunità regionale e non decide il destino del governo nazionale". Eventualmente però ci sarà una vera e propria offensiva dell'opposizione. "Se dovessimo vincere in Emilia-Romagna e in Calabria, un minuto dopo chiederemo il voto", ha avvertito Giorgia Meloni. Il ministro dell'Economia anche su questo tema ha voluto placare gli animi e le voci: "Prima di tutto le elezioni sono elezioni locali, saranno eletti leader regionali e sono fiducioso che sarà eletto il migliore, ma chiunque sceglieranno non avrà niente a che vedere con il governo nazionale. Spero e sono fiducioso che il candidato progressista vincerà".

Il presidente del Consiglio era atteso continua il quotidiano nel primo pomeriggio: alle ore 16.00 avrebbe dovuto pronunciare il suo "special address" alla comunità di investitori e leader politici, ma ambienti della maggioranza hanno fatto sapere che l'avvocato non potrà partire a causa di urgenti impegni di governo che lo costringono a trattenersi a Roma. Stando a quanto riportato da Bloomberg, una fonte ufficiale ha fatto sapere che il presidente del Consiglio sarà alle prese con un'importante sessione governativa nella Capitale in serata, con dossier delicati sul tavolo. La notizia, al momento, non è stata smentita da Palazzo Chigi.

Luigi Di Maio ne ha impiegati dieci esatti dalla fondazione del meetup di Pomigliano all'elezione a capo politico del M5s nel 2017, mentre Craxi ne ha voluti ventiquattro anni i per arrivare dalla prima tessera del Psi a segretario del partito, come nota Fabio Martini nel suo Controvento. Ma, al di là delle cattiverie snobistiche sul salto dallo stadio San Carlo a Palazzo Chigi, colpisce che Craxi restò segretario del partito per diciassette anni. La stella di Di Maio potrebbe essere sorta e tramontata in tre anni.

L'uomo di Pomigliano resta pur sempre ministro degli Esteri, ma certo il futuro non pare roseo. E nonostante la rapidità del suo passaggio nel firmamento della politica, gli effetti deleteri sembrano tutt'altro che passeggeri o imponderabili. Se si dovesse presentare a Di Maio il conto dei provvedimenti che si è intestato, verrebbe fuori una fattura decisamente salata. Come sottolinea il Giornale a partire dai sette miliardi del reddito di cittadinanza. Della distanza siderale tra le intenzioni dichiarate sul balcone di Palazzo Chigi («abolire la povertà») e gli effetti reali (un pasticcio che al momento crea zero lavoro e alimenta il parassitismo, raramente risolvendo davvero i problemi di chi ha bisogno) si è già scritto tutto. Restano da valutare le ripercussioni future, a partire dalla diffidenza che il crollo inevitabile del reddito di cittadinanza creerà verso questo tipo di sistemi di welfare.

Ed è proprio sul versante del lavoro che «l'effetto Di Maio» scrive il quotidiano della famiglia Berlusconi, ha un bilancio più in rosso. Quanto dovrebbe sborsare l'ex capo politico se dovesse riparare alla gestione disastrosa del ministero del Lavoro e di quello dello Sviluppo, che guidava in epoca gialloverde. Come indicatore si può prendere la cassa integrazione: al suo insediamento a giugno 2018 erano state autorizzate 19,3 milioni di ore di Cigs. Un anno dopo, a giugno 2019, due mesi prima del crollo del governo M5s-Lega, la Cigs era salita del 42 per cento a 27,6 milioni di ore.

Stesso andamento per le crisi aziendali, la cui gestione è in capo al Mise. I tavoli con le aziende in difficoltà erano 144 a giugno 2018. Un anno dopo, a giugno 2019, erano aumentati a 158. I casi più lampanti, Alitalia e Ilva, sono diventati simboli di una incapacità di prendere decisioni e di essere efficaci. Fu proprio Di Maio a chiudere l'accordo con ArcelorMittal gloriandosi di aver «risolto in tre mesi» la crisi dell'Ilva che si trascinava da anni sotto il centrosinistra. La storia poi è andata come sappiamo: si è sfiorata la chiusura della principale acciaieria italiana. E che dire di Alitalia e della meravigliosa idea di affidarla a un partner pubblico? Il dossier ancora aperto costa due milioni di euro al mese. Nel solo periodo in cui Di Maio è stato ministro del Lavoro e dello Sviluppo, Alitalia ha perso circa 900 milioni, coperti dai cosiddetti prestiti ponte.

Ma il vero paradosso di questa parabola politica è che il leader del movimento anticasta si è fatto notare anche per le ingenti spese di gestione. Al Mise e al Lavoro ha piazzato un lungo elenco di amici del liceo, vicini di casa, ex grillini trombati alle elezioni. Uno staff gigante il cui costo è stato stimato in circa un milione di euro l'anno. Passato agli Esteri, ha messo su uno staff grande il doppio di quello di Alfano: costo 711mila euro l'anno.

In totale il «costo Di Maio» ammonta dunque a oltre 8 miliardi. Aggiungendo i 3,5 potenziali quantificati dal tribunale come costo se chiudesse Ilva, si può arrotondare a 12 miliardi totali. 

 

 

 

 

 

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio oggi pomeriggio annuncerà le sue dimissioni da capo politico del Movimento. Di Maio, a quanto si apprende, avrebbe anticipato la sua decisione questa mattina nella riunione con i ministri del Movimento. L'annuncio arriverà in occasione della presentazione dei facilitatori regionali, al Tempio di Adriano. Cresce, in queste ore, l'ipotesi di affidare la reggenza del M5S a Vito Crimi, in vista degli Stati generali previsti nella metà di marzo.

Il martedì dei fantasmi inizia prestissimo. Prima riunione ristretta alle 8.30 di mattina. C'è da scrivere il discorso di addio: un mix tra rabbia e orgoglio. Ma anche un messaggio di responsabilità nei confronti del governo visto che è il ministro degli Esteri. Ma sono pensieri che viaggiano come nuvole.

A un certo punto, chiuso nel bunker della Farnesina, Luigi Di Maio evoca chi è lontano migliaia di chilometri, in Iran: «Potrei fare una cosa con Dibba, un domani». E cioè Alessandro Di Battista, con il quale condivide una certa allergia nei confronti del Pd. Entrambi d'altronde erano contrari al governo giallorosso. Già ma cosa? L'unica certezza è che un Movimento organico nel centrosinistra non potrà mai andargli a genio

Di Maio - «che in queste ore si fida di pochissime persone» - nel pomeriggio avvisa il premier Conte della sua scelta. E poi chiama Beppe Grillo. Questa è la telefonata più complicata: «Non ce la faccio più: è impossibile andare avanti così», si sfoga il ministro degli Esteri con il Garante.

In tanti chiamano in serata Grillo, tutti con un moto d'apprensione. E lui prova a sfilarsi: «So che Luigi domani parlerà. Che dirà? Chiedete a lui, ragazzi». Anche il padre nobile è preoccupato: non sa come si muoverà il suo (ex) pupillo.

Nella testa di «Luigi» si affollano di continuo fantasmi e trincee.

Per esempio, all'ora di pranzo, i suoi collaboratori gli hanno raccontato che è partita la convocazione di un'assemblea congiunta dei parlamentari per la settimana prossima. «Deputati e senatori vogliono metterti alle strette».

In quell'occasione i ribelli che da 3 sono arrivati «a più di 30» saranno pronti a far diventare il documento di un mese fa partorito in Senato una vera e propria mozione. E soprattutto, vorranno discutere «le regole d'ingaggio» degli stati generali destinati a diventare un vero e proprio congresso. E ancora spingeranno per traghettare i pentastellati nel centrosinistra, a braccetto con il Pd.

Ecco perché Di Maio gioca d'anticipo e in un momento di sfogo ammette: «Del risultato dell'Emilia Romagna non mi importa nulla, io ero per non presentarmi: vada come vada. Non vado in tv a commentare un 5%». In cuor suo sa che la notizia del suo addio, potrebbe aiutare, e non poco la narrazione di Matteo Salvini sul voto utile. Il tutto a discapito della maggioranza: «Non è un problema mio».


Di Maio oscilla. Passa dal senso di responsabilità alla voglia di sfasciare tutto. Un ministro lo chiama, con affetto, «il nostro Sansone».
Tecnicamente gli sono rimasti pochissimi fedelissimi: da Stefano Buffagni a Vincenzo Spadafora, forse il duo Bonafede&Fraccaro. Ma forse. Di Maio è infuriato con Patuanelli: «L'ho fatto diventare capogruppo, poi ministro e adesso non fa altro che mettermi in difficoltà. Questa è la gratitudine».

In queste ore Di Maio non pensa di ricandidarsi agli Stati generali, ma immagina per sé un futuro politico molto, ma molto più defilato. L'idea di riprendersi con una mossa a sorpresa il Movimento in quello che sarà un vero e proprio congresso gli viene consigliata dai collaboratori più stretti. Ma poi, dati alla mano, subito pensa a una retromarcia: «Forse torno tra tre mesi». Forse no. Nel tardo pomeriggio gli fanno leggere l'agenzia stampa di nuovi addii verso Fioramonti. Lunedì ce ne saranno altrettanti. «Così non reggo».

"Parlerà" Luigi Di Maio, "la cosa importante è restare uniti, tenere tutti uniti nel movimento, nello scegliere insieme la strada per il futuro". Lo ha detto il ministro per lo sport, Vincenzo Spadafora, uscendo da Palazzo Chigi al termine dell'incontro tra il capo politico M5s e i ministri.

"Di Maio è stato tirato per la giacchetta, dunque aspettiamo che assuma lui un'iniziativa". Lo dice il premier Giuseppe Conte ai microfoni di Nonstopnews", su Rtl. "Se fosse una sua decisione lo rispetterò" anche se "mi dispiacerà sul piano personale", spiega.

Monta quindi la voce insistente di un possibile passo indietro, a breve, di Luigi Di Maio dalla guida del Movimento 5 Stelle. Rumors ricorrenti, non confermati dal suo staff di comunicazione, prevedono addirittura un possibile annuncio del capo politico prima della chiusura della campagna elettorale per le regionali di domenica. 

E mentre danno il loro addio al Movimento due nuovi deputati, oggi il leader M5s presenterà a Roma la nuova squadra di facilitatori regionali scelti dalla Rete per fare da raccordo tra il territorio e la direzione nazionale del Movimento: potrebbe quella essere l'occasione in cui il ministro degli esteri e leader del Movimento fornirà un chiarimento sulle sue intenzioni. Che appaiono legate strettamente alla stessa esistenza di questi nuovi organismi: la durata in carica dei facilitatori nazionali e regionali è infatti connessa alla permanenza di Di Maio al vertice.

Intanto il Movimento continua a perdere pezzi. I deputati M5s Michele Nitti e Nadia Aprile hanno lasciato il Movimento e formalmente fatto richiesta di aderire al gruppo Misto.

"Non posso nascondere che i fatti che mi hanno visto protagonista nell'ultimo periodo mi hanno seriamente scossa - ha detto in una nota Nadia Aprile, Parlamentare uscente del Gruppo M5S alla Camera -. La situazione in cui mi sono trovata è dipesa esclusivamente da un'inesorabile deriva autoritativa del MoVimento e dalla mancata considerazione in cui sono stata tenuta come Parlamentare e come persona". "Dopo aver riflettuto a fondo" e ritenendo "illegittimo ed infondato il procedimento a mio carico ho deciso di non continuare più a militare nel MoVimento".

"Basta andare sul sito tirendiconto.it per vedere che la deputata Nadia Aprile ha effettuato la sua ultima restituzione a dicembre 2018, mentre per Michele Nitti le restituzioni sono ferme ad Aprile 2019. Per tale motivo i due, che ieri hanno annunciato di lasciare il gruppo M5S alla Camera, andavano incontro ad un provvedimento disciplinare". Lo sottolineano fonti del M5S in merito all'addio al Movimento dei deputati Nitti e Aprile.

'La maggioranza alla Camera è solida, non abbiamo nessun timore. La nostra stretta sul termine delle rendicontazioni ha prodotto qualche movimento di persone verso il Misto. La maggioranza è solida sia alla Camera che al Senato, non vedo preoccupazioni". Lo dichiara il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà, interpellato dai cronisti fuori da Palazzo Chigi.

Con i due nuovi passaggi salgono a 14 i deputati ex M5s che siedono al Misto: per formare un nuovo gruppo ne servono 20. In totale in questa legislatura sono 31 i parlamentari eletti con il M5s e passati ad altri gruppi, per scelta personale.

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