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Halévy

Nel gennaio 1929 lo storico francese Élie Halévy (1870-1937), autore di opere significative sull’utilitarismo filosofico e sulla storia dell’Ottocento inglese, venne invitato dall’Universi­tà di Oxford a tenere le Cecil Rodhes Memorial Lectures. I testi del ciclo di conferenze, dedicati alle cause del grande conflitto (1914-1918) iniziato cento anni, fa sono stati pubblicati ora in Italia con il titolo Perché scoppiò la prima guerra mondiale (DellaPorta, Pisa-Cagliari 2014, pp. 120, euro 9,00). L’opera è articolata in tre parti — Verso la rivoluzione (pp. 7-29), Verso la guerra (pp. 31-49) e Guerra e rivoluzione (pp. 51-73) — ed è seguita da un lungo saggio esplicativo dello studioso Marco Bresciani, Élie Halévy e la crisi mondiale del 1914-1918 (pp. 75-120).

Prima ancora di prendere una posizione politica o di offrire un’interpretazione storiografica, Halévy si prefigge il compito di elaborare un nuovo metodo per comprendere le origini e lo svolgimento di quella crisi mondiale, focalizzando la sua attenzione non sulle azioni degli uomini di Stato e neanche sui numerosi incidenti diplomatici, ma sui «sentimenti collettivi», «sui movimenti avvenuti nell’opinione pubblica» (p. 51), che ben prima del 1914 operavano per la guerra e per la rivoluzione: «perché la crisi politica del 1914-1918 non fu soltanto una guerra [...] ma anche una rivoluzione» (pp. 9-10), la rivoluzione bolscevica del 1917. In questo modo egli individua due tipi di forze: il socialismo, che metteva in ogni Paese una classe contro l’altra, e il nazionalismo, che invece cercava di unire tutte le classi all’interno di ogni Paese contro le classi unite di un altro Paese. A giudicare dagli avvenimenti Halévy ritiene che le emozioni nazionali abbiano agito più profondamente dei propositi internazionali e rivoluzionari. In una conferenza del 1936 riconobbe, inoltre, che l’economia di guerra introdotta dalle potenze belligeranti avrebbe portato a una generale «statalizzazione» delle società che avrebbe mutato la struttura stessa dello Stato moderno.

Lo storico francese porta quindi la sua attenzione fuori dall’Europa e muove dalla guerra russo-giapponese del 1904-1905 e dalla conseguente rivoluzione nell’impero zarista, che provocarono una generale destabilizzazione dell’immensa area giacente fra il Pacifico e l’Impero Ottomano: «La guerra si estese da est a ovest; fu l’Oriente che la impose all’Occidente» (p. 38). La crisi terminale degli Ottomani gettò i Balcani in uno stato di agitazione cronica, che propagò l’agitazione nazionalista all’interno dell’Impero austro-ungarico, mettendone in pericolo la stessa sopravvivenza; la scelta degli Asburgo di reagire a questa minaccia radicale, sostenuti dall’Impero Germanico, mise in moto un meccanismo di alleanze, divenuto presto inarrestabile, che condusse in breve alla Grande Guerra.

Halévy distingue due fasi del conflitto, la prima — fino al 1917 — quando gli Imperi Centrali andarono più volte vicino alla vittoria, e la seconda a partire dalla Rivoluzione Russa, che inizialmente illuse gli austro-tedeschi e i loro alleati ma si rivelò poi un boomerang, perché contribuì a determinare l’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America: questi, infatti, avevano bisogno di una causa disinteressata per giustificare l’intervento, cui la maggior parte della popolazione era contraria, e «grazie alla caduta dello zarismo, la guerra poteva adesso essere proclamata in nome del programma democratico» (p. 65) proclamato dal presidente statunitense Woodrow Wilson.

Ne trasse beneficio lo schieramento anglo-francese, che poté infine trionfare, ma non la pace, impregnata d’ideologia e di utopia, che produsse un mondo instabile, scosso dalla competizione di vecchie e nuove realtà statuali e attraversato da passioni nazionaliste: «una guerra rivoluzionaria» — conclude Halévy — non poteva «concludersi altrimenti che con un trattato rivoluzionario» (p. 67).

napoli capitale

Proseguendo nella presentazione dell’ottimo volume della Valensise, “Il sole sorge a Sud”, il territorio pugliese viene valutato come un“un lembo del Sud che in realtà è il Nord del Sud”. Qui è quasi tutto diverso dal resto del Meridione, a cominciare, dal passato, dalla tradizione, “l’antico non è, come in Calabria, una condanna dalla quale rifuggire, un fardello dal quale emanciparsi in una spericolata corsa verso il nuovo (…)”. Qui in Puglia, il passato, secondo la giornalista de Il Foglio,“non è un retaggio da coltivare con scetticismo velato di ironia, come succede in Sicilia (…)”. Invece in Puglia, “il passato è una materia viva, risorsa, alimento e passione, sangue, terra, dolore e ricompensa. E soprattutto progetto”. Addirittura i pugliesi sono riusciti a rivalutare la pizzica, il morso della tarantola”. Da quindici anni a questa parte è diventata un fenomeno di costume. “Si è trasformata in un grande evento popolare che ogni anno riunisce nelle piazze del Salento decine di migliaia di persone, giovani, meno giovani,(…) disposti a ballare per ore e ore, davanti al palco dei concerti itineranti nei comuni della Grecia, al suono di musiche popolari, di tarantelle storiche”.

La taranta è diventata un’industria del turismo, in grado di attrarre ogni estate trecentomila persone itineranti da una piazza all’altra della Grecia salentina. In questi territori perfino l’arrivo degli albanesi ha contribuito a modificare il proprio modo di pensare. “Dovevamo giocarci una nuova partita, - ha detto il sindaco di Melpignano - rispondendo da protagonisti, in modo autonomo, senza imitare il Nord, ma provando a essere noi stessi.” E’ questo il miracolo postmoderno del Salento, tra barocco e taranta. In fondo al Salento si arriva a Otranto e qui la Valensise, apre l’abituale pagina di storia, descrivel’assedio ottomano di Maometto II nell’estate del 1480, con ben duecento navi. Mentre i notabili scappavano, il popolo otrantinoresistette,finché i turchi aprirono una breccia e entrarono nella cittadella, trucidando tutti, e sgozzando l’arcivescovo Stefano. Successivamente ottocento uomini, fatti prigionieri, invitati a rinnegare la fede cristiana, guidati da un sarto di professione, un certo Antonio Primaldo, scelsero la gloria del martirio. Furono tutti decapitati sul colle della Minerva a uno a uno dal boia ottomano. La leggenda vuole che il vecchio Primaldo, decapitato, si rialzasse in piedi e rimanesse immobile con la testa sgozzata. Ora troviamo le loro teste nelle teche di vetro dietro l’altare della cattedrale di Otranto. Gli ottocento sono stati beatificati da papa Wojtyla, mentre l’anno scorso papa Benedetto XVI, qualche giorno prima del suo addio al pontificato, li ha canonizzati.

Per questo straordinario episodio si registra poco orgoglio da parte dei pugliesi, soltanto Alfredo Mantovano, ex sottosegretario agli interni, cattolico militante di Alleanza Cattolica, li ricorda paragonandoli ai martiri cristiani di oggi trucidati in Iraq dal fondamentalismo islamico. “Solo lui legge quest’episodio di resistenza di un’intera città alla proposta di abiura come la prova estrema della difesa dell’Occidente, avvenuta nella scettica Italia del Rinascimento, a dispetto degli interessi degli stati contrapposti l’uno all’altro in una guerra di predominio continua(…). In un certo senso il disinteresse di allora è simile a quello di oggi.

Per quanto riguarda l’economia, il testo della Valensise racconta esperienze di uomini e donne che hanno fatto impresa in questi territori, che hanno scommesso in un territorio molto diverso da quello lucano o calabrese, qui è “tutto dolce, lieve e mitigato e la stessa violenza sembra assumere tratti stemperati”.

Inizia con il regista barone Edoardo Winspeare, convinto che la Puglia non ha bisogno di lamentarsi, come avviene in altre regioni del Sud. La Puglia potrebbe essere rappresentata come un popolo di formiche, come la “Masseria Carestia”, vicino Ostuni. Un fortilizio guidato dai Massari, dove si produce di tutto con procedimenti all’avanguardia, che la giornalista de Il Foglio, descrive abilmente. Ogni giorno da Carestia, escono migliaia di confezioni di peperoni, zucchine, pomodori e carote, verdure per tutto l’Italia e per l’Europa. Mentre in un piccolo centro vicino Taranto, a Crispiano, c’è il miracolo di Michele Vinci con la sua Masmec, un’azienda leader nel settore dell’automazione industriale, con clienti finali le grandi imprese automobilistiche come la Bmw, Mercedes Benz, Porsche, Wolkswagen, Fiat.

Per comprendere meglio l’antropologia pugliese, e la rivoluzione mentale in atto, la Valensise fa un paragone stuzzicante e divertente, tra due uomini dello spettacolo abbastanza conosciuti: Checco Zalone , l’ultima maschera della commedia dell’arte e del teatro barese e Lino Banfi, il “terrone provolone”, un erotomane pieno dicomplessi.

Prima di arrivare a Taranto, a Martina Franca, troviamo Mario Desiati, un giovane scrittore, che riesce a raccontare la provincia italiana e soprattutto la difesa dei trulli, quei muretti a secco, che nessun pugliese sa più costruire. Si arriva a Taranto, la città dei due mari, ricca di storia, è una delle città più mitologiche d’Europa. “Qui ogni pietra trasuda la storia della civiltà”. Basta scavare un po’ e la terra restituisce tesori sepolti da millenni. Purtroppo negli anni ci sono stati quelli che l’hanno fatto indisturbati, trafugando ogni ben di Dio. La Valensise evidenzia il ruolo della città come apertura ad altri popoli, “appare ancora oggi come un’antica metropoli cosmopolita, un crogiolo di razze, lingue, costumi”. Taranto è la città di Giovanni Paisiello, il grande musicista dell’inno borbonico, ma è anche la città dell’Ilva ex Italsider, con i suoi fumi rossi e la polvere color ruggine che ora sta distruggendo l’ambiente. E qui Valensise, si ferma sulla sciagurata politica della grande industria pesante, in particolare fomentata negli anni 70’dalla sinistra, che “sognava di cambiare il volto dell’antropologia meridionale, di riscattare il bracciante, di creare, grazie alle ciminiere industriali, l’uomo nuovo per liberarlo dalla servitù della terra”.

Dopo Taranto il viaggio contromano della Valensise arriva nella “Terra laboris”, nel Sannio a Benevento, una città simile alla Svizzera, pulita, ordinata, accogliente. Qui si respira un’altra aria, niente indolenza o strafottenza.

Benevento è la città della “Strega”, il liquore, forse più famoso in Italia. Altra azienda interessante è l’olio di Montesarchio, uno dei più grandi complessi agroindustriali del mondo. “Oggi è considerato un caso di studio in fatto di gestione industriale e crescita produttiva, per aver raggiunto un fatturato che ha moltiplicato per dieci i 20 milioni di finanziamenti pubblici a fondo perduto(….)”.

Prima di arrivare a Napoli, si passa nella costa sorrentina, dove tra ristoranti rinomati e bellezze naturali, capisci che qui è un mondo a parte. Eccoci finalmente a Napoli, città, capitale del grande Regno Borbonico, che ha stregato visitatori illustri a cominciare da Goethe che la considerava la più bella metropoli del Mediterraneo, la più grande città marittima dell’Europa. L’illustre ospite rimaneva talmente estasiato del popolo napoletano che poteva affermare:“Non lavorano semplicemente per vivere, ma piuttosto per godere, e anche quando lavorano vogliono vivere in allegria”. Ancora una volta Valensise polemizza con la storia ufficiale dei vincitori, Napoli, forse era l’unica capitale d’Italia, dopo l’unità diventa soltanto una semplice prefetturadel neonato Regno d’Italia. A questo punto il testo riafferma quello che ormai per la verità ammettono in tanti, tranne qualche “residuato bellico” ultraliberale risorgimentista: il Regno delle due Sicilie era “l’unico che godesse una situazione di prosperità finanziaria, con una rendita pubblica fra le più alte d’Europa, quotata alla borsa di Parigi al 105-106 per cento del suo valore nominale, mentre la piemontese, con lo stesso valore demaniale, stentava a tenersi sul 70 per cento”. Certo la vera Storia va studiata tutta, senza però “rancori retroattivi”, che diano sfogo a rivendicazioni e nostalgie fuori luogo. Chiudo con il riferimento al “Modello Sanità”, il quartiere difficile di Napoli dove don Antonio Loffredo insieme a tanti giovani è riuscito a fare grandi cose. Ho già presentato la straordinaria esperienza del prete napoletano. Ribadisco Penso che queste esperienze positive, dovrebbero essere conosciute meglio per incoraggiare tutti a lavorare senza lamentarsi o piangersi addosso.

 

 

viaggio al Sud

Marina Valensise nel suo “Il sole sorge a Sud”, Marsilio editori (Venezia 2012), si augura di “rompere il muro del silenzio”, che domina nella sua Calabria. Ma non è facile, anche se alcuni uomini delle istituzioni, che lavorano da anni sul territorio, intravedono qualche reazione tra la gente.Però non sembra pensarla così il magistrato Nicola Gratteri, da anni in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta e autore di libri di successo, ha decretato che “la ‘ndrangheta non finirà mai, durerà finchè dura l’umanità”, ma Gratteri, scrive la Valensise, “è un pessimista tragico, come può esserlo un greco di Gerace. E’ un sostanzialista convinto dell’irredimibilità del male che combatte. Un’idea opposta a quella di Giovanni Falcone, che invece era un creaturista(…)”. Comunque sia Gratteri per la giornalista de Il Foglio,“è nutrito da un’antropologia negativa della Calabria e del calabrese, estendibile per lo più al meridionale”.

Certo visitando l’Aspromonte, “ultima Thule”, della penisola e del continente, ha ragione il magistrato calabrese. La Valensise ha percorso quelle strade in mezzo allo straordinario paesaggio delle tante fiumare, tra boschi e rocce. “Mai contrasto è apparso più stridente tra la natura splendida e apparentemente incontaminata del luogo, e la desolazione degli abitanti, circondati da criminali, estorsori, taglieggiatori, omicidi, sfruttatori, troppo a lungo difesi dal silenzio, protetti dalla cerchia di amici e parenti, che nei piccoli centri di mille abitanti bastano a conquistare la maggioranza ed eleggere un sindaco”.Su questo vasto territorio di ben 37 comuni, si potrebbe proporre un itinerario turistico, che potrebbe fare la gioia di tanti appassionati di trekking. Il libro della Valensisecon la sua attenta descrizione, ci fa penetrare nel territorio, attraverso strade più o meno tortuose, che da Locri, Bovalino, portano a San Luca, la città natale dello scrittore Corrado Alvaro.

La giornalista non si ferma a raccontare l’attualità, ma spesso fa riferimento al passato, alla Storia, ai grandi viaggiatori, per lo più inglesi e tedeschi, che hanno descritto in diari i loro strepitosi viaggi, come Edward Lear che s’inerpicò sull’Aspromonte con un cavallo per i bagagli, perlustrando il territorio da Motta San Giovanni a Bagaladi, da Condofuri a Bova, via San Luca, Polsi, fino ad arrivare a Gerace. Naturalmente non poteva non descrivere il fenomeno del santuario della Madonna di Polsi, con tutto il suo fascino, tra sacro e profano. “Era, e continua ad essere, un posto pazzesco”, scrive Valensise, qui si possono vedere pellegrini frammisti ad animali che avevano diritto ad entrare in chiesa.

Continuando il viaggio, il libro descrive e racconta la “Piana” di Gioia Tauro, con i suoi boschi di ulivi secolari e di agrumeti, dove è difficile intraprendere e scommettere sul futuro. La giornalista come per altri territori, elenca nomi e fatti che riguardano la zona, a cominciare dalle particolari tecniche intimidatorie di “controllo” del territorio delle varie cosche. Ma parla anche di imprenditori che nonostante le difficoltà riescono a resistere e a fare impresa, è la “fierezza di essere calabresi”, che lottano “a mani nude contro la malavita, per resistere all’illegalità fatta sistema”. Il libro si sofferma sull’”utopia del Quinto centro Siderurgico”, un “assurdo economico”, che negli anni settanta dopo la rivolta di Reggio per lo “scippo” del capoluogo, aveva illuso tanti calabresi. Infatti allora il ras cosentino del Psi Giacomo Mancini, stabilì che a Cosenza sarebbe andata l’Università, a Catanzaro la Regione e a Reggio il Quinto centro siderurgico. Per far posto all’industria furono espropriati 120 ettari di uliveti fertilissimi. Dopo il tramonto del centro siderurgico, nel 1995 decolla l’idea del porto per navi container, in pochi anni Gioia Tauro diventa il secondo porto per il trashipment del Mediterraneo dopo Valencia. Uno dei rari esempi di imprenditoria sana nel sud Italia. Ma i problemi restano ugualmente, pare che il porto sia rimasto un’immensa fortezza assediata, dalle varie cosche della ‘ndrangheta, che praticamente non permettono di far decollare e sviluppare la grande impresa.

Passando a l Nord-est della Calabria, si giunge in un’altra “Piana”, quella di Sant’Eufemia, anche qui tra mille difficoltà, si arriva a Lamezia, attraverso due strade: l’autostrada e la vecchia statale 18. Secondo gli inquirenti, nonostante l’apparente tregua, pare che su 72 mila abitanti del Comune,“gli organici alle cosche, sarebbero almeno tremila”. Valensise punta la sua attenzione su un piccolo centro, Soveria Mannelli , di 3500 abitanti su una terrazza di 800 metri di altitudine, a trenta chilometri da Lamezia, è un’isola sulla Sila piccola, in mezzo alle querce, ai larici, ai castagni. Soveria è il comune più informatizzato d’Italia, con la connessione Wi-Fi per l’intero abitato. Qui la mafia non c’è. Semplicemente non esiste”.E proprio qui è nata un’interessante impresa editoriale dei fratelli Rubbettino, un’azienda fondata dal padre Rosario, un libraio visionario. Un’impresa che dà lavoro a 80 persone e fattura 8 milioni di euro l’anno. Una specie di “Svizzera calata nel cuore della Sila”, in realtà la Rubbettino, forse è “un pezzo d’Europa immerso nel cuore della Calabria Citra, o Citeriore(…)”. Attenzione, quelli della casa editrice Rubettino non si sentono degli eroi, ma persone normalissime. Infatti, si schermisce Florindo Rubettino, “il problema qui al Sud non è l’eccellenza, ma il deficit cronico di ordinarietà, è la normalità come cultura diffusa”. Sarebbe interessante dilungarsi sulle opere pubblicate dalla casa editrice calabrese, qui sono usciti tutti i classici del liberalismo austriaco, mitteleuropeo, ostracizzato dall’egemonia della cultura di sinistra.

Ritornando alla questione criminalità, è molto interessante quello che scrive Enzo Ciconte, che ha studiato le mappe delle cosche fornite dalla Commissione antimafia, comparandole alle mappe storiche del brigantaggio, “sostiene che dove ci fu il brigantaggio, come nell’antico marchesato di Crotone, di cui facevano parte la Sila cosentina e la Sila catanzarese, la ‘ndrangheta non c’è. E viceversa, dove c’è la ‘ndrangheta, come nel reggino, il brigantaggio non ci fu o fu sporadico”.

Pertanto secondo la Valensise, sostenere “la filiazione tra brigantaggio e ‘ndrangheta non è solo luogo comune, ma un falso storico, accreditato spesso dagli stessi ‘ndranghetisti in cerca di blasone con cui nobilitare la rivolta contro lo stato e le classi dominanti”. Inoltre,concludendo, è importante riportare le parole di Florindo Rubbettino, il direttore credo dell’azienda, a proposito del fare impresa al Sud: “Noi cerchiamo di ragionare sul Sud in termini innovativi, senza piangersi addosso, senza costruirci da soli le gabbie mentali. Puntando sul piagnisteo, sul rivendicazionismo neoborbonico, sul Mezzogiorno vittima dello stato unitario che cerca sempre altrove le ragioni della sua debolezza, per meglio invocare il risarcimento, non si rende un buon servizio al Sud Italia. Si finisce per perpetuare quella dipendenza clientelare che è il principale ostacolo allo sviluppo autonomo del Mezzogiorno”.

La Valensise però precisa che la riscoperta e l’amore per le radici che si respira alla Rubbettino, tra l’altro anche nei piatti e nei vini dell’agriturismo di famiglia, non è solo orgoglio identitario, ma soprattutto “un volano per la crescita della competitività dell’impresa e del territorio”.Un’ulteriore nota finale, a proposito di case editrici, peccato che la Valensise non si è rivolta all’ottima “D’Ettoris editori”, fondata da Pino D’Ettoris, che opera a Crotone, anche qui si potevano trovare altre buone motivazioni per fare impresa al Sud.

sulle orme di goethe

Effettivamente leggendo lo straordinario libro di Marina Valensise, “Il sole sorge a Sud” (Marsilio 2012) sembra di riscoprire il nostro Meridione in tutti i suoi aspetti, dagli innumerevoli paesaggi alla ricca Storia, dalla cultura alla fede. La Valensisedescrive e racconta talmente bene quello che ha visto che invece della penna sembra di utilizzare il pennello del pittore. Un testo così straordinario nel suo genere, credo di non averlo mai letto. Non vorrei esagerare ma sembradi avere in mano una specie di summa, una veloce sintesi (anche se si tratta di ben 363 pagine) per conoscere il Sud in tutti i suoi aspetti. E chissà se non potrebbe essere utilizzato nelle nostre scuole magari del Sud per stimolare i nostri studenti allo studio della propria storia, e per una maggiore autocritica sulle tante cose che non vanno.

Continuando il viaggio della giornalista , attraverso l’inverno della Basilicata e delle Puglie, il “Nord” del Sud.

Risalendo la Ionica si arriva alla Piana di Metaponto, nella Lucania, che sembra la California.Valensise si intrattiene su le due città simbolo della regione: Matera e Potenza. Matera con i suoi Sassisembra un inferno dantesco che Togliatti bollò come “una vergogna nazionale”. Effettivamente gli abitanti dei Sassi vivevano come bestie, peraltro con le bestie, in uno stato di arretratezza offensiva per la dignità dell’uomo, e di promiscuità insopportabile. Fu De Gasperi con un’apposita legge nel 1952 a far uscire 15 mila materani che ancora vivevano nei Sassi e a deportarli nelle case popolari. “Oggi i Sassi, dichiarati nel 1993 dall’Unesco patrimonio dell’umanità, sono l’ultima frontiera del lusso e del glamour, la meta chic più esclusiva del turismo internazionale di lusso”. Dietro all’incredibile metamorfosi dei Sassi di Matera, Valensise scopre la regia di un intellettuale, un uomo di cultura, l’avvocato De Ruggieri, che ha creduto nel miracolo di rivalutare il territorio dei Sassi. Secondo lo studioso Matera è la città viva più antica del mondo, ininterrottamente abitata da dodicimila anni. Ultima curiosità che può trasformarsi invergogna per Matera: c’è la stazione ferroviaria, ma il treno non è arrivato mai. Il paradosso è che qui per anni hanno prodotto le carrozze per l’Etr500, i treni ad alta velocità, carri merci, addirittura i carri navetta per il tunnel della Manica.

Anche per la Basilicata, Valensise apre delle parentesi storiche a cominciare dell’epico viaggio del capo del governo liberale Zanardelli, bresciano, nel 1902,“il settentrionale più meridionale d’Italia”. Nei paesi della Lucania ha potuto vedere con i propri occhi “il lavoro” sporco che qualche decennio prima hanno fatto i suoi compagni mettendo a ferro e a fuoco quei territori per sgominare il cosiddetto brigantaggio. Praticamente l’emigrazione della popolazione lucana aveva decimato interi paesi. Se non emigravi non mangiavi, questo è il risultato della “liberazione” dei popoli meridionali soggiogati dai biechi borboni.

A proposito del brigantaggio, a Rionero, nella patria di Carmine Crocco, c’è il museo del Brigantaggio. “Il brigantaggio fu l’unico momento in cui i contadini furono protagonisti”, scriveva Carlo Levi. E ogni anno il Comune di Rionero dedica una giornata intera al mito del “Generale” Crocco, con passeggiate nei boschi, letture di poesie, filmati, mostre d’arte. E a proposito di celebrazioni storiche, la Valensise riporta nel libro, la grande manifestazione teatrale che si svolge in ogni estatepresso il “bosco della Grancia”, a pochi chilometri da Potenza. Qui si assiste a un cinespettacolo dal vivo, fra boschi secolari, castelli diroccati, dirupi sinistri. Ben quattrocento figuranti volontari, intere famiglie in abiti d’epoca, da luglio a settembre, mettono in scena la vita quotidiana ai tempi dell’insorgenza antinapoleonica e antipiemontese per raccontare “la Storia bandita”, cioè quella storia dei briganti e del brigantaggio. L’ideatore del progetto è Giampiero Perri, convinto di riscattare il passato: “Noi meridionali, nei libri di scuola, è come se prima del 1860 fossimo stati privi di uno stato. E invece facevamo parte di un regno che aveva una dimensione statuale e un progetto di sviluppo per il Mezzogiorno, fondato sull’incremento delle vie del mare, sul potenziamento della marina mercantile, sulle industrie portuali. La conquista piemontese per noi meridionali segnò una frattura: significò smantellare i porti, trasferire i cantieri, fermare impianti storici come le ferriere di Mongiana(…) Continua Perri, “è un errore non ripensare quel trauma storico che per il Sud fu il Risorgimento(…). Lo spettacolo della Grancia ha lo scopo anche di purificare la memoria. Perri ci tiene a precisare che loro non intendono fare “un’operazione di nostalgia, ma il tentativo di ritrovare l’antica dignità. E glielo dice uno che considera l’Unità d’Italia un punto di non ritorno(…)”.

La Valensise ricorda “La Conquista del Sud”, raccontata dall’indimenticabile Carlo Alianello, nei suoi romanzi sull’annessione forzosa del Regno delle Due Sicilie al Regno Sardo, che io adolescente, ho avuto la fortuna di leggerenel lontano 1972.

Ma continuiamo il viaggio, si passa a Potenza, l’illuminista giacobina, da contrapporre alla Matera borbonica. Pare che sia stata una delle prime città italiane ad alzare il vessillo tricolore. Potenza è una città moderna che per controbilanciare Matera, che ogni anno allestisce nei Sassi, un presepe vivente con 700 figuranti volontari e 40 animali selezionati, ha deciso di lanciare una grande mostra di presepi.

Devo correre, passo al Salento, pieno di Storia, con il suo Barocco e soprattutto la Taranta, di recente scoperta.

In Puglia, ci sono diverse Puglie. La regione appare come una sterminata distesa pianeggiante dove si coltiva grano, la vite, l’ulivo. Nel Gargano, scrive la Valensise non piove mai, previsioni smentite proprio in questi giorni dopo il disastro della tanta pioggia. Si parte da Lecce l’armoniosa, come la chiamava Tommaso Fiore, è la città più seicentesca d’Italia, che ha conservato intatto il suo splendore, “tanto che appare al visitatore come una fantasiosa selva di pietra intagliata: putti, puttini, draghi, scimmie, aquile, grifoni e caproni, stemmi, leoni e cariatidi, statue e statuette (…)”e tanto altro. Girando per le strade della città “è tutto un teatrino barocco”. I grandi viaggiatori, come l’archeologo Winckelmann, ne rimase rapito: “Lecce, è dopo Napoli, la più bella e la più grande città del Reame”. Dal 2001 il barocco è diventato il brand, il marchio di fabbrica con cui rilanciare l’immagine della città nel mondo. Anche qui si apre una parentesi storica sull’avvocato Liborio Romano, il “traditore” dell’ultimo re del Regno Duo Siciliano, Francesco II, che per scongiurare il peggio, cioè violenze e spargimenti di sangue, chiamò i camorristi a governare la città di Napoli, prima che arrivasse Garibaldi. Mentre Francesco II combatteva, finalmente, la sua battaglia a Gaeta insieme alla giovane regina Maria Sofia. A questo proposito la Valensise cita il giornalista napoletano, del “Mattino”, Gigi Di Fiore, autore di la “Controstoria dell’Unità d’Italia”, un altro testo che racconta la vera storia che mise fine a sette secoli di storia del regno del Sud. Ritornando al viaggio, dopo Lecce sulla strada per Otranto, si fa tappa a Sternatia, una degli undici paesi della Grecia salentina, dove ancora si parla grico, un dialetto atavico. Qui si balla in piazza per la Notte della Taranta, festival itinerante che dal 1998 riunisce nel Salento migliaia di persone per ballare la pizzica, una musica popolare, con tamburelli e fisarmoniche.

Copertina Woods

La collana “Magna Europa. Panorami e voci” diretta da Giovanni Cantoni per l'editore crotonese D'Ettoris si arricchisce di un altro volume fondamentale, dopo quelli – obiettivamente essenziali per comprendere la nascita e lo sviluppo della civiltà occidentale come la conosciamo noi oggi, dello storico britannico Christopher Dawson – questa volta ne é autore lo storico e saggista Thomas E. Woods Jr. che ha pubblicato per la Regnery di Washington una guida inedita, curata per il lettore italiano da Maurizio Brunetti, destinata a rimanere a lungo nelle biblioteche degli appassionati di storia, oltre che dei cultori più esigenti della vicenda umana di un Paese sempre e comunque centrale per la storia dell'Occidente degli ultimi due secoli: gli Stati Uniti d'America (cfr. Thomas E. Woods Jr., Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d'America, D'Ettoris Editori, Crotone, pp. 348, Euro 24,90). L'autore, esponente di rilievo di quella vera e propria galassia conservatrice a stelle e strisce che si richiama al patrimonio morale e intellettuale di figure-chiave del secolo appena passato quali Russell Kirk (1918-1994), Richard Weaver (1910-1963) e Robert Nisbet (1913-1996) é già noto in Italia per aver pubblicato qualche anno addietro un testo divulgativo, ugualmente politicamente scorretto, per il grande pubblico, intelligentemente apologetico (Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale, Cantagalli, Siena 2007) e un saggio di Dottrina sociale - di quelli per cui la fede diventa seriamente la cifra, e al tempo stesso la soluzione, della complessità del reale - piuttosto impegnativo nelle riflessioni (La Chiesa e il mercato, Liberilibri, Macerata 2008). Il volume è aperto da un invito alla lettura di Marco Respinti (“La 'scoperta dell'America': un invito alla lettura”, pp. 11-19) che fa stato di non pochi dei luoghi comuni che ancora oggi caratterizzano la conoscenza-media dell'universo statunitense agli occhi dell'uomo della strada. Il quale, ormai, sempre più assediato dall'egemonia imperante ed onnipresente del 'politicamente corretto' non è più in grado di fare quell'operazione di necessaria bonifica nel mare magnum delle informazioni (ma più spesso, francamente, de-formazioni della verità) che il circuito mass-mediatico gli propone ormai quotidianamente senza soluzione di continuità. Così, parafrasando un autentico maestro della migliore memoria continentale, il francese Gustave Thibon (1903-2001), occorre tornare con decisione alla realtà come essa é, qui e ora, giacché “a fronte e di fronte alla rivoluzione culturale, che sia si alimenta strumentalmente dell'ignoranza delle cose e della 'verità delle cose', sia ha per scopo la produzione stessa di quell'ignoranza, il realismo é [...] azione ben temperata di contro-rivoluzione” (p. 16).

Segue quindi una “Nota del curatore” (pp. 21-22) che presenta la vera e propria equìpe di traduttori, correttori e revisori che hanno partecipato alla rifinitura della versione italiana e quindi una corposa “Bibliografia” (pp. 23-32) che dà l'idea del vasto, quanto variegato, orizzonte culturale e ideale a cui le riflessioni dell'autore si ricollegano. L'esordio vero e proprio dell'opera é rappresentato invece dalla “Prefazione” (pp. 33-35) che offre quale significativo incipit una citazione fulminante dell'attore e comico statunitense Will Rogers (1879-1935): “in America il problema non è tanto che la gente non sa; quanto piuttosto che la gente pensa di sapere precisamente quello che non sa” (p. 33). Chiosa l'autore: “in nessun altro contesto l'osservazione del grande umorista é più appropriata che nel campo della storia americana. Il resoconto di questa storia di cui la maggior parte degli studenti, quantomeno negli ultimi decenni, ha fatto esperienza consiste in una serie di cliché tristemente scontati: la Guerra Civile fu solo una questione di schiavitù, la legislazione antimonopolistica federale ci salvò dal mondo malvagio del grande business, il presidente Franklin [Delano] Roosvelt [1882-1945; 1933-1945] ci fece uscire dalla Depressione, e così via. Dall'insediamento dei coloni fino alla presidenza di Bill Clinton, questo studio, nel suo piccolo, ha lo scopo di mettere le cose in chiaro” (p. 33). A questo fine sono quindi dedicati i successivi diciotto capitoli che, se non mirano ad essere una lettura esauriente e definitiva della storia americana, lo stesso Woods lo esclude, vorrebbero però iniziare a rimettere un po' di ordine sparso in tanti, troppi, ambiti della storia patria nazionale che – trattandosi, com'è ovvio, anche dell'ultima Potenza mondiale rimasta ormai sulla scena – hanno dei riflessi non propriamente marginali anche sulle scelte geopolitiche, economiche e persino educative dell'ora presente.

Il I capitolo (“Le origini coloniali della libertà americana”, pp. 37-48), ripercorrendo le tappe dell'arrivo dei coloni britannici dall'altra parte dell'Oceano, si premura di dimostrare soprattutto il forte anelito alla libertà che li aveva spinti a fuggire dalla Madrepatria rischiando in prima persona e la loro marcata, e orgogliosa, identità religiosa. Saranno in effetti soprattutto questi due 'caratteri' a dare vita al celebre 'spirito americano' che si affermerà successivamente. “Per i coloni la religione era fondamentale” (p. 39) e le questioni spirituali erano vivacemente dibattute: da Nord a Sud, nei contesti sociali più diversi ed eterogenei, ma sempre in pubblico. La convinzione di fondo, in ogni caso, la stessa che poi li aveva spinti fin laggiù, era che nessun governo centrale avrebbe potuto intromettersi – per nessun motivo – nell'esercizio del diritto pubblico alla libertà religiosa. Qualora l'avesse fatto, sarebbe venuto meno lo stesso patto fondativo dell'Unione che si connotava così fin dall'inizio come la terra per eccellenza della libertà, e per questo tendenzialmente scettica di fronte a ogni idea, progetto o proposta (figurarsi i casi concreti) di Stato centralizzato. Il dato emerge con chiarezza nel secondo capitolo dedicato proprio agli eventi che portarono i coloni a separarsi dalla Madrepatria (“La rivoluzione conservatrice americana”, pp. 49-54). Contrariamente infatti a quanto ancora – talvolta, si dice – quella americana (1775-1783) non fu una rivoluzione ma una reazione, con l'obiettivo di conservare (e non cancellare) ciò che era stata la loro storia civile fino a quel momento. Per dirlo con le parole di Woods: “gli americani che protestarono contro l'usurpazione inglese delle libertà coloniali volevano preservare i loro diritti tradizionali, non erano rivoluzionari in cerca di una riorganizzazione radicale della società” (p. 49). I loro riferimenti naturali, e ideali, erano da ricercare più nel Medioevo (come la Magna Charta del 1215) e all'alba dell'età moderna (come la Petizione dei Diritti del 1628), non certo nell'illuminismo francese della seconda metà del XVIII secolo a cui pure per diverso tempo sono stati legati da una storiografia ideologizzata con l'obiettivo – neanche troppo nascosto – di stravolgere decisamente l'identità stessa della Nazione americana. Insomma, “gli americani difesero i loro tradizionali diritti [mentre] i rivoluzionari francesi disprezzavano le tradizioni della Francia e cercarono di rifare ogni cosa daccapo: nuove strutture di governo, nuovi confini provinciali, una nuova 'religione', un nuovo calendario” (p. 52). Quello che accadde dall'altra parte dell'Oceano fu allora “una guerra americana per l'indipendenza in cui gli americani si sbarazzarono del potere britannico al fine di conservare le proprie libertà e autonomia di governo” (p. 53). Il volto che assunse il Paese all'indomani dell'indipendenza é descritto nel successivo capitolo, il terzo (“La Costituzione”, pp. 55-69), in cui Woods illustra sinteticamente le fondamenta dottrinali dal federalismo americano, a partire dall'istituzione del Primo emendamento, varato, non a caso, in tema di libertà religiosa per garantire le prerogative del libero cittadino dalle eventuali usurpazioni dello Stato centrale, qualcosa che gli ultimi Presidenti – soprattutto di estrazione democratica – hanno ripetutamente attaccato determinando una serie di conflitti istituzionali, amministrativi e politici che da ultimo hanno scosso l'opinione pubblica e molti dei quali sono ancora in corso. Il quarto capitolo (“Il governo americano e i 'princìpi del '98'”, pp. 71-84) esaminando la versione americana della teoria politica dei checks and balances evidenzia ulteriormente le ragioni storiche che avevano contribuito allo sviluppo di una radicata cultura civica delle autonomie locali, come la definiremmo in Italia. Il fatto da tenere a mente, quando si considerano i primi anni dell'indipendenza, è che “poichè gli Stati erano parti costituenti dell'Unione e avevano goduto di un'esistenza indipendente molto prima che la Costituzione fosse decretata, i primi uomini di Stato americani vollero munire gli Stati di qualche protezione nei confronti del governo federale. A quest'ultimo non fu concesso di avere l'autorità esclusiva d'interpretare la Costituzione: in maniera consistente, avrebbe altrimenti emesso decisioni a suo favore e, con il tempo, consolidato il proprio potere” (pp. 74-75).

Quello che realmente mutò la fisionomia iniziale degli Stati Uniti fu invece la Guerra di Secessione (1861-1865) che decretò – questa volta sì – un progressivo avvicinamento del Paese verso concezioni del mondo e atteggiamenti più propri delle ideologie astratte e quindi dei fenomeni intrinsecamente rivoluzionari in quanto tali. Eppure, come noto, anche qui una vulgata di parte ha diffuso nei decenni passati versioni a dir poco manichee del conflitto come degli stessi eventi che lo precedettero. Anzitutto, per quanto controverso possa apparire oggi a un osservatore esterno, la guerra non fu combattuta 'soltanto' – e neanche principalmente – per l'abolizione della schiavitù. L'esercizio del predominio politico ed economico di un gruppo di Stati sull'altro svolse un ruolo perlomeno di pari importanza. D'altra parte, non fu certo per altruismo che il Nord voleva impedire l'introduzione della schiavitù nei nuovi territori: l'obiettivo, chiaramente, era riservare quelle terre ai soli bianchi. Gruppi e movimenti abolizionisti, peraltro, esistevano ed erano diffusi anche al Sud: anzi, per essere più precisi, “nel 1827, operava negli Stati meridionali un numero di associazioni contro la schiavitù maggiore più di quattro volte rispetto a quelle del Nord” (p. 87). Persino nella drammatica vicenda, poi diventata celebre, dello schiavo del Missouri Dred Scott (1795-1858), si omette spesso di ricordare che fu proprio un tribunale del Sud a dichiararne la liberazione mentre per paradosso la Corte Suprema federale, investita del caso successivamente, annullò il giudizio legittimando di fatto lo status di schiavo. La guerra che seguì, la prima guerra totale della storia dai tempi del paganesimo (illustrata nel capitolo sesto, “La guerra fra gli Stati”, pp. 107-122), e che non risparmiò la popolazione civile, lasciò ferite profonde e difficile a rimarginarsi del tutto ancora oggi. In ogni caso, anche qui va ribadito che non fu la questione della schiavitù il reale casus belli. Prima ancora che il primo presidente repubblicano, Abraham Lincoln (1809-1865), entrasse in carica, già sette Stati del Sud avevano lasciato l'Unione (Carolina del Sud, Texas, Louisiana, Mississippi, Alabama, Georgia e Florida): stando alla mens dei Padri Fondatori, d'altronde, ne avevano pienamente diritto. Il diritto all'autogoverno era stato scolpito in tutte le loro carte e, secondo le loro stesse parole, avrebbe dovuto essere difeso fino allo stremo, eventualmente anche a costo di uscire dall'Unione, come di fatto avvenne all'inizio degli anni Sessanta di fronte a un governo centrale divenuto oppressivo. Jefferson Davis (1808-1889), presidente degli Stati sudisti che formarono gli Stati Confederati d'America, sosteneva inoltre che “le basi legali per la secessione si potevano trovare nel Decimo emendamento della Costituzione. Questo emendamento aveva stabilito che ogni potere che non era stato delegato al governo federale dagli Stati e non era proibito agli Stati dalla Costituzione rimaneva un diritto degli Stati o del popolo. Siccome la Costituzione non si esprime in merito alla questione della secessione e gli Stati non delegarono mai al governo federale il potere di reprimerne una, la secessione rimaneva un diritto riservato agli Stati. Questo era stato, in parte, il motivo per cui James Buchanan (1791-1868), il predecessore di Lincoln alla Casa Bianca, aveva permesso ai primi sette Stati sudisti di allontanarsi pacificamente dall'Unione. Sebbene non ritenesse che essi possedessero il diritto di separarsi, nemmeno credeva che il governo federale avesse il diritto di usare la coercizione nei confronti di uno Stato secessionista” (p. 109).

Così, quando, nell'aprile del 1861, Lincoln inviò una nave per ri-apprivigionare un forte federale nella Carolina del Sud (che era già uscita dall'Unione e non ammetteva certo che il governo federale potesse continuare a mantenere delle guarnigioni sul suo territorio) e i sudisti risposero aprendo il fuoco, fu l'inizio della guerra. Lincoln dichiarò lo stato di ribellione e richiamò 75.000 uomini della Guardia nazionale in servizio. Per tutta risposta, a quel punto fu inevitabile, dichiararono la secessione anche gli altri Stati del Sud che erano ancora nell'Unione: Tennessee, Virginia, Carolina del Sud e Arkansas. Per aggiungere un ulteriore spunto significativo di riflessione, l'autore ricorda la lista delle persone autorevoli che si trovavano d'accordo con il diritto alla secessione, definendola “impressionante” (p. 111). Vi si leggono, tra gli altri, i nomi di Thomas Jefferson (1743-1826), principale estensore della Dichiarazione d'indipendenza e terzo presidente degli Stati Uniti, John Quincy Adams (1767-1848), sesto presidente, William Lloyd Garrison (1805-1879) il celebre abolizionista, William Rawle (1759-1836) e Alexis de Tocqueville (1805-1859). Correttamente parlando, quindi, la guerra non fu combattuta tra gli Stati del Nord e quelli del Sud ma tra gli undici resisi indipendenti e il governo federale. Per questo, “nessuno che abbia studiato l'argomento contesterebbe che, almeno per i primi diciotto mesi della guerra, l'abolizione della schiavitù non era la questione. Il Senato degli Stati Uniti dichiarò, fin dall'inizio, che l'obiettivo della guerra era ripristinare l'Unione e che non c'era nessun altro obiettivo” (p. 112). La stessa figura di Lincoln, recentemente oggetto di nuove pellicole celebrative di enorme successo da parte di Hollywood, va decisamente ridefinita rispetto al mito abolizionista che si è ritagliata. Lincoln, nota Woods, credeva infatti nella superiorità dei bianchi ed era a favore della deportazione degli schiavi liberati: “Nel 1861, fu proposto un emendamento alla Costituzione nel quale esplicitamente si affermava che il governo federale non aveva alcuna autorità – mai – d'intromettersi in questioni riguardanti la schiavitù negli Stati in cui questa esisteva. Lincoln sostenne l'emendamento con questa motivazione: «Ho saputo che è stata approvata dal Congresso [...] la proposta di un emendamento costituzionale che avrebbe l'effetto d'impedire che il governo federale interferisca con le istituzioni degli Stati, comprese quelle riguardanti le persone tenute servizio. Essendo a favore che tale disposizione sia riconosciuta ora come legge costituzionale, non ho alcuna obiezione a che diventi chiara nei suoi termini e irrevocabile»” (pp. 112-113).

Non solo, anche nel resto della sua carriera politica non è difficile trovare conferme delle sue opinioni razziali, così ad esempio in un dibattito del 1858: “Non sono – né mai sono stato – in alcun modo a favore dell'uguaglianza sociale e politica tra la razza bianca e quella nera; e non sono – né mai sono stato – favorevole a dare ai neri la possibilità di votare o di fare i giurati, né a permettere loro di ricoprire cariche pubbliche, né d'imparentarsi con persone bianche; e dirò in aggiunta che c'è una differenza biologica tra la razza bianca e quella nera che, credo, impedirà sempre alle due razza di vivere insieme sulla base di un'uguaglianza politica e sociale. E, se non possono vivere così, fintanto che rimangono insieme, dovranno sussistere una posizione di superiorità e una d'inferiorità, ed io sono, come chiunque altro, favorevole ad assegnare la posizione di superiorità alla razza bianca” (p. 113). D'altronde, per completare il quadro, “come deputato del parlamento dell'Illinois, Lincoln non mise in discussione le leggi discriminatorie contro i neri del suo Stato, votando perché ai neri non fosse esteso il dirittob di suffragio e rifiutandosi di firmare una petizione che avrebbe dato la possibilità ai neri di testimoniare in tribunale [e] fu anche un forte sostenitore della proposta d'insediare i neri liberati in una colonia, convinto che nella società americana non si sarebbero mai potuti assimilare. Come presidente, favorì un emendamento costituzionale che autorizzava l'acquisto e la deportazione degli schiavi e sollecitò il Dipartimento d Stato a individuare possibili aree per un insediamento; fra i luoghi presi in esame, c'erano Haiti, Honduras, la Liberia – dove la colonia degli USA per i liberti esiste tuttora - , l'Ecuador e l'Amazzonia” (pp. 113-114). Dietro la guerra contro il Sud, inoltre, non c'erano solo motivazioni squisitamente politiche di predominio sul resto dell'Unione, anche la dimensione economica giocò un ruolo importante. Come ammisero alcuni degli stessi giornali nordisti, “se al Sud fosse stato permesso di separarsi dall'Unione e di stabilire il libero scambio, il commercio estero avrebbe massicciamente deviato dai porti del Nord verso quelli del Sud, poiché le ditte mercantili avrebbero approfittato dei bassi dazi doganali o del regime di libero scambio vigenti al Sud” (p. 115). Insomma, non proprio una questione di diritti umani. E dovrebbe ulteriormente far riflettere il fatto che persino le cosiddette cinque tribù civilizzate dei pellirossa (Cherokee, Choctaw, Chickasaw, Creek e Seminole) parteggiassero apertamente per la Confederazione con tanto di dichiarazioni scritte. Ce n'è insomma abbastanza per riscrivere – o quantomeno, in buona parte, correggere – intere pagine di alcuni dei nostri manuali di scuola. Quello che invece avvenne dopo la guerra di secessione é oggetto di due dettagliati capitoli, il settimo (“La Ricostruzione”, pp. 123-140) e l'ottavo (“Come la grande imprenditoria rese gli americani più ricchi”, pp. 141-157) che oltre a descrivere la ripresa economica del Paese fanno anche luce sul primo 'storico' impeachment di un presidente: quello che fu avviato contro il successore di Lincoln, Andrew Johnson (1808-1875), e che fallì per un solo voto.

Tuttavia, la chiave di volta decisiva per l'ascesa internazionale del Paese come potenza geo-politica incontrastata fu senz'altro lo scoppio della I^ Guerra Mondiale, la Grande Guerra (1914-1918), che prostrò l'Europa ininterrottamente per quasi cinque anni decretando al contempo la fine di quattro imperi, tre dei quali plurisecolari (quello asburgico, quello russo, quello tedesco e quello ottomano). Lo spiega con dovizia di particolari il nono capitolo (“La prima Guerra Mondiale”, pp. 159-185) in cui l'autore illustra i due pesi e le due misure differenti usati dal presidente Woodrow Wilson (1856-1924) contro la Gran Bretagna da una parte e la Germania dall'altra. Persuaso che occorresse entrare decisamente nel conflitto per dettare poi le condizioni una volta al tavolo della pace, Wilson motivò l'entrata in guerra sostenendo che “gli Stati Uniti avrebbero combattuto per l'affermazione di grandi princìpi morali” (p. 177): non semplicemente per sconfiggere la Germania guglielmina, quindi, ma per sradicare ogni forma di autoritarismo diffusasi nel mondo, rivendicando addirittura la difesa dell'intera umanità. Quello che accadde dopo, è noto. Nel gennaio del 1918 Wilson emanò i suoi celebri “Quattordici punti”, un documento straordinariamente ambizioso, tra l'idealista e l'utopico, che prevedeva persino la nascita di un organismo internazionale che avrebbe dovuto porre fine alle guerre una volta per tutte: la Società delle Nazioni. In realtà, sarà proprio il trattato di pace di Versailles (1919), esageratamente puntivo contro la Germania, vista come “l'epitome dei mali del mondo” (p. 185) che spianerà la strada al revanscismo nazionalsocialista hitleriano e, quindi, alla ben peggiore II^ Guerra Mondiale ((1939-1945), affrontata in tutti i suoi riflessi in due successivi e ampi capitoli, il tredicesimo, “Verso la Seconda Guerra Mondiale”, pp. 237-247, e il quattordicesimo, “La Seconda Guerra Mondiale: strascichi e conseguenze”, pp. 249-261). Fra i due avvenimenti ci furono gli anni Venti, un'epoca solitamente ignorata dalla grande storiografia statunitense contemporanea. In realtà, si legge nel decimo capitolo (“Gli incompresi anni Venti”, pp. 187-193) per l'America furono un periodo di relativa stabilità, prosperità economica e benessere, grazie soprattutto all'azione mirata, ancorchè non urlata né particolarmente propagandata, di due presidenti: Warren Harding (1865-1923) e Calvin Coolidge (1872-1933). I problemi arrivarono invece successivamente, con la Grande Depressione (di cui è oggetto il capitolo undicesimo, “La Grande Depressione e il New Deal”, pp. 195-216), seguita all'improvviso crollo del mercato azionario nell'ottobre del 1929: il PIL pro capite in breve tempo scese del 30%, mentre la disoccupazione arrivò a toccare il 25. Woods spiega che la situazione sociale non fu arginata in alcun modo né dalla presidenza di Herbert Hoover (1874-1964), né da quella – ormai passata peraltro alla storia – del democratico Franklin Delano Roosvelt (1882-1945), colui che condusse il Paese alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale e quindi al consolidamento di una leadership pressoché incontrastata in campo internazionale. Tuttavia, uscire vincitori in tempo breve da una fase recessiva con delle politiche di contrasto é un'altra storia: “ciò che pose fine alla Depressione non furono né la legislazione economica né la Seconda Guerra Mondiale. Fu, piuttosto, il ritorno dopo la guerra a condizioni normali e la fine dell'incertezza che avevano angosciato il mondo degli affari durante gli anni di Roosvelt. Il benessere sarebbe tornato molto prima, se non fosse stato per le politiche [...] devastatrici di Hoover e di Roosvelt” (p. 216).

Il Secondo Dopoguerra, comunque, non fu caratterizzato soltanto dal progressivo ritorno all'economia di mercato e allo status quo ante ma anche dalla lotta senza quartiere alle infiltrazioni comuniste (o filocomuniste) in gangli vitali dell'Amministrazione americana che avrebbero segnato così l'inizio di una nuova, silenziosa, ma non meno insidiosa, guerra globale, la cd. 'Guerra Fredda' (1945-1991). Se ne discute a lungo nel capitolo successivo, il dodicesimo (“Sì, i simpatizzanti comunisti esistevano sul serio”, pp. 217-236) dedicato a confutare leggende nere come quelle che hanno investito oltremodo figure-chiave della battaglia anticomunista, quale, su tutti, il senatore del Wisconsin Joseph Raymond McCarthy (1908-1957). Offrendo numerosi esempi dalla stampa nazionale dell'epoca l'autore spiega che il problema delle spie sovietiche era reale (almeno 350 americani avevano al tempo in segreto rapporti con i sovietici) e altrettanto reale era la congiura del silenzio che occultò per anni crimini contro l'umanità e stragi ineguagliate dei sovietici come quella compiuta da Stalin per affamare l'intera popolazione ucraina che causò (probabilmente) tra i 5 e i 7 milioni di morti. In ogni caso, se davvero McCarthy avesse spinto la Nazione nel terrore non si comprende come mai sondaggi popolari degli stessi anni lo indicassero come uno degli uomini più ammirati d'America e, per dirne una, perchè i Kennedy gli tributarono onori in continuazione: “perchè Joe Jennedy lo sostenne, le ragazze Kennedy fissavano con lui appuntamenti, Robert Kennedy lavorava con lui, e JFK prese le sue difese additandolo come 'un grande patriota' proprio nell'anno in cui subì una serie di critiche sfavorevoli?” (p. 235).

Agli anni Sessanta, segnati dalle battaglie per i cd. 'diritti civili', é dedicato invece il quindicesimo capitolo (“I diritti civili”, pp. 263-283) che rievoca gli episodi sociali più importanti soffermandosi sulle implicazioni giuridiche della contesa e sul ruolo sempre più politicizzato delle corti giudiziarie che – è un fatto – da allora non ha fatto che espandersi a vista d'occhio nelle materie più impensate e inedite (varrà appena la pena di ricordare che la sentenza Roe Vs. Wade che di fatto legalizzerà il diritto all'aborto in tutto il Paese è di qualche anno più tardi). Alle presidenze più recenti, ma - da parti opposte - cruciali, di John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) e Ronald Reagan (1911-2004) sono invece dedicati i capitoli sedici (“John F. Kennedy e Lyndon B. Johnson”, pp. 285-304) e diciassette (“Il decennio dell'avidità?”, pp. 305-313) del saggio. Chiudono l'opera un capitolo chiarificatore (il diciottesimo, “Bill Clinton”, pp. 315-325) sul 'finto centrista' Bill Clinton, i suoi otto anni da presidente e le sue responsabilità nella diffusione del radicalismo islamico nel cuore dell'Europa, e, per chi volesse ulteriormente approfondire le figure meno note di questi due secoli di storia nordamericana, un interessante “Indice biografico” (pp. 327-335).

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