“Non è la soluzione”. Nessuno nega la sofferenza legata alla malattia o alla morte, che spesso ne è l’esito inevitabile, ma occorre essere consapevoli del come affrontare queste evenienze della vita. La malattia si può curare e spesso si può guarire, il dolore si può lenire, la morte si può attendere nel modo più dignitoso possibile. Essere così, accompagnati “nel morire” e non “a morire”, è la sfida che ci attende grazie anche ai progressi della medicina che hanno allungato molto la nostra vita e fatto si che molte malattie, che un tempo avevano un esito infausto e rapido, siano controllate con successo. L’eutanasia e il suicidio assistito accompagnano “a morire”, ma si è visto che dove il malato che non può guarire o chi è giunto alla fine naturale della sua vita, viene assistito, seguito e affidato a chi si occupa di cure palliative, le richieste di eutanasia e di suicidio assistito si riducono drasticamente. “L’eutanasia non è la soluzione. 50 domande e risposte sul fine vita, per aver sempre cura della vita (Cantagalli-Tempi, 2023) è un volumetto che affronta il problema del fine vita e della sua cura. “50 domande per non abbandonare i più deboli”, le persone sole, con famiglie monoparentali, con familiari che “non hanno tempo” per assistere i propri cari nel momento forse più importante della vita. Persone che ti hanno tenuto per mano quando potevi cadere e non trovano nessuno che gli stia accanto quando sono loro a non stare più in piedi. Poi ci sono i poveri che non riescono ad acquistare farmaci necessari, ma che sono a pagamento (fascia C) e da ultimo, gli stranieri. Persone vulnerabili alle quali, come diceva Cecily Sauders (1918-2005), la fondatrice nel 1967 degli hospice, “se uno parlasse della necessità di introdurre per legge l’eutanasia soprattutto toglierebbe la terra sotto i piedi (…), che molto facilmente penserebbero: “Ho il diritto di abbreviare la mia vita, e dunque ora ho il dovere di farlo, perché sono un peso per gli altri, e la mia vita come parte della società è ormai priva di valore””. E se ci fosse una legge che avalla la morte e la fa infliggere dallo Stato, porterebbe un messaggio di “abbandono verso il malato”. “Nessuno mette in discussione l’esercizio del libero arbitrio” e nessuno nega che “la realtà del suicidio appartenga alla drammaticità dell’esercizio della libertà personale”, ma la Elegge Cappato” vuole qualcosa di diverso. Le domande alle quali il libretto curato dal Network associativo “Ditelo sui tetti” e dal centro Studi Rosario Livatino, da delle risposte, sono le più varie e tutte nella direzione di far capire che la soluzione è la cura, il pr3endersi cura, che la dignità della vita “è intrinseca all’essere umano in quanto umano. Altrimenti si arriverebbe ad individuare dei criteri la cui presenza renderebbe la vita non degna di essere vissuta (…), i più deboli verrebbero condizionati a sentirsi inutili e privi di dignità, e a togliersi di mezzo”. Le cure palliative, che nascono in Inghilterra nel 1967, tendono ad offrire “la migliore qualità della vita possibile e il sollievo dalla sofferenze” perché l’eutanasia e il suicidio “non sono la soluzione”.