La mostra “Uzbekistan. L’Avanguardia nel deserto” presenta per la prima volta al pubblico italiano e del mondo occidentale una pagina straordinaria e ancora poco nota dell’arte della prima metà del XX sec. Il progetto espositivo, che si dispone nella sede prestigiosa di Ca’ Foscari Esposizioni a Venezia, è promosso e sostenuto dalla Fondazione Uzbekistan Cultura ed è curato da Silvia Burini e Giuseppe Barbieri, direttori del Centro Studi sull’Arte Russa dell’Università Ca’ Foscari Venezia, coadiuvati da un prestigioso comitato scientifico internazionale; mette insieme, in un arco cronologico dalla fine dell’Ottocento al 1945, circa 100 opere (soprattutto dipinti su tela e su carta, cui si aggiungono emblematici reperti della tradizione tessile uzbeka) provenienti dal Museo Nazionale di Tashkent e dal Museo Savitsky di Nukus, quello che la stampa internazionale indica da qualche anno, non impropriamente, come “il Louvre del deserto”.
È la prima esposizione nella storia a stabilire delle precise relazioni tra le due più importanti raccolte d’arte del Novecento presenti in Uzbekistan: si tratta di un elemento fondamentale per comprendere la profondità di una vicenda artistica come questa, ma non è l’unica novità della mostra. Finora si era pensato infatti alle opere e agli artisti anche più innovativi che lavorano in Centro Asia nel terzo e quarto decennio del Novecento come a una declinazione periferica e marginale della grande svolta operata nelle capitali russe dal 1898 al 1922 da una straordinaria generazione di artisti (Fal’k, Kandinskij, Ekster, Lentulov, Rodčenko ecc.). Ciò che invece si potrà osservare è la genesi e il successivo sviluppo di una autentica scuola nazionale, di una “Avanguardia Orientalis” affascinante e unica. Un risultato straordinario, che è stato possibile ottenere solo affiancando la raccolta del Museo Nazionale di Tashkent (dove già all’inizio degli anni ’20 erano presenti importanti capolavori dell’Avanguardia russa, tra cui 4 opere di Kandinskij) con quella di Nukus: da una parte l’anticipata ricezione di una matrice di grande modernità, che riprende e diffonde anche tutte le esperienze dell’Europa occidentale, dall’altra la sua trasformazione in un linguaggio totalmente originale, multietnico e interdisciplinare.
La mostra presenta come sottotitolo “La forma e il simbolo”. Il primo termine rinvia all’influenza esercitata sulla pittura del Centro Asia dall’Avanguardia storica russa mediante le opere in parte inviate a Tashkent, in altra parte raccolte da Savickij a Nukus: una selezione di segni di straordinaria qualità, mai in precedenza inviati fuori dei confini dell’Uzbekistan, tra cui 4 opere di Kandinskij (due olii e due disegni su carta): Lentulov, Maškov, Popova, Rodčenko, Rozanova sono solo alcuni dei protagonisti di uno scenario, quello della nascita dell’astrattismo, da tempo riconosciuto come uno dei fondamenti dell’arte mondiale del Novecento.
A queste si aggiunge un’ampia selezione di opere dell’Avanguardia Orientalis. Sono l’esito di un dialogo culturale e artistico profondissimo: da una parte le secolari tradizioni delle sete sfavillanti e la raffinata palette delle decorazioni architettoniche che riprendono i colori del cielo e degli scenari naturali, l’incedere degli animali e i suoni di una lunga vicenda musicale; dall’altra l’esigenza non più rinviabile di un codice pittorico nuovo, mai in precedenza sperimentato nell’Oriente islamico. È proprio questo rapporto a conferire uno spessore simbolico alle opere su tela e su carta che sono esposte.
Si tratta inoltre di un dialogo interculturale, che mette insieme artisti uzbeki, kazaki, armeni, russi d’Oriente, siberiani, quasi tutti formatisi a Mosca e a Pietrogrado, ma tutti radicati in una terra che scoprono e in cui scelgono di vivere e lavorare. L’Avanguardia Orientalis è pertanto un’Avanguardia inclusiva, di confronto e collaborazioni, di incontri e di comuni ascendenze.
È una storia spesso avventurosa, che la mostra di Venezia ha scelto di declinare ponendo su un piano di pari dignità i segni pittorici e grafici e quelli delle arti applicate, con una selezione di manufatti tessili che da una parte rivelano insospettabili consonanze con le moderne frontiere dell’arte, e insieme trasmettono, dall’altra, un patrimonio culturale profondamente simbolico, legato ad antichi culti e a pratiche millenarie.
La rassegna di Ca’ Foscari è anche l’occasione per richiamare l’attenzione internazionale sulla figura e l’opera di Igor Savickij.
La leggendaria figura di Savickij è la base del percorso, che ha tra i suoi obiettivi anche quello di far conoscere a un pubblico di non solo addetti ai lavori una personalità essenziale per preservare e tramandare molti aspetti, non solo dell’arte del XX sec., ma del complessivo Cultural Heritage dell’Uzbekistan. A lui si deve, nel bel mezzo del deserto nel Karakalpakstan, nella parte nord-occidentale dell'Uzbekistan, la costituzione di una delle più grandi collezioni di arte d'Avanguardia russa nel mondo, seconda in termini di quantità solo a quella del Museo Russo di San Pietroburgo, e pressoché unica testimonianza di uno dei più importanti movimenti artistici della storia russa del XX sec.
Archeologo di formazione, pittore per diletto e talento, collezionista per felice ossessione, dalla fine degli anni ’50 e fino agli anni ’70 del ‘900 Savickij ha raccolto a Nukus migliaia di reperti archeologici e manufatti di artigianato e arte popolare della regione, affiancandoli col tempo ad altre molte migliaia di dipinti e di fogli di grafica provenienti dall’Uzbekistan e dall’Unione Sovietica, in una concezione attualissima di “museo sintetico”, che la mostra riprende e ragiona nell’ampio catalogo Electa, come pure nella disposizione delle opere e nell’originale allestimento multimediale veneziano.
Savickij ha viaggiato senza sosta per raccogliere migliaia di opere d’arte che nel frattempo erano ormai scomparse anche dall’orizzonte e dalla memoria degli studi: le ha rintracciate negli atelier degli artisti o le ha acquistate da vedove ed eredi, nei “deserti” del rifiuto staliniano e post staliniano per la modernità dell’Avanguardia di inizio Novecento. Ha mantenuto al centro dei suoi interessi le opere degli artisti che avevano vissuto a lavorato nel Turkestan, dove lui stesso era stato evacuato negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Ha fatto rivivere nel deserto di Nukus le radici dell’arte moderna in Uzbekistan.
A Savickij si deve anche la comprensione e la raccolta di un importante, e pressoché inedito, gruppo di opere, pittoriche e grafiche, del Gruppo Amaravella (il termine, sanscrito, di etimologia incerta, probabilmente relativo a “spazio in espansione”), impegnato, in un breve volgere di anni, tra 1923 e 1928, a tradurre visivamente, nel solco della lezione di Nikolaj Roerich, i nodi cruciali delle teorie consiste all’epoca diffuse nel mondo russo. Il Museo di Nukus è il principale contenitore (e tra i pochissimi al mondo) di opere del Gruppo, che saranno esposte per la prima volta a Ca’ Foscari.
Fonte Università Ca' Foscari Venezia / Studio ESSECI