La cultura occidentale attuale tende a rimuovere il dolore e la morte. La morte è considerata un elemento letale, ma difficilmente troviamo una distinzione tra morte e morire. Morte è il momento del distacco, del saluto, dell’addio. Il morire è un processo in divenire che coinvolge pienamente la persona, le sue convinzioni di fede, le sue scelte. E’ un processo che, considerato seriamente, esige una capacità di maturare sapientemente il senso della vita: stare vicino ad un moribondo aiuta a capire molto della vita, non solo della morte. E’ quanto ha messo in rilievo il direttore dell’ufficio diocesano per la Pastorale della salute, don Giorgio Occhipinti, aprendo, ieri pomeriggio, il corso formativo per volontari operanti nella stessa Pastorale, ministri straordinari della Comunione eucaristica e componenti delle cappellanie ospedaliere che andrà avanti sino all’8 dicembre. Ieri, al centro di spiritualità “Cor Jesu” di Ragusa, don Occhipinti ha parlato della malattia nell’Antico e nel Nuovo Testamento. “La società contemporanea, esasperando l’individualismo – ha sottolineato il direttore dell’ufficio diocesano – porta alla solitudine ed alla paura di soffrire. E poi la spettacolarizzazione del dolore e della morte. Cosa è la morte spettacolo? Penso a morti in diretta, a riprese di suicidi, genocidi durante le guerre. Ogni sera durante i notiziari assistiamo impavidi a queste immagini, seduti comodamente in poltrona, forti della nostra tranquillità, restando estranei in modo tale che l’immagine duri il tempo dello spettacolo. E’ il modo moderno di esorcizzare la morte, che si guarda ma che non si vuole vivere; è una tecnica che permette di liberarsi dall’horror mortis, eliminando però anche la serietà, la profondità della morte, dunque eliminando la prospettiva di una maturazione che potrebbe svilupparsi”. “Il mondo laico – ha aggiunto – per quante ricerche abbia effettuato e vette abbia raggiunto nel progresso, avverte la fragilità. Cristo ha deciso di essere un uomo in mezzo agli altri, come gli altri, di morire. La sofferenza, dunque, svela la fragilità dell’uomo. Non bisogna averne paura perché il più delle volte è un momento favorevole. Ed è una sofferenza che coinvolge tutto l’uomo, sia fisicamente che moralmente; la medicina psicosomatica in fondo non ci dice altro che questo, l’unità della persona; bisogna dunque fare uno spazio tra l’aspetto fisico e l’aspetto psichico, anche per l’aspetto spirituale, che può risvegliare energie sopite sconosciute per affrontare il dolore”. All’iniziativa ha partecipato anche il neocappellano dell’ospedale Maria Paternò Arezzo, don Salvatore Giaquinta.