Provate ad entrare in una libreria e cercare volumi dedicati al comunismo o alla storia dell’Unione Sovietica. O ancora provate a cercare le opere del premio Nobel per la letteratura Alexandr Solzenicyn (1918-2008). Carneade, chi era costui? Come scriveva Arkadij Belinkov (1921-1970), dissidente sovietico condannato a morte (1944) per un suo romanzo e poi sopravvissuto, un libro sul Gulag sovietico “non suscita affinità elettive, è puro esotismo e l’esotismo non lo prende sul serio nessuno”. Sono trascorsi diversi decenni dalla caduto il Muro di Berlino, l’Unione sovietica non esiste più, ma quella pagina di storia lunga 70 anni e, per qualche miliardo di persone, non ancora conclusa, non esiste. O almeno così è in alcune librerie. Cercare una perla preziosa come Nel primo cerchio (Voland, dicembre 2018), impossibile, come è capitato a Anna Zafesova, giornalista e Russia watcher, in una libreria di Milano qualche anno fa. La Zaferova ha scritto la postfazione del corposo volume (949 pagine) che esce finalmente nell’edizione integrale. Quella stampata da Mondadori era tratta dalla copia uscita nel samizdat, arrivata clandestinamente in Occidente e che gli fece meritare il Nobel, ma che lo stesso Solzenicyn aveva censurato, “spennato” come dice lui stesso, nella speranza, vana, di vederla pubblicata. Nel 1968 ricostruisce la sua opera integrale che viene pubblicata in Russia nel 1990. Nella copia “spennata” mancano nove capitoli. Il volume non è passato inosservato tanto che a gennaio 2019 è uscita una seconda edizione e se ne è parlato sul Corriere della Sera, Il Giornale, Il Foglio, Il Sole 24 Ore, ma provate a cercarlo in una libreria. Un capolavoro della letteratura mondiale, forse il libro più bello dell’anno, del decennio, del secolo, dove in tre giorni, intorno a Natale del 1949, si dipana una storia che coinvolge decine di personaggi molti dei quali prigionieri politici nel miglior girone possibile del Gulag sovietico. Il primo cerchio, la saraska di Marfino dove si vive una vita dignitosa rispetto agli altri reclusi nel sistema concentrazionario sovietico a patto di lavorare per il potere: costruire apparecchiature che consentano di arrestare altri uomini. Anche se il confine tra la prigione e la libertà è labile come dimostrano le pagine dedicate a Josif Vissarionovic Stalin (1878-1953) prigioniero delle sue paure in una società dove la paura è la vera padrona. “Ad avere sempre paura di qualcosa, come si fa a restare uomini” pensa tra sè Innokentij Volodin il protagonista del romanzo (pag. 14). Decine di storie si intrecciano, anche autobiografiche, ma magistrali restano le pagine nelle quali Alexandr Solzenicyn descrive, con un realismo che qualche decennio dopo verrà confermato da molte fonti, il Capo Supremo che vive come un recluso, “un piccolo vecchio dagli occhi gialli, con i capelli biondicci” che incespica nei lembi della vestaglia. Padrone di mezzo mondo che con andatura strascicante entra “nella bassa camera da letto senza finestre, con i muri in cemento armato”. Sono sei capitoli, dal 19 al 23, dove Solzenicyn descrive con tratti taglienti l’uomo che “terrorizzava perché uno sbaglio commesso con Lui era l’unico nella vita”. “Stalin terrorizzava perché non accettava giustificazioni, non accusava nemmeno. La punta di un baffo che sussultava, e la sentenza era emessa, con il condannato che nemmeno se ne accorgeva: se ne andava tranquillamente, poi veniva preso di notte e fucilato” (pag. 169). Descritta magistralmente la solitudine del Saggio dei Saggi che non si fidava di nessuno: madre, Dio, contadini, operai, ingegneri, soldati, generali. “Non si fidava delle persone a lui vicine. Delle mogli e delle amanti. Non si fidava nemmeno dei figli. E aveva sempre avuto ragione!” (pag 175). E si capisce perché, come scrive Anna Zafesova nella postfazione, Aleksandr Tvardovskij obiettò che Solzenicyn non poteva inventarsi “dettagli così precisi e certi della vita del monarca”. Erano dettagli troppo drammatici, crudi, ma veri che andavano nella logica direzione di “dimostrare che Stalin non fosse una tragica “deviazione”, ma il prodotto inevitabile e logico dell’ideologia comunista (…), non un’eccezione, ma la sua massima espressione” (pag. 944). Forse per questo Solzenicyn non si trova nelle nostre librerie.