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Le radici non gelano. Conflitto tra tradizione e modernità in Tolkien

 

 

 

 

Cinquanta anni fa moriva John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973). L’autore del Signore degli Anelli è stato ricordato da quanti lo hanno amato e continuano ad amare le sue opere. Ci fa piacere ricordarlo attraverso quanto ha scritto nel 2001 un grande appassionato di questo autore, il prof. Marco Tangheroni (1946-2004) che sicuramente oggi lo avrebbe ricordato e celebrato ampiamente. Nel 2001 uscì nelle sale la prima parte della rappresentazione filmica del Signore degli Anelli e un volume di Stefano Giuliano. Il prof. Tangheroni parla di entrambi, ma è nella prefazione al volume di Stefano Giuliano uscito nel 2001, Le radici non gelano. Conflitto tra tradizione e modernità in Tolkien, (Ripostes editore) che si ritrova il pensiero del medievista pisano con alcune interessanti riflessioni personali.

Le riproponiamo dopo più di venti anni perché mantengono la loro freschezza e continuino ad essere uno stimolo a leggere o rileggere questo eterno capolavoro                                                                                                                                    

 “Un gran bel film, non ho dubbi”

 

Esso può piacere, è piaciuto, anche a chi non ha letto il libro. Ma – ed era la scommessa più difficile – può piacere, è piaciuto, anche a chi ha letto il libro e, magari, è convinto, come me, che il romanzo di Tolkien è un grande capolavoro, un classico del XX secolo. Ho sentito diversi appassionati del libro e li ho trovati concordi nell’esprimere una valutazione positiva. Non escludo che il giudizio di  anatici/filologi possa essere diverso; ma occorre saper rinunciare al confronto con le immagini elaborate nella propria mente e non esigere il rispetto di ogni dettaglio. Esso è stato giudicato il miglior

film del 2001 dall’American Film Institute (Afi), vincendo anche per gli effetti digitali e la produzione: possiamo essere, per una volta, d’accordo. Nella sostanza, il regista Peter Jackson ha ben scelto gli attori, ricostruito felicemente gli ambienti, ben utilizzato i meravigliosi paesaggi della Nuova Zelanda (terra in cui il film è stato girato), riportato con chiarezza i dialoghi fondamentali. Anche i tagli – resi necessari dalla lunghezza del romanzo e, quindi, del film, pur diviso in tre parti – sono più che accettabili: quello più vistoso, che ha comportato la rinuncia al pur affascinante personaggio di Tom Bombadil, è ragionevole, trattandosi di episodi autoreferenziali. Né ci si deve scandalizzare del rilievo un po’ accresciuto dato al personaggio femminile di Arwen. Felice è risultato, va aggiunto, pure il doppiaggio italiano, del resto eseguito con la consulenza della Società Tolkieniana Italiana. Dirò anzi che, anche grazie all’uso dei flashback, il ritmo narrativo di questo primo episodio della trilogia è incalzante, distinguendosi dalla lentezza della prima parte dell’opera di Tolkien. Molti lettori hanno stentato a superare le prime duecento pagine, e non pochi si sono scoraggiati; anche se va subito aggiunto che, una volta entrati dentro al mondo tolkieniano, rileggerle è un piacere cui è bello  abbandonarsi. Il successo di questo primo film farà attendere con desiderio la possibilità di vedere gli altri due, già girati. Ma occorrerà, com’è noto, attendere i prossimi due Natali. Intanto, esso stimolerà l’ulteriore fortuna del romanzo, il quale, peraltro ha già avuto un successo duraturo con milioni e milioni di lettori (e di rilettori!), nei più diversi paesi, in diverse generazioni, con varie motivazioni. Alla faccia delle incomprensioni di molti critici. In Italia, poi, il silenzio dell’intelligenkia dominante costituì, a suo tempo, un vero e proprio “caso Tolkien”. Oggi, sconcertata ed impudente, parte della cultura di sinistra cerca improbabili recuperi. Questa non è la sede per approfondire il discorso. Dirò soltanto, per sfiorare polemiche che sono state vivaci nella cosiddetta cultura di destra, che questo romanzo è, a suo modo (il modo con cui può esserlo una storia ambientata in un’epoca pre-cristiana), un classico cristiano. Ed il film, anche da questo punto di vista, rispetta l’opera letteraria. È, infine, bene precisare che il successo e del libro e del film non devono essere interpretati come prova di una colossale crisi collettiva di razionalità, di una pericolosa perdita di senso della realtà. O, meglio, lo sono, come ha scritto Marco Respinti, «se per reale e razionale – magari fra loro coincidenti come vorrebbe Hegel – s’intende solo ciò che è fattuale in senso materiale e addirittura materialistico. No, se – come sta accadendo nella cultura popolare soprattutto a partire dall’ultimo quarto del secolo XX – della realtà e di ciò che non offende ma anzi esalta la ragione umana si ha – anche solo istintivamente,

intuitivamente – una concezione diversa». Insomma. Lo abbiamo atteso per anni; non siamo rimasti delusi.

 

Stefano Giuliano e Tolkien

Prefazione al volume Le radici non gelano. Conflitto tra tradizione e modernità in Tolkien

 

Tolkien, com’è noto, non sempre apprezzava i recensori, i commentatori, gli studiosi del Signore degli Anelli. Mi pare di poter dire che l’importante volume di Stefano Giuliano sarebbe sfuggito al suo biasimo o alle battute salaci con cui liquidava certi interventi. Intanto per una prima ragione: questo autore prende sul serio la sua mitologia; nella sua verità, potremmo dire, cioè nella verità di un mondo “sub-creato”, un secondary world, per esprimersi secondo i termini di Tolkien stesso. Certo, battendo la strada aperta soprattutto da Shippey, basata sull’importanza della filologia per Tolkien narratore, e quindi sull’analisi del rapporto con le diverse tradizioni mitiche, da quelle classiche a quelle celtiche, da quelle anglosassoni a quelle germaniche, qualche rischio Giuliano l’avrebbe potuto correre. Tolkien non amava, in modo particolare, la ricerca delle proprie “fonti”. Ma, si può subito dire, un autore, se ha ragione di pretendere che le analisi critiche si fondino, innanzitutto, sulle sue opere, e non sulla sua biografia o sulle sue stesse dichiarazioni, una volta pubblicati i propri libri – in specie con lo straordinario successo del Signore degli Anelli – non può impedire che gli studi ne approfondiscano la genesi e le interpretazioni. In qualche modo, le sue opere non gli appartengono più; almeno in modo esclusivo. Può soltanto esigere che esse siano serie e quanto più possibile solide. E a me pare che la fatica di Giuliano presenti senz’altro queste caratteristiche di serietà e solidità. La ricerca, nella mitologia, del “materiale” col quale Tolkien costruì il suo mondo non deve limitarsi ad un accumulo di possibili suggestioni. Occorre distinguere ed il nostro autore lo fa – i miti, o gli elementi di miti, che sembrano proprio essere stati recepiti, da quelli che presentano certe assonanze o analogie, ma che non possono essere con certezza considerate come fonti, essendo, magari soltanto assonanze ed analogie tra miti, di quelle che costituiscono la problematica così discussa da diffusionisti e comparatisti, per non parlare del problema degli archetipi. È necessario, poi, essere attenti alle differenze e alle distinzioni. Prendo, dalle pagine che seguono, un esempio. Giuliano ci presenta il personaggio di Gandalf e ne indica i tratti in comune con Merlino e Odino; ma è altrettanto attento ad indicare le «importanti divergenze»: «Merlino e Odino potevano mutare forma a piacimento e trasformarsi in uomini o animali, qualità che Gandalf non possiede affatto, e che invece caratterizza fortemente Sauron, Ugualmente l’aspetto orbo di Odino si ritrova nella mostruosa fisionomia monoculare dell’oscuro Sire e non certo in quella di Gandalf. Infine, l’intima correlazione di Odino con la guerra e la violenza (. . .) nonché la sua azione deliberata nel provocare dissidi tra gli uomini e la morte dei suoi protetti (. . .) si pongono come ulteriori differenze di non poco conto». Inoltre, sottolinea il nostro autore, «un ulteriore elemento separa Gandalf tanto da Merlino che da Odino. Si tratta del sentimento della compassione», manifesto più volte nei confronti sia dei vivi sia dei morti, nemici compresi.

Giuliano non lo dice, e forse non lo pensa, ma io vedo in questo aspetto un esempio di quei tratti cristiani largamente presenti in questo racconto “pre-cristiano”. A Frodo, che reagisce impetuosamente al disvelamento iniziale della storia dell’anello più potente di tutti rimpiangendo la mancata uccisione di Gollum da parte di Bilbo, Gandalf risponde «Fu lapietà a fermargli la mano. Pietà e misericordia: egli non volle colpire senza necessità». E ancora: «Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi». Frodo apprende comunque la lezione, come dimostrerà più volte in seguito. Un discorso analogo si può fare, seguendo il nostro autore, per il personaggio centrale del romanzo, lo Hobbit Frodo. Ciò sia per la pietà, che ha in comune con Gandalf, sia per l’itinerario che percorre in un viaggio che ha carattere ascetico, anche se – ma sarebbe necessaria una discussione dei termini – è eccessivo, come fa il Giuliano, definire la sua figura come quella di un “mistico”. Certo, egli non è un tipico eroe dell’epica (con quel suo continuo porsi in discussione), né un antieroe, come pure è stato detto: avventatamente, come dimostra l’autore di questo libro. Altre notazioni felici troviamo nelle pagine che presentano la figura di Aragorn, che ha indubbiamente diversi aspetti in comune con Artù. Ricordo, in particolare, quanto Giuliano scrive a proposito del potere. Contro certe letture – non estranee al primo successo del romanzo nei campus universitari americani – egli ci ricorda che, come mostra il viaggio di Aragorn a Minas Tirith, teso alla riaffermazione della propria regalità, accanto a un potere «volto al dominio degli esseri viventi e delle cose», c’è, nel Signore degli anelli, un potere «che si ispira a principi trascendenti, che governa senza il bisogno di comandare, teso alla salvaguardia del benessere e dell’identità culturale della comunità». In Aragorn sono evidenti, anche se fortemente rielaborati, i temi, tipici dell’epica medievale, del ritorno del re e del risanamento della terra desolata. Tipicamente medievale, come scrive Giuliano, riprendendo osservazioni di altri interpreti, è anche la concezione del male propria del romanzo, che ha precisi tratti

agostiniani e tomisti. Come appare in Sauron: il male come non-essere. Cito: «Nella prospettiva tolkieniana, il Male non è un’entità a sé stante, ma si denota piuttosto come assenza, vuoto, ombra, oscurità, alterazione fisica; lo Spettro dei Tumuli e i Cavalieri Neri sono fantasmi, il Balrog è una forma scura nell’ombra, gli Orchi hanno fattezze mostruose, Shelob è un ragno abnorme e raccapricciante, il corpo di Saruman, appena morto, avvizzisce e da esso si leva un fumo grigio, ecc.». Sauron, il Grande, il Nemico, l’Oscuro Sire, è ridotto ad un occhio, dai contorni «di fuoco, mentre nel globo vitreo della cornea gialla e felina, vigile e penetrante, si apriva, nel buio di un abisso, la fessura nera della pupilla come una finestra sul nulla», come appare a Frodo nello specchio di Galadriel.

E’ questo un punto importante per una corretta lettura del Signore degli Anelli. Non vi è traccia di manicheismo. Il Bene e il Male non sono affatto su un piano di parità. Sauron – scrive opportunamente Giuliano – non può creare, può solo infettare e corrompere. E di fronte al male ognuno è responsabile della propria scelta, in virtù del libero arbitrio. Una scelta cui nessuno può sottrarsi, perché «potete rinchiudervi in un recinto, ma non potete impedire per sempre al mondo di penetrarvi». Una scelta da compiere ispirandosi a valori perenni: «Il bene e il male non sono mutati in un anno, e non sono una cosa presso gli Elfi e i Nani e un’altra tra gli Uomini. Tocca a ognuno di noi discernerli». È anche falsa l’impressione, che pure fu di non pochi tra i primi lettori e critici, che il romanzo presenti una troppo rigida contrapposizione tra personaggi esclusivamente buoni e personaggi tutto male. Già lo abbiamo notato accennando alla figura di Frodo. Del resto anche gli Orchi furono un tempo elfi e i Cavalieri Neri grandi guerrieri e re. Anche in Gollum, al culmine del processo di sdoppiamento della personalità provocato dal possesso prolungato dell’anello, conserva una personalità positiva, anche se dominata dall’altra. Ma il personaggio che meglio offre una articolata analisi dei meccanismi corruttori di una sapienza originaria è Saruman. Già gran maestro dell’ordine degli Stregoni, egli non si è accontentato del sapere tradizionale, ma si è dato ad invenzioni, compresa la diabolica polvere da sparo, a complesse enormi costruzioni e ad incroci genetici; non ha saputo resistere ad una smodata e presto non disinteressata sete di conoscenza; si è fatto sedurre dalla tentazione del potere (tentazione cui devono resistere tanti personaggi, dalla grande dama elfica Galadriel a Frodo e allo stesso Gandalf; solo l’antico, il più antico di tutti nella Terra di mezzo, Tom Bombadil è da essa immune); aspira ad un governo tecnocratico dominato da pochi saggi e, dopo la distruzione del dominio di Isengard, lo attuerà nella Contea, organizzandovi un regime di stampo comunistico; ha voluto rompere un’oggetto per scoprire come è fatto; ha lasciato il bianco per farsi “multicolore e cangiante”.

Dopo la distruzione del suo dominio da parte degli Ent, i pastori di alberi, la sua voce risuonerà ancora suadente e melodiosa. Ma una risata di Gandalf è il preludio allo svelamento e all’annientamento del suo ultimo inganno, come una risata di Galadriel vince le tentazioni dello specchio ed una risata di Eowin è premessa alla smentita alla profezia che rendeva sicuro il Nazgûl. Il riso arricchisce la tradizionale contrapposizione tra la lue e l’ombra, tra il sole e la notte, così ricorrente nel romanzo.

Ho cercato di mettere rapidamente in evidenza alcuni aspetti dell’interpretazione che del Signore degli Anelli dà l’autore di questo libro, accennando, ancor più rapidamente, a qualche riflessione personale. Ma altri aspetti sono ugualmente, o anche maggiormente importanti nell’impostazione di Giuliano. Come il tema del “viaggio nella terra dei morti”, di cui egli mostra la ripetuta utilizzazione nel romanzo. O l’indagine, presente nello stesso titolo del suo libro, sulla posizione di Tolkien nei confronti della tradizione e della modernità.

Su questo punto avrei da fare qualche considerazione su una certa rigidità interpretativa, pur non sostanziale, bensì di accentuazione dei toni. Mi limiterò a dire che “l’evasione del prigioniero” (l’espressione è di Tolkien stesso) non è un rifiuto della realtà del presente in quanto presente, ma una condanna di molti dei tratti che la modernità ha assunto, e in misura minacciosamente crescente. Per questo Tolkien ci teneva a chiarire che la sua non era “la fuga del disertore”. Se è vero che non si può presentare la guerra del Signore degli Anelli come una rappresentazione ispirata alla seconda guerra mondiale (il che pure fu detto), è anche vero che scrivendo a un figlio negli anni del grande conflitto istituì un parallelo tra Sauron ed il nazismo, una delle grandi incarnazioni del Male nel XX secolo. Così come è indiscutibile il carattere comunista, e non semplicemente e genericamente moderno, della riorganizzazione sarumaniana della contea, non inutile appendice alla conclusione della grande storia con la vittoria su Sauron e l’incoronazione del re ritrovato e restaurato. Ma la discussione dovrebbe essere articolata e vasta. Non è questo – nella presente sede – il mio compito.

Dopo aver presentato temi e personaggi principali del Signore degli Anelli, nella seconda parte del libro Giuliano riprende e segue, dall’inizio all’epilogo, la trama del romanzo, accompagnando i molti episodi con un commento ricco di rinvii alle possibili fonti, più o meno dirette, letterarie, folkloriche e mitiche. Il lettore del Signore degli Anelli lontano da un po’ di tempo dalle pagine di Tolkien potrà qui trovare un’ottima guida ad un opportuno “ripasso”. Più difficile, nonostante la scioltezza del racconto, pensare a questo libro come ad un’introduzione al grande romanzo; ma non voglio escludere la possibilità che qualcuno, magari fin qui erroneamente convinto che il Signore degli Anelli sia soltanto un bel libro di avventure fantastiche, possa trovare una sollecitazione alla sua prima lettura. Certo è che anche i buoni conoscitori del romanzo saranno comunque indotti all’ennesima rilettura, sollecitati dai molti stimoli e dai molti suggerimenti dell’importante volume del Giuliano che molto fa riflettere, molto meditare. E non è davvero poco.

Marco Tangheroni

Università di Pisa, Festa di Ognissanti 2001.

 

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