Ho incontrato Piero Villaggio in occasione della presentazione alla stampa del suo libro Non mi sono fatto mancare niente (Mondadori,2016) e la breve citazione riportata in copertina – la mia vita all’ombra di un padre ingombrante - ha immediatamente colpito la mia sfera emozionale, suscitando in me un certo interesse ad intervistarlo, per capire, entrare nell’anima di questa storia di vita con un percorso umano che rimanda ad interessanti spunti di riflessione per il lettore. Soffermarmi in ogni rigo delle pagine che compongono questo libro mi ha consentito di comprendere, al di la dei facili giudizi di merito, troppo spesso stonati e fuori luogo, alcuni aspetti di un complesso fenomeno, tuttora presente nel nostro tessuto sociale: la tossicodipendenza.
Le metamorfosi culturali avvenute negli ultimi cinquant’anni hanno generato una dimensione attuale del problema senz’altro non paragonabile a quella vissuta da Piero negli anni ’70/80; tuttavia, ancora oggi, purtroppo, molti giovani entrano in questa gabbia per denunciare disagio psicologico, difficoltà nel risolvere problematiche troppo spesso legate a rapporti difficili in seno alla famiglia o malessere esistenziale. Ma il mio compito in questa sede non è quello di fare analisi storico-sociologiche sulla piaga della droga; desidero, invece, presentare ai nostri lettori Piero Villaggio, un uomo sensibile, gentile, sincero in modo disarmante, persino ingeneroso con se stesso, sorprendentemente autoironico, che oggi ha raggiunto un buon equilibrio nel rapporto con i suoi genitori e principalmente con il famoso papà, l’attore Paolo Villaggio.
La strada del recupero è stata per Piero lunga e dolorosa e il conto con il passato l’ha pagato sulla sua pelle, senza sconti.
Ho letto con sincero interesse il suo libro Non mi sono fatto mancare niente (Mondadori, 2016). Le confesso che in alcuni passaggi, oltre ad essermi emozionata, mi sono fermata a riflettere. Ho percepito il suo senso di abbandono, in una condizione sociale sicuramente agiata, ma in un certo qual modo anaffettiva. A distanza di tanti anni, come è cambiato il rapporto con i suoi genitori?
Negli ultimi anni il rapporto con i miei genitori è diventato molto più semplice, anche se vorrei sottolineare che anni fa i problemi li avevo più con mio padre, caratterialmente egocentrico, persino ingombrante. Tra gli anni ‘70/’80 la dipendenza da eroina era molto diffusa ed io inizialmente non avevo consapevolezza della sua gravità; il fatto che i miei genitori, una volta venuti a conoscenza del problema, non sapessero che pesci prendere non mi meraviglia. In quel periodo si stava aprendo per mio padre una brillante carriera e mia madre era sempre accanto a lui. Entrambi hanno preso coscienza della serietà della mia situazione quando il meccanismo della tossicodipendenza era già in atto, poiché prima non ne ebbero sentore. L’età dell’adolescenza è sempre un periodo delicato, in cui un giovane ha bisogno di una guida, non voglio essere retorico, ma è proprio così… Fondamentalmente, mi è mancato qualcuno che mi guidasse, che mi sapesse dire anche “no”. In comunità ho ricevuto l’insegnamento che i miei genitori non sono stati in grado di darmi. Vorrei aggiungere che non sono arrivato alla tossicodipendenza per colpa dei miei genitori, come qualcuno a provato erroneamente a scrivere. Il problema è che non amavo me stesso e di conseguenza mi ponevo in modo sbagliato agli altri, nella mia solitudine.
Io ho una sorella di circa due anni più grande, lei ha subito le mie stesse carenze eppure non ha avuto i miei problemi, anche se proveniamo dalla medesima famiglia.
Mia sorella quando ha percepito che la situazione stava diventando troppo pesante, poiché la mia presenza era troppo invasiva a causa della tossicodipendenza, è andata a studiare a Bologna e dopo si è recata a Los Angeles, inizialmente per un viaggio, ma poi vi è rimasta per molti anni; si è sposata li ed ha avuto un figlio. Questa è la prova che ognuno ha il proprio carattere; le mie insicurezze erano direttamente proporzionali alla sua straordinaria forza; una capacità di arrangiarsi, di trovare in qualsiasi situazione il cosiddetto “piano b”, che l’ha resa indipendente.
Noi siamo coetanei, quindi, la memoria mi ha riportato agli anni ‘70/80, periodo in cui la tossicodipendenza, che frequentemente sconfinava nell’eroina, era un fenomeno sociale ampiamente diffuso fra i giovani. Ricordo che ai bordi dei marciapiedi non era difficile trovare siringhe usate e lacci emostatici e la cosa mi sconvolgeva. Quanto influiscono le frequentazioni di amici già in qualche modo avviati alla droga, nell’intraprendere questo viaggio, spesso senza ritorno?
Innanzitutto, va detto che in quegli anni la condizione della società era molto diversa rispetto ad oggi. Molti giovani protestavano nelle piazze, con la speranza di cambiare il mondo e non essendo riusciti nel loro obiettivo, tanti sono arrivati alla droga, per la delusione di aver visto fallire i propri ideali. Quindi, vale l’affermazione molto forte, quanto opportuna che le piazze di sono sciolte in un cucchiaino. Andiamo al cuore della sua domanda; le amicizie in parte condizionano, anche se le responsabilità non solo soltanto delle frequentazioni, ci devi mettere del tuo. Quando i miei genitori presero atto della mia condizione e mi portarono a Los Angeles, la situazione non cambiò affatto! Il mio problema non era legato all’ambiente, ma a un forte disagio interiore, che in quel momento avrei provato dovunque.
La sua storia è la lapalissiana dimostrazione che i doni, le gratificazioni materiali non compensano in alcun modo le carenze affettive. Durante il delicatissimo periodo adolescenziale lei ha tentato di far capire ciò ai suoi genitori, che da madre sono certa abbiano comunque agito in totale buona fede?
No, poiché non mi rendevo conto della situazione, che era il risultato di un logorio psicologico andato avanti per anni. Nel libro ricordo il significativo episodio delle figurine dei calciatori. Mio padre, rientrato a Roma dopo un periodo di assenza, un giorno mi portò in edicola ed acquisto tutte le figurine di cui l’edicolante disponeva. Immediatamente provai una certa gratificazione, ma subito dopo mi resi conto che avere completato in fretta il mio album mi aveva privato del desiderio e dell’entusiasmo di portare a termine una cosa alla quale tenevo. In effetti, mio padre, senza rendersene conto, aveva rovinato tutto; i doni non servono a compensare nessuna carenza. Io da ragazzino non ero stato educato a dare il giusto valore alle cose.
Lei definisce l’inizio dell’uso di sostanze stupefacenti come la discesa all’inferno. Cosa intende esplicitamente?
Inizialmente è un paradiso, credevo di aver trovato una vera panacea, poiché improvvisamente tutte le mie sofferenze ed insicurezze erano svanite. Pensavo di stare bene; poi, quando ci sei dentro, diventi schiavo, poiché la droga è la tua ragione di vita e per questo rappresenta una discesa all’inferno.
Ho deciso, per una forma di doveroso rispetto, di non rivolgerle la solita domanda che mi è capitato di sentirle fare nel corso di interviste televisive, quando parla del suo libro. Preferisco chiederle, invece, come si sente ora, dopo aver messo su un foglio bianco la storia della sua vita?
Scrivere un libro posso considerarla una sorta di autoanalisi, come qualcuno mi ha suggerito. La scrittura mi ha aiutato, poiché mi ha permesso di dialogare meglio con me stesso ed anche con mio padre, il quale ha sempre avuto idee particolari nei riguardi del successo. Da bambino mi spiegava che si può essere felici solo se si riesce a diventare importanti, persone di successo. Devo anche aggiungere che mia madre, caratterialmente diversa da lui, ha tentato varie volte di mettermi in guardia in merito a tali affermazioni, come anche nei confronti dei regali di mio padre, secondo il suo modo di pensare dei sostitutivi della mancanza di attenzioni e presenza. Oggi credo che la migliore gratificazione personale sia il lavoro e devo confessarle che questo aspetto ancora mi manca, poiché nel mio percorso professionale sono saltato troppe volte di palo in frasca, facendo molti lavori, senza specializzarmi particolarmente in uno. Tuttavia, ho acquisito una certa specializzazione nella fotografia, avendo realizzato reportage per vent’anni. Ho anche lavorato per due anni presso uno studio di moda a New York, ma dopo l’attentato alle Twin Towers sono tornato in Italia ed ho fatto l’assistente ad un noto fotografo. Ma il mondo della moda non mi apparteneva, quindi, lavoravo con poco entusiasmo, contrariamente al reportage.
Ci vuole coraggio a parlare di se stessi come ha fatto lei. Come è maturata l’idea di scrivere un libro?
Ho sempre raccontato molte cose a mia moglie, la quale mi ascoltava con attenzione e partecipazione e mi ripeteva che i contenuti erano molto forti, quindi, valeva la pena scriverli. Quindi, pur tenendo conto della crisi dell’editoria, una volta preparata la bozza del libro, l’ho presentata all’editore, che dopo averla letta, mi ha subito contattato e pubblicato.
Cosa le ha insegnato questa dolorosa esperienza?
Come tutte le esperienze, sia negative che positive, mi ha insegnato qualcosa. Questa esperienza, che ha condizionato fortemente la mia vita, mi ha insegnato in primis che gli errori si pagano ed io li ho pagati tutti di persona. Tuttavia, c’è sempre una via d’uscita. Molte persone mi chiedono consigli su come uscire dalla tossicodipendenza ed io rispondo che è un percorso difficile, ma non insormontabile.
Pensa che prima o poi troverà la figurina mancante dall’album dei calciatori?
Probabilmente non l’ho ancora trovata, però me lo auguro. Ci sto lavorando!