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In margine alla votazione delle “Unioni civili”, la “questione democristiana”

Qualche amico si è meravigliato per le dichiarazioni della onorevole Rosy Bindi cattolica e persona di spicco nel Partito Democratico, a proposito delle “Unioni civili”: “È stato approvato un buon disegno di legge che sicuramente non troverà ostacoli alla Camera. È un passo importante che personalmente saluto anche con soddisfazione ritenendomi l’iniziatrice di questo processo ormai dieci anni fa” (“Avvenire, 28-2-2016). Alla “meraviglia” dell’amico aggiungo il mio “sconcerto” per tali affermazioni e mi domando se non sia io il sorpassato che non capisce il “progresso”, magari a causa del peso dell’età (“ingravescente aetate”!). Così, per non rimanere nella incertezza e, peggio, menare calci al vento, mi sembra utile ripassare il “processo” non solo di questi “dieci anni” di cui parla “con soddisfazione” la “nostra parlamentare”, ma pure di altri “anni” che lo precedono. Infatti, senza un excursus storico, rischiamo di non capire come dei sedicenti “cattolici adulti” o “primi della classe” possano addirittura vantarsi di voler costruire una famiglia “diversa” e, di conseguenza, demolire la Famiglia vera formata da un uomo-padre, una donna-madre e dei figli.

Pertanto propongo agli amici un percorso che non pretende di essere esaustivo né tanto meno verità infallibile, ma frutto di qualche buona lettura e di personali meditazioni.

Occorre iniziare dalla cosiddetta “Questione democristiana” e studiare cosa in realtà è stata la DC, “partito dei cattolici”, di cui la “nostra parlamentare” ha fatto parte. Insomma, dobbiamo chiederle, come Farinata a Dante nel Xº dell’Inferno, “Chi fuor li maggior tui?”

Per tentare una risposta più completa, procediamo dalla Rivoluzione francese (1789) dalla quale derivarono in Italia “tre scuole” cattoliche di pensiero: una contraria ad essa, detta degli “intransigenti”, con nomi come il principe di Canosa, monsignor Baraldi, il conte Monaldo Leopardi, Cesare d’Azeglio, Pio Brunone Lanteri; un’altra, più accomodante, “cattolico-liberale”, con personaggi come Manzoni, Rosmini, Massimo D’Azeglio, Tommaseo…; e l’altra, detta “scuola della democrazia cristiana”, rappresentata alla fine del 1800 dal prete Romolo Murri, che vide nella Rivoluzione un positivo “segno dei tempi”, quasi una ulteriore Rivelazione. Dalla cultura di quest’ultima “scuola”, nacque il Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo (1919) e, da esso, la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi (1945). Fondamentale, però, è l’incontro della “terza scuola” col “modernismo”, eresia che, rivalutando la Riforma protestante e accettando la Rivoluzione e il principio della Democrazia assoluta, travagliò la Chiesa negli anni tra l’Otto e il Novecento.

Ed ecco come Sturzo definisce il Partito Popolare Italiano (PPI) appena fondato: “Il partito popolare è stato promosso da coloro che vissero l’azione cattolica, ma è nato come partito non cattolico, aconfessionale, come un partito a forte contenuto democratico, e che si ispira alla idealità cristiana, ma che non prende la religione come elemento di differenziazione politica” (“Corriere d’Italia”, 19-III-1919). Come si vede, egli parla solo e appena di “idealità cristiana”, poca cosa rispetto alla Dottrina Sociale della Chiesa, parte integrante della visione cristiana del mondo (allora “Sillabo” di Pio IX, “corpus” dottrinale di Leone XIII, “Pascendi” di San Pio X, etc.); di ciò si accorsero padre Agostino Gemelli e monsignor Francesco Olgiati, fondatori della Università Cattolica di Milano, che furono subito critici verso il nuovo Partito in quanto pareva loro privo di “anima cristiana” (v. “Il Partito Popolare Italiano. Come non è e come dovrebbe essere”, edito da “Vita e Pensiero” nel 1919).

Si accorse pure, sebbene da un altro versante ma con acutezza di giudizio, Antonio Gramsci, prossimo fondatore del “Partito Comunista d’Italia”, che così scrisse: “I popolari rappresentano una fase necessaria di sviluppo del proletariato italiano verso il comunismo. Il cattolicismo democratico fa ciò che il comunismo non potrebbe. Amalgama, ordina, vivifica e si suicida. Diventati società, acquistata coscienza reale, questi individui non vorranno più pastori per autorità, ma comprenderanno di muoversi per impulso proprio: diventeranno uomini nel senso moderno della parola, uomini che attingono nella propria coscienza i principi della propria azione, uomini che spezzano gli idoli, che decapitano dioE concludeva: “La costituzione del Partito popolare equivale per importanza alla Riforma germanica [Riforma di Lutero], è l’esplosione inconscia, irresistibile della Riforma italiana” (“I popolari” in “L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 24, 1-11-1919). È la posizione di molti intellettuali, pure cattolici, che ancora oggi guardano genuflessi alle “conquiste civili” delle nazioni del Nord Europa “riformate” dal Protestantesimo, contrapposte alla “arretratezza” dell’Italia che ne sarebbe stata esclusa per colpa della Contro-Riforma e della Chiesa Romana; Gramsci   aggiunge, però, che il “democratismo cristiano” del Partito fondato dal prete di Caltagirone, ha rimediato a questa “mancanza” facendo, esso, una sorta di riforma protestantica nel campo politico; infatti il pensatore sardo, studiando il “modernismo religioso e sociale” di Murri, fatto proprio dalle élites del PPI, preciserà meglio il suo pensiero sul “cattolicismo democratico” dicendo che il “modernismo significava politicamente democrazia cristiana” (“Quaderni del carcere”, Einaudi, Torino 1975, vol. II p. 1304).

Partendo da queste schematiche premesse, forse possiamo ricavare qualche chiave di lettura per non smarrirci in ciò che in “politica” abbiamo visto accadere dal 1945 ad oggi, fino alle dichiarazioni della “nostra” onorevole.

Certo, le opinioni di Gramsci non sono esenti da errori come quello di non aver previsto anche il “suicidio” del “suo” Partito dopo il crollo “improvviso” del famigerato Muro di Berlino nel 1989; tuttavia vanno tenute presenti se vogliamo capire il percorso del “partito cattolico”. A noi conviene esaminarlo scegliendo alcune affermazioni rivelatrici di politici democristiani più in vista, magari sconosciute al buon popolo che, cattolico e non, per 50 anni ha consegnato loro voti e fiducia.

Partendo dalle elezioni del “18 Aprile 1948” – “vittoria storica della DC (49%) contro il Fronte social-comunista (31%) e che qualcuno chiamò perfino “Liberazione” –, è bene ricordare che il gruppo più intellettuale della Democrazia Cristiana, rappresentato da Franco Rodano e Giuseppe Dossetti, ne avrebbe preferito una più contenuta perché quella così travolgente ostacolava l’avvicinamento ai comunisti! E tale avvicinamento sembra sia stato il lavorio assiduo, spesso coi classici “tre passi avanti e due indietro” o dichiarazioni anticomuniste solenni prima delle elezioni e accordi col PCI subito dopo, non solo dei “dossettiani” della “scuola bolognese” ma di gran parte della classe dirigente democristiana fino al “compromesso storico” negli anni Settanta col “governo rosso” Andreotti-Berlinguer. La cosa non deve stupire se è vero che perfino il grande De Gasperi affermava che “la Democrazia Cristiana [è un] partito di centro inclinato a sinistra [che] ricava la metà della sua forza elettorale da una massa di destra” (v. Discorso al III Congresso Nazionale della DC a Venezia, 2-5 giugno 1949, in “Famiglia Cristiana”, 3-VI-1973) e, prima ancora: “Noi ci siamo definiti un Partito di centro che si muove verso sinistra” (Intervento al Consiglio Nazionale della DC del 31-VII/3-VIII- 1945).

Così, negli anni “eroici” del “Sessantotto”, potei leggere questa definizione: la Democrazia Cristiana è “un dispositivo ideologico e politico specificamente fatto per trascinare verso l’estrema sinistra uomini di destra e, soprattutto, centristi ingenui” (Plinio Correa de Oliveira, Prefazione a Fabio Vidigal Xavier da Silveira, “Frei il Kerenski cileno”, Edizioni Cristianità, Piacenza 1973, p. 11). E, tuttavia, mi sembravano ancora affermazioni esagerate di pensatori che molti con disprezzo dicevano “reazionari”, fino a quando non lessi questa di Cossiga: “La DC ha meriti storici grandissimi nell’aver saputo rinunciare alla sua specificità ideologica, ideale e programmatica: le leggi sul divorzio e sull’aborto sono state tutte firmate da Capi di Stato e da ministri democristiani che giustamente, in quel momento, hanno privilegiato l’unità politica a favore della democrazia, della libertà e dell’indipendenza, per esercitare una grande funzione nazionale di raccolta dei cittadini” (“Il Popolo”, 24-I-1992). Cossiga però non dice che la “legge” sull’aborto non solo fu “firmata” ma fu anche facilitata dalla Democrazia Cristiana come quando – scelgo un esempio fra tanti! – il 26-2-1976 si rifiutò di votare la “eccezione di incostituzionalità” che l’avrebbe di sicuro bloccata: in quel momento il fronte antiabortista in Parlamento (DC, MSI, STVP) aveva la maggioranza assoluta. E tutto ciò – secondo Cossiga – per privilegiare “l’unità politica a favore della democrazia”; in realtà fu o perché i democristiani vedevano nella “legge” abortista una necessità storica e ineluttabile o perché erano impauriti da forze che marciavano compatte – come sempre accade in queste materie fondamentali! – contro il Diritto Naturale e la Dottrina della Chiesa. Quanto alla “firma”, “protagonisti” illustri furono Giovanni Leone, Presidente della Repubblica che, tempo dopo, con false accuse, fu dimesso dagli stessi che lo avevano indotto a firmare, Giulio Andreotti, Capo del Governo, e i ministri Tina Anselmi (anche per questa “benemerenza” – lei ancora in vita – le dedicano ora un francobollo?), Francesco Bonifacio, Tommaso Morlino, Filippo Maria Pandolfi; ironia della sorte, tutti cattolici!

Quando, poi, giudici coraggiosi contestarono la “legge” abortista, il ministro Bonifacio, secondo ormai una logica infernale, lui cattolico dichiarato, fu costretto a…difenderla. Così, infatti, scrisse “Avvenire”, quotidiano dei Vescovi, il 15-3-1979: “Il governo[democristiano] ha mutato radicalmente il suo precedente e già deplorevole atteggiamento di neutralità, oggi esso mantiene un atteggiamento preciso che purtroppo è di pieno consenso alla legge 194”. Ma l’on. Zaccagnini, allora segretario politico della DC, giorni dopo, in un comizio tenuto a Milano dirà:”Nessuno, tranne noi, è insorto a difendere i diritti di chi ancora deve nascere ma non ha ancora né voce né avvocati che lo proteggano”. (“Il Popolo”, 6-5-1979). Ma come!

Voglio concludere, con la dichiarazione/confessione dell’onorevole Ciriaco De Mita: “Quando gli storici si occuperanno di fatti e non solo di propaganda, spiegheranno che il grande merito della DC è stato quello di aver educato un elettorato che era naturalmente su posizioni conservatrici se non reazionarie a concorrere alla crescita della democrazia. La DC prendeva i voti da destra e li trasferiva sul piano politico a sinistra (intervista rilasciata al “Corriere della Sera”, 23-8-1999). Se per “Sinistra” si intendono i post-comunisti trasformatisi in “partito radicale di massa”, proteso verso tutte le future possibili “conquiste moderne” che vediamo prefigurate nelle “unioni civili” o “matrimoni” fra gay, compra-vendita di bambini, utero in affitto, gender nelle scuole…, allora il “processo”, di cui la onorevole Bindi si vanta di essere stata “iniziatrice”, può dirsi bene avviato!

Ora, però, crollato il “diaframma” DC, il popolo cattolico ha finalmente ripreso a muoversi in libertà (v. referendum sulla legge 40 del 2005, “Dies Familiae” del 2007, del 2015 e del 2016) attingendo senza “intermediari” alla Dottrina Sociale della Chiesa che è molto più della “idealità” sturziana del 1919: fra tante con esito negativo, quella Dottrina perenne mi pare la sola che possa dare qualche speranza all’uomo dissociato di oggi!

 

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