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Il libro di Vito Tanzi, “Italica. Costi e conseguenze dell'unificazione d'Italia”, Grantorinolibri (2012) oltre ai temi economici e finanziari della conquista del Regno delle Due Sicilie, racconta anche come è stata conquistato e poi annesso. Con la caduta del Muro e delle ideologie, c'è stata una ondata di sano revisionismo che ha toccato anche gli anni e il periodo dell'unificazione del nostro Paese. Così a partire dagli anni 90 sono stati pubblicati ottimi e ben documentati testi che finalmente scrivono la verità su come è stata fatta l'unificazione del Paese. Poi ci si aspettava che nel 2011, in occasione del 150° anniversario dell'unità d'Italia, si potesse continuare nell'opera di revisionismo, invece la cultura e la storiografia ufficiale, ha continuato a raccontare la Storia edulcurando i fatti e i personaggi del cosiddetto Risorgimento. Ci ha pensato Alleanza Cattolica, che ha proposto una serie di convegni in Italia, “Unità si, Risorgimento no”, per raccontare la Verità, senza inseguire facili nostalgismi di epoche passate. Infatti è utile ribadire che nessuno vuole incensare il passato borbonico. Come per ogni epoca storica, occorre calarsi in quell'epoca, più volte ho scritto sullo stato di salute del Regno borbonico, ma certamente c'erano tante cose che non funzionavano, soprattutto al tempo del giovane Francesco II. Del resto come si fa a conquistare in poco tempo un Regno senza quasi mai combattere, tranne l'ultimo sussulto di Gaeta? I tradimenti dei generali borbonici che si sono venduti a Vittorio Emanuele, la corruzione della burocrazia e della nobiltà, dei vari galantuomini latifondisti soprattutto in Sicilia, tutti tramavano contro il giovane re napoletano.

A questo punto è opportuno fare qualche nome degli storici, scrittori, giornalisti, che hanno rotto quel muro ideologico, di omertà e di silenzio sulla conquista del Sud. Uno dei primi è stato negli anni 70, Carlo Alianello, con il suo “La Conquista del Sud”, io possiedo l'edizione del 1970, pubblicata dal coraggioso editore Rusconi. Poi ci sono stati altri libri, alcuni di questi dopo averli letti, li ho presentatati nelle mie collaborazioni.

Tra questi, l'ottimo testo di Patrick Keyes O' Clery, La Rivoluzione Italiana”, ristampato nel 2000, dalla battagliera Edizioni Ares. Forse è il testo più completo che conosco sul tema. Angela Pellicciari, con “Risorgimento da riscrivere”. Lorenzo Del Boca, con i suoi “Maledetti Savoia”, e “Indietro Savoia”; Fulvio Izzo,“I Lager dei Savoia”; Giordano Bruno Guerri, con “Il sangue del Sud”; Arrigo Petacco, “La Regina del sud”, e poi Silvio Vitale, con la sua mitica rivista de “l'Alfiere” di Napoli, il prof. Tommaso Romano, direttore della gloriosa Edizioni Thule, ricordo i suoi ottimi testi di sano revisonismo:“Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere”, e “Contro la Rivoluzione la fedeltà”,opera omnia sul marchese Vincenzo Mortillaro. Nonché l'agile volumetto su “La beata Maria Cristina di Savoia, Regina delle Due Sicilie (1812-1836).

Inoltre il sacerdote don Bruno Lima, con “Due Sicilie. 1860.L'invasione”, Massimo Viglione con “Le Due Italie”. Infine Francesco Pappalardo, con “Il mito di Garibaldi” e “Dal banditismo al brigantaggio”, pubblicato da D'Ettoris Editori di Crotone. Per ultimo Pino Aprile con il suo “Terroni”, che forse ha avuto il merito di divulgare e rendere più “giornalistico”, la brutalità e l'aggressione al Regno napoletano. Naturalmente si potrebbe continuare e fare altri nomi, magari quelli che il professor Tanzi cita nel suo libro.

E ritornando a “Italica”, anche Tanzi sgretola alcuni luoghi comuni sul Risorgimento, sulla cosidetta “Italia morale” e “Italia reale”, l'idea di una nazione italiana era esistita, ma nelle menti di pochi “patrioti”, “sarebbe difficile definire il Risorgimento come un movimento popolare o di massa. Era e rimase un movimento di èlite...”. A questo proposito Tanzi fa notare che i cosiddetti “quattro giganti del processo risorgimentale”, cioè Cavour, Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele,“forse non a caso, nacquero in un angolo relativamente piccolo del vecchio territorio della penisola italiana, il triangolo di Torino, Genova, e Nizza”. Forse solo Napoleone III conosceva il Sud dell'Italia meglio dei quattro giganti”. Cavour non era mai stato a Sud di Pisa, e non aveva mai espresso particolare interesse a visitare o anche conoscere il Mezzogiorno.“Quella parte dell'Italia semplicemente non lo interessava,- scrive Tanzi - forse perchè non era un'area che lui associava con il futuro e con l'idea di progresso, sia economico che politico e sociale, come lo erano Francia ed Inghilterra”. A questo punto non si comprende perchè ancora bisogna tenersi vie e piazze per ricordarlo e venerarlo come un santo.

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Peraltro questa elite risorgimentista, rimase tra loro divisa, tra repubblicani e monarchici. Per il popolo comune, l'idea di una nazione italiana, e di un governo nazionale italiano, era, e rimase per molto tempo, un concetto astratto. Gli italiani conoscevano ed avevano come loro punto di riferimento il loro re, specialmente, gli abitanti del regno più grande di allora, quello di Napoli. “La nazione creata nel 1861, era una nazione la cui amministrazione statale...sarebbe stata presto aspramente criticata da buona parte delle proprie stesse elite politiche, a causa del suo centralismo”. Nel libro Tanzi critica, l'unità forzata del popolo italiano, bisognava rispettare, almeno nella fase iniziale,“le grandi differenze culturali, economiche, e storiche che esistevano nelle varie regioni, e specialmente tra il Regno di Napoli e delle Due Sicilie, da un lato, ed il regno di Sardegna, dall'altro”. Lo aveva scritto nel 1848, il siciliano Francesco Ferrara, il più importante economista italiano di quel periodo. “Ferrara avvertiva anche sul pericolo che la libertà sarebbe stata perduta se il disegno piemontese di unificare l'Italia fosse andato a termine”.

L'indipendenza dallo straniero si sarebbe potuto ottenere anche senza l'unificazione. Con una “confederazione” degli stati esistenti, come aveva immaginato Metternich e perfino lo stesso Cavour. C'era l'esempio tedesco, e la vicina Svizzera.

Comunque sia anche Tanzi ci tiene a dire che lui ama l'Italia ed è orgoglioso di essere italiano e non intende mettere “in questione il merito della creazione di una nazione italiana e di uno stato chiamato Italia, ma il modo in cui quel progetto fu portato a termine. C'erano altre strade, oltre a quella che fu presa, che, forse con più tempo, potevano portare ad una simile destinazione, ed ad un costo più basso, in termini sociali ed economici. Sapendo ciò che sappiamo ora, è possibile sostenere che alcuni errori, con enormi consequenze future, furono fatti e che almeno alcuni di questi errori potevano essere stati evitati”.

Anche se il libro di Tanzi non intende sviluppare e descrivere gli aspetti e le azioni più o meno eroici del periodo risorgimentale, lui scrive che lo hanno fatto benissimo altri libri e non sarebbe utile ripetere quello che già si sa. Tuttavia il libro di Tanzi offre interessanti spunti per la discussione sugli errori e sulle enormi conseguenze future che hanno avuto soprattutto per il Mezzogiorno d'Italia. Dopo l'invasione del Regno di Napoli e delle Due Sicilie nel 1860 da Garibaldi prima, e dalle forze piemontesi dopo, si scatenò il cosiddetto “brigantaggio”, una “opposizione di massa, che sorprese i 'liberatori' del Nord che avevano pensato di essere ricevuti come eroi liberatori,solleva molte questioni scomode sulla legittimità della conquista del regno di Napoli...”. L'occupazione fu un vero atto di pirateria, anche perchè il Piemonte aveva avuto relazioni diplomatiche con il Regno di Napoli; i due sovrani erano perfino cugini. Tra l'altro l'atto di conquista del Regno dei piemontesi non era stato gradito da molti stati europei. Per questo motivo, diventò politicamente corretto, per le autorità del nuovo Regno d'Italia, di definire “brigantaggio” qualunque opposizione armata contro il nuovo regno e la nuova “patria” italiana, e definire tutti i meridionali dei comuni criminali, dei “briganti”. Infatti a Torino, avevano appreso la lezione dai cugini francesi della Rivoluzione giacobina del 1789, che considerava “cittadini” i rivoluzionari, mentre chi si opponeva come i vandeani, dei “briganti” da eliminare in tutti i modi.

Certo i fenomeni criminali erano sempre esistiti al Sud, ma adesso, assunse dimensioni straordinarie, causato, secondo Tanzi, da diversi fattori. Per motivi politici contro le nuove autorità, che avevano sostituito spesso in maniera arbitrario e violento, le istituzioni del governo borbonico. Un altro motivo, è stato quello delle promesse non mantenute, in particolare, la non distribuzione delle terre ai contadini. Infine per le forti tasse introdotte che colpiraono in particolare il Sud che non era abituato rispetto al Nord.

Comunque, soprattutto nel V° capitolo (Annessione del Mezzogiorno, Unificazione, e Brigantaggio) il professor Tanzi racconta tutto con obiettività sulla famiglia borbonica, il giovane re “francischiello”, figlio di Maria Cristina di Savoia, “la Santa”. L'impresa dei mille di Garibaldi, finanziata da massoni italiani e stranieri (principalmente inglesi) non aveva nessuna legittimità legale o politica, assomigliava molto a un atto di banditismo, favorito naturalmente dai tradimenti degli alti ufficiali borbonici. Praticamente la fine del Regno di Napoli per Tanzi assomiglia molto al crollo dell'Unione Sovietica, un impero che si sfasciò quasi all'improvviso e quasi per miracolo. Infine anche per Tanzi la guerra dell'esercito piemontese ben 120 mila uomini contro i cosiddetti “briganti” del Sud, Paolo Mieli, poteva scrivere: “il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che sconvolse l'intero Sud. Gli sconfitti lasciarono le loro terre e alimentarono la gigantesca emigrazione verso l'America”. Per Tanzi fu una guerra civile, come quella americana. Potremmo continuare, certamente bisogna farlo perchè la nostra Storia ci aiuterà a capire anche il nostro presente.

 

espana Dios patria rey

Non è facile raccontare la storia di una guerra civile, tanto meno di quella spagnola del 1936-39. Ha tentato di farlo Arturo Mario Iannaccone con il suo “Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna fra seconda Repubblica e Guerra Civile (1931-1939), pubblicato da Lindau (2015). Sono troppe le questioni aperte. Tra le tante c'è quella di poter accedere a una storiografia seria ed obiettiva. Infatti, in conclusione del suo ben documentato volume, Iannaccone scrive, che “ancora oggi, nonostante quanto emerso negli ultimi anni, c'è chi sostiene che vi sia una visione scorretta di 'storici clericali' distorta e deformante[...]Come se l'obiettività storica non fosse un ideale di tutti gli storici, cui bisogna avvicinarsi cercando di non tradire i dati a disposizione e cercando un'interpretazione onesta dei fatti”. Anche se il testo di Iannaccone non pretende di dare risposte sugli aspetti politici della cruenta contesa tra i nazionalisti del generale Franco e i miliziani repubblicani anarco-comunisti. Tuttavia, riesce, utilizzando i numerosi contributi di storici di varia formazione, documenti e i dati oggettivi, di dare un'immagine chiara della posizione della Santa Sede e di tutta la Chiesa spagnola. “Ne emerge che la Santa Sede tentò a lungo di mantenere l'equidistanza prima dello scoppio della guerra civile e dopo”.Eppure vi sono ancora storici che seguendo una lunga tradizione storiografica prettamente ideologica, sostengono che “la Chiesa fu presa di mira perché pendette decisa da subito su un fronte” (leggasi quello franchista).

A questo proposito è abbastanza duro monsignor Carcel Ortì, autore di una monumentale opera di ben 2500 pagine, sui martiri in Spagna: “la storiografia tradizionale non serve più. I libri di storia sono praticamente tutti scritti da autori di parte: destra o sinistra che sia. Ma così si fa solo ideologia. Io credo, invece, che si debba partire dalle fonti”. Ecco perché per il religioso occorre fare riferimento all'apertura dei Documenti dell'Archivio Segreto Vaticano relativi al pontificato di Pio XI, che permette di analizzare con il massimo rigore i fatti accaduti in Spagna dal 1931 fino al 1939.

Monsignor Ortì è ancora più chiaro, certamente oggi conosciamo bene come si sia evoluta la storia della Spagna, dalla dittatura militare di Francisco Franco fino alla democrazia, ma“non possiamo però commettere l'errore di giudicare le scelte fatte prima di questi eventi alla luce di ciò che è accaduto dopo. Voglio essere ancora più chiaro: nel preciso momento storico in cui la Santa Sede nel 1938 riconosceva il Governo nazionale di Franco, questi rappresentava l'unica scelta in quanto stava salvando la Chiesa spagnola dalla persecuzione religiosa.

Peraltro gli stessi vescovi spagnoli, nonostante i massacri di religiosi, aspettano un anno prima di pronunciarsi e prendere posizione. “Sono già stati massacrati oltre 6500 ecclesiastici e praticamente distrutte tutte le chiese che si potevano distruggere e si assiste a un pericolo reale di annientamento totale della Chiesa e di tutto ciò che ha riferimento con la Chiesa (opere d'arte, libri, documenti, e così via)”. La lettera dei vescovi viene interpretata come un appoggio morale alla causa nazionale contro quella repubblicana. Ma ancora una volta occorre insistere, ”I vescovi, in quel momento di persecuzione totale vedono nei nazionali l'unica possibilità di salvezza per la Spagna che rischia di finire nelle mani del comunismo stalinista. Ecco perchè il cardinale Vicente Enrique y Tarancon, arcivescovo di Madrid, nelle sue memorie scrive: “In quei momenti la Chiesa aveva il dovere di essere belligerante, cioè di schierarsi perché c'erano due Spagne: la rossa che ti ammazza e l'altra che ti salva”. Pertanto in quel momento storico Francisco Franco rappresentava la salvezza per la Chiesa, che rischiava l'estinzione fisica.

espana siempre unida

“Carta colectiva de los Obispos espanoles a los todos el mundo con motivo de la guerra en Espana”

Ecco che arriva il 1° luglio 1937 la famosaCarta colectiva”. Qualcuno ha messo in discussione la compattezza dei vescovi, sostenendo che due non avevano firmato la carta. Sono critiche ingannevoli perchè i due erano in esilio e invece auspicavano la vittoria di Franco. Mentre mancano la firma di 12 vescovi, perchè nel frattempo erano stati uccisi dai repubblicani, alcuni in modo atroce e dopo aver subito supplizi inenarrabili e amputazioni di parti del corpo.

Al paragrafo dove si spiega la posizione dei vescovi sulla guerra, si ricorda che la Chiesa dopo il cambio di regime nel 1931 “è rimasta accanto al potere costituito, nonostante gli attacchi, raccomandando sottomissione e pace. L'inizio della guerra è stato condannato, la Chiesa non ha voluto la guerra e va condannata l'accusa alla chiesa di essere belligerante come ripetono alcuni giornali stranieri. “Se oggi, collettivamente, - scrivono i vescovi - formuliamo il nostro verdetto sulla complessissima questione della guerra spagnola è, in primo luogo, perché sebbene la guerra abbia un carattere politico o sociale è stata così grande la sua repressione dell'ordine religioso ed è apparso tanto chiaro, sin dagli inizi, che una delle parti belligeranti mirava all'eliminazione della religione cattolica in Spagna […], è stato male interpretato dagli stranieri [...]”. Poi i vescovi spiegano le questioni che hanno agitato la società spagnola portandola alla guerra, facendo un po' la storia del quinquennio che precedette la guerra. Si racconta della laicizzazione forzata, delle violenze, della vittoria del fronte Popular con 118 deputati in più nonostante avesse ricevuto 500.000 voti in meno a causa di una legge truffa. I vescovi fanno riferimento a San Tommaso e la sua dottrina della difesa giusta. In merito all'alzamiento militar, i vescovi notano che la sollevazione militare si è prodotta con la collaborazione della parte sana della popolazione entrata in massa nel movimento che può essere definito per questo civico-militare. Sembrerebbe che le forze del Fronte Popular stavano preparando una rivoluzione marxista, anche se non si può dimostrare che fosse stata fissata una data precisa. Pertanto, la questione era che “le forze più radicali controllavano ormai le piazze e le strade. L'alzamiento fu una reazione, un plebiscito armado, che aveva le sue radici nel febbraio del 1935 quando 'la mancanza di coscienza politica del Governo nazionale regalò arbitrariamente alle forze rivoluzionarie un trionfo che non avevano guadagnato alle urne'.

Inoltre nella Carta, i vescovi richiamavano la presenza delle forze russe come agenti di influenza, tra le fila dei rivoluzionari spagnoli, ben prima dei militari tedeschi e italiani. Ad un certo punto a parere dei vescovi sembrò che in Spagna, come scrivevano del resto acuti osservatori, ci fosse “una gara di velocità fra il bolscevismo e la civiltà cristiana”, una nuova tappa decisiva “nella lotta tra rivoluzione e Ordine”, dalla quale “dipende la sorte dell'Europa”. Tuttavia per i vescovi spagnoli, “l'alzamiento civico-militare fu in origine un movimento nazionale di difesa dei principi fondamentali di tutta la società civilizzata;[...] contro l'anarchia coalizzata dalle forze al servizio del Governo[...]”.

Così appare evidente che la Chiesa non ha voluto e non partecipava alla guerra, ma nello stesso tempo non poteva essere indifferente. Era evidente a tutti che da una parte si voleva sopprimere Dio dall'altra lo si difendeva; l'alzamiento (levantamiento civico-militar), si affermava, s'è prodotto dal fondo della coscienza popolare per il suo carattere patriottico come unico modo per salvare la Spagna e per il sentimento religioso; unica speranza per la Spagna di riconquistare pace, giustizia e libertà religiosa è il trionfo della parte 'civico-militar'.

Nella Carta ancora i vescovi descrivono i caratteri della “revolucion comunista” elencando lo stermino clericale, le distruzioni e violenze in odium fidei che sono state confermate dalle successive beatificazione, entro il 2014, di oltre 1500 persone”.Mentre sono esagerate le cifre di 300.000 morti attribuiti ai soli repubblicani; dai recenti studi si attribuiscono circa 20.000 e più giustiziati nelle repressioni postbelliche di Franco.

I vescovi si soffermano sul carattere del movimento nacional,“così chiamato perchè accettato dalla maggioranza della Nazione e perchè garanzia della continuità dello Stato spagnolo”. Il documento fu poi firmato da una quarantina di vescovi. In poco tempo sarebbe stato approvato da più di 850 vescovi di tutto il mondo.

Dunque dal 1° luglio 1937 la Chiesa si lega ai nazionali, lo ha fatto “come gesto disperato, - lo sostiene monsignor Carcel Ortì in una intervista - come unica opzione possibile di sopravvivenza [...]senza poter sapere quale sarebbe stata l'evoluzione politica successiva”. Iannaccone propone ampie parti dell'intervista allo studioso del martirio della Chiesa spagnola, che spiega bene la differenza tra il martire cristiano e chi muore magari da eroe in guerra, o chi muore vittima della repressione politica e ideologica, e nella guerra di Spagna fu durissima da ambo le parti. I martiri cristiani , uccisi per motivi religiosi di fede, sono “martiri perché non impugnarono mai le armi, non fecero la guerra contro alcuno, non manifestarono mai le loro idee politiche né fecero parte di gruppi o movimenti politici; morirono perdonando e perdonarono amando a imitazione di Cristo in croce”. Furono uccisi perché cristiani, “altrimenti non si spiega - aggiunge Ortì - perchè furono invitati, prima di morire e come condizione per salvare la propria vita, a rinunciare alla loro fede, a bestemmiare, a sputare sul Crocifisso o sulle effigi mariane. Altrimenti non si spiega perchè tanto accanimento anche contro i simboli della religione: chiese, conventi, immagini e oggetti sacri”.La Chiesa ha il diritto e il dovere di mantenere viva la memoria di coloro che diedero la loro vita con il martirio per difendere la propria fede e, quindi, non beatifica i martiri dell'una o dell'altra parte, ma semplicemente coloro che furono trucidati in odium fidei, in odium Ecclesiae, senza alcun rancore verso i persecutori e senza alcuna intenzione politica perché i martiri non hanno colore politico”.

Potremmo continuare appassionatamente a raccontarvi se volete anche un piglio polemico questa grande tragedia, forse poco conosciuta anche dagli stessi uomini di Chiesa, ma chiudo il mio studio con una raccomandazione, rivolta soprattutto ai cattolici: Attenzione ricordatevi di queste argomentate riflessioni, che ho tratto dal corposo testo di Iannaccone, quando il prossimo anno si celebrerà l'80° anniversario dello scoppio della guerra civile spagnola. Si perchè con molta probabilità saremo accusati falsamente e odiosamente di “collaborazionismo coi fascisti”.

reqonquista espana

 

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Quest’anno in molte città italiane, come nel resto del mondo, è stato ricordato il Centenario del Genocidio Armeno, attraverso eventi culturali e varie iniziative che hanno dato finalmente visibilità e la giusta considerazione al “Metz Yeghérn” (Il Grande Male), in un’analisi storica corretta ed obiettiva.

Nella splendida città di Treviso, il 16 ottobre scorso è stato inaugurato l’Evento “Armenia Amica”, una manifestazione artistico-culturale articolata in diversi incontri, organizzata dalla Onlus Federpiazza, Associazione Italia Armenia, Sivazlijan Baykar e Divinafollia Edizioni, sotto il Patrocinio del Comune di Treviso e dell’Ambasciata Armena.

Il primo evento, inaugurato presso lo storico Palazzo dei Trecento nel pomeriggio del 16 ottobre con il tradizionale taglio del nastro, è stata la mostra fotografica di A. T. Wegner. Fra le autorità, erano presenti il Sindaco di Treviso Giovanni Manildo, l’Assessore alla Cultura Luciano Franchin, l’Ambasciatore d’Armenia in Italia Sargis Ghazarijan, il Console Kuciukijan con la consorte Anna Maria Samuelli, curatrice della mostra, il prof. Sivazlijan Baykar Presidente dell’Associazione Armeni di Roma, Gianni Tosello Presidente di Federpiazza, la Poetessa Laura Chiarina. Alla presenza di numerose persone, ognuno di essi ha espresso il proprio pensiero in ricordo di questo gravissimo fatto storico; particolarmente toccante il discorso dell’Ambasciatore, che ha ripercorso la lunga storia del popolo armeno, dando risalto ai vari punti d’incontro con Venezia, Treviso e il Veneto.

La mostra è stata visitata da più di mille persone, molte delle quali hanno scritto un loro commento sul registro delle presenze.

Nelle giornate del 21 e 22 ottobre si sono tenuti alcuni incontri con gli studenti presso la Scuola Media Stefanini e il Liceo Scientifico L. Da Vinci di Treviso; relatore il prof. Baykar alla presenza di 600/700 ragazzi, tutti coinvolti, con vero interesse, verso un argomento passato per troppo tempo sotto silenzio.

Gli altri tre eventi si sono svolti in una location d’eccezione: l’Auditorium di Santa Caterina. Il primo è stato un convegno svoltosi il 23 ottobre, nel corso del quale è stato proiettato un interessante documentario realizzato da Federpiazza durante un viaggio culturale compiuto in Armenia. Sono intervenuti il dott. Vartan Giacomelli , sostituto Procuratore e Presidente dell’Associazione Armeni di Padova il quale, attraverso memorie personali accompagnate da foto di famiglia, (i nonni materni vissero il Genocidio), ha tracciato in modo commovente questo triste periodo storico; Il prof. Baykar, fraterno amico di Giacomelli, ha affrontato l’argomento in chiave socio-politico-geografica, riuscendo a contestualizzare e mettere in relazione i fatti oggetto del dibattito. La musica Daduk, magistralmente eseguita dal Maestro Stayam Aram, ha creato un’atmosfera assolutamente coinvolgente.

Il pomeriggio del 24 ottobre si è svolta la cerimonia di premiazione del Premio letterario “L’Incontro Letterario 2015 ieri e oggi”, nel corso del quale sono stati premiati i vincitori delle varie sezioni ed è stato conferito un Premio Speciale alla cultura e all’impegno sociale. La speciale sezione “F” del concorso letterario, dedicata al Centenario del genocidio Armeno è stata accolta con molto interesse; a Silvia Denti, titolare della Casa Editrice “Divinafollia” sono pervenuti numerosi elaborati, sia in poesia che in prosa, e nel corso della cerimonia, sono stati premiati anche i vincitori di questa particolare sezione.

Per rafforzare il significato della manifestazione, sono stati letti alcuni significativi passaggi del libro “Il lungo genocidio armeno”(Editore Guerini e Associati) a cura di Martina Corgnati e Ugo Volli. Si tratta di un vero ed efficace atto di memoria, deciso e portato avanti da un gruppo di studiosi italiani nel centenario del genocidio subito dal popolo armeno. Un nobile gesto per ricordare la diaspora armena, realizzato attraverso il capillare studio studio storico, l’analisi politica ed artistico-culturale, psicologica e semantica.

Nella prefazione del libro si legge: “L’urgenza di questo doveroso ricordo è dettato dal fatto che questo terribile genocidio continua ad essere negato, nascosto e mistificato dagli eredi di chi l’ha compiuto. Ancora oggi il governo turco nega di definire e chiamare “genocidio” la distruzione compiuta consapevolmente e volontariamente fra il 1915 e il 1922, negando quindi ogni responsabilità storica. Questo il motivo principale che rende essenziale la memoria, soprattutto da parte degli altri popoli”.

Interessante anche la citazione del libro di Mario Massimo Simonelli “Il lungo inverno di Spitak”(Elmi’s World Casa Editrice), dedicato al terribile sisma di gigantesche proporzioni avvenuto nella Repubblica Armena nel dicembre 1988, quando un’intera regione fu letteralmente devastata. Decine di migliaia le vittime, i feriti ed un numero impressionante di famiglie restò senza casa, in una regione montuosa, isolata, in pieno inverno, con il termometro notevolmente sotto lo zero. La popolazione, già stremata dalle tensioni e dagli scontri con il confinante Azerbaijan, fu ancora una volta messa a dura prova. All’indomani del terremoto, Paesi di tutto il mondo iniziarono una gara di solidarietà senza precedenti e il Governo italiano concentrò i suoi aiuti nei pressi della città di Spitak, epicentro del sisma, diventata città-simbolo della distruzione. Gli eventi di quei mesi avrebbero per sempre cambiato la vita dei protagonisti di questa intensa opera letteraria, dalle tinte forti e struggenti.

Nel corso dell’evento sono state lette poesie di famosi poeti armeni, quali Hrand Nazariartz, Willian Saroyan, Daniel Varujan ed Elise Ciarenz; il reading è stato accompagnato dalla chitarra acustica del musicista Massimo Luca, il quale al termine dell’incontro ha eseguito un medley di brani famosi di Lucio Battisti, con cui ha condiviso una parte del suo percorso artistico. Relatori dell’evento: Laura Chiarina, fattivamente impegnata in questi ultimi mesi nelle varie attività organizzative e di relazione legate a questa articolata ed interessante manifestazione, Silvia Denti, Federico Sanguineti, Daniela Cecchini.

La terza giornata è stata dedicata alla presentazione di alcuni libri, che affrontano la tematica del Genocidio armeno. Nel primo, dal titolo “AmarArmenia” (Edizioni Ararat), l’autore Diego Cimara, noto giornalista Rai, ha realizzato una preziosa opera che è al tempo stesso inchiesta, romanzo, saggio storico ed infine riflessione filosofico-religiosa. Un diario intimo che, attraverso l’interpretazione di migliaia di documenti e le testimonianze dirette dei sopravvissuti al genocidio armeno, entra nella sfera emotiva dei vari personaggi, in un’interpretazione universale del dolore, del travaglio, dell’incommensurabile sofferenza di questo popolo.

L’altro bellissimo libro presentato a Treviso è “Mayrig”(Divinafollia Editore) del regista e scrittore Henry Verneuil, dal quale egli ha poi tratto un film diviso in due parti: “Quella strada chiamata Paradiso” e “Mayrig”, dal titolo dell’omonimo libro, che in italiano significa madre, oppure mammina. La giornalista Letizia Leonardi ha eseguito un eccellente, quanto lungo lavoro di traduzione dal francese, curatissimo nella minuziosa ricerca di sostantivi ed aggettivi che potessero adattarsi nel modo più appropriato alla lingua italiana. Il risultato è un’opera di alto livello, la saga della famiglia dell’autore, che fu costretta ad emigrare in Francia per mettersi in salvo. Una storia ricca di intense immagini, sapientemente descritte, per capire e rendersi partecipi di una tragedia che i protagonisti hanno sempre saputo stoicamente affrontare con forza e speranza.

L’ultimo libro inserito nel programma dell’evento “Armenia Amica” è il romanzo “Sotto un cielo indifferente” dello scrittore e regista pubblicitario greco, ma di origine armena Vasken Berberian. I suoi libri sono considerati fondamentali nella prospettiva di rinascita culturale armena in Italia. Il protagonista della storia è Mikael, adolescente geniale e ribelle nella Venezia degli anni Cinquanta. Egli ricorda poco della sua infanzia armena, anche se insistenti immagini turbano il suo sonno e i suoi pensieri. Il nodo irrisolto nella sua vita è Gabriel, il fratello gemello che lui ignorava di avere. Il casuale ritrovamento di alcune vecchie foto lo condurrà alla ricerca della verità, fra viaggi fino in Russia, per arrivare al cuore della storia della sua famiglia. L’autore, con rara sensibilità ed una trama di emozioni, ricordi e vite sospese, regala al lettore una narrazione potente ed emozionante, ambientata fra le calli di Venezia, la Grecia del primo Novecento e la Russia dei gulag, dipingendo così un secolo di storia.

Relatori dell’evento del 25 ottobre: Laura Chiarina, Silvia Denti, Letizia Leonardi, Daniela Cecchini e Vasken Berberian.

La lettura dei testi delle opere letterarie in presentazione è stata accompagnata da sottofondo musicale ispirato alla musica popolare armena; componimenti che l’autore Giorgio Radaelli, ha eseguito alla tastiera.

Nel pomeriggio di questa giornata conclusiva di programmazione ancora due significativi momenti: la celebrazione in Duomo della S. Messa con Rito Armeno, dove hanno presenziato tre Padri Mechitaristi di Venezia e per finire, la chiusura della mostra a Palazzo dei trecento, con la proiezione del documentario “Common Ground”, realizzato da un gruppo di giovani antropologi veneziani.

I tre eventi rappresentati presso l’Auditorium di Santa Caterina hanno registrato un’affluenza di oltre 400 persone; agli organizzatori, ai collaboratori ed ai partecipanti all’evento “Armenia Amica” è arrivato un riconoscimento pubblico presente nel sito ufficiale del Centenario Armeno.

Questo atto di memoria compiuto a distanza di un secolo, oltre alle dimensioni della tragedia e del crimine perpetrato, si rende necessario dall’esigenza di non dimenticare, anche sotto forma di ammonimento alle generazioni attuali ed ai posteri, affinchè si possa iniziare a sperare in un mondo migliore.

 

 

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