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DB_FDG-Ottobre-2014-77-ALTA_Foto di Daniele Barraco-®

Abbiamo intervistato Francesco De Gregori che il prossimo 30 aprile terrà un concerto a Catanzaro.

Il nuovo disco, Vivavoce, prodotto da Sony/Caravan, che contiene tuoi hits ma anche un brano di Leonard Cohen, per esempio, e ospiti come Ligabue e Piovani, e' un album che ti sta dando delle grosse soddisfazioni.
E che sarà al centro di questo ritorno in Calabria, a Catanzaro, giorno 30, al PalaGallo, tappa del Vivavoce Tour dove aprirà il concerto Ylenia Lucisano.

Molto brava. Interessante voce. Il suo genere e' diverso dal mio, ovviamente. Si tratta di un pop con particolare attenzione a testo ed arrangiamento. Mi fa piacere dare una possibilità a una giovane artista. L'ho fatto anche a Roma e Milano, con Paolo Simoni. L'opening Act  è una strada, una possibilità in più per fare esperienza, farsi conoscere. Ylenia esegue anche brani in calabrese, questo vuol dire che la sua voce ha forti radici popolari.

Parliamo del De Gregori artista.
I tuoi testi hanno una propria autonomia. Penso ad esempio a La donna cannone (che rievoca la pittura di Chagall). Ma anche le musiche. Eppure sia testo che note son così sinergici...  Ma quanto De Gregori si sente poeta? E quanto musicista?

Poeta per niente, è un altro mestiere. In quel caso la parola deve vivere senza la musica. Uno scrittore di canzoni da parte sua deve saper dar voce sonora al testo, più o meno bello che sia.

Certo la canzone non è poesia, e' qualcos'altro. Ma la tua canzone, anche quella amaramente ironica di Viva l'Italia o quella sognante di Alice, come non definirla poesia? Magari una forma espressiva al passo coi tempi, a volte surrealista...


A dire il vero all'inizio della mia attività avevo letto molte cose dadaiste e surrealiste. Oggi il mio modo di scrivere penso sia normale perché è abbastanza diffuso un linguaggio creativo anche alogico cioè nel quale si superino anche i comuni nessi logici.

A proposito di cantautori, puoi regalarci un tuo pensiero su Lucio Dalla, su questa amicizia artistica che ha segnato in positivo la storia della musica popolare italiana contemporanea.


Lucio e' stato un grandissimo musicista. L'altra volta risentivo Quand'ero soldato, brano degli anni sessanta: che timbro! Che impressione vocale! Da suo collega devo dire che la vocalità di Lucio e' impressionante. Siamo stati amici per 40 anni ed ora avverto molto la sua mancanza. A volte spero invano uscendo di casa di trovare in vetrina il nuovo disco di Lucio Dalla nei negozi.  Ma questa è la vita.

Ti offri alla curiosità di media e pubblico senza problemi? Ed essere svelato come fanno Silvia Viglietti e Alessandro Arianti, nel libro "Francesco De Gregori, guarda che non sono io" (SVPress) che effetto fa? 


Nella mia vita privata non c'è segreto. Sono uomo di spettacolo e fa parte del mio lavoro essere esposto. Gli atteggiamenti da divo non mi riguardano. A volte viene frainteso il mio rifiuto di partecipare al circo del mondo pop ma non è così. Sono semplicemente una persona normale.

Parliamo del tuo rapporto con la letteratura. In particolare la tua rilettura di America di Kafka, nell'audiolibro edito da Emons, ci fa intendere che il nuovo mondo, il suo mito, ha influenzato i tuoi orizzonti non solo musicali?


Certo. Negli anni giovanili siamo stati sommersi dalla musica di Elvis Presley, di Bob Dylan, dalla cultura americana in genere. Io leggevo Faulkner, Hemingway... vedevo  i film di John Ford... ma anche il folk italiano ha fatto la sua parte.

Il 22 settembre all'Arena di Verona per Rimmel 2015 si annuncia una grande festa di musica.

A dire il vero sto ancora pensando alla scaletta con Caparezza Elisa Malika Sparagna, a Fedez, anche lui uno che vuole raccontare delle cose, ed altri che stanno aggiungendosi. Faremo le canzoni di Rimmel per questa festa di compleanno per i 40 anni del disco con tanti amici, non solo i parenti ovvero i cantautori.
L'intervista si chiude con un arrivederci al concerto di De Gregori, scrittore di musica dell'oggi, un oggi che lui astrae dal quotidiano, anche quello di ieri.

Luca_1

Incontrare il musicista Massimo Luca significa intraprendere un lungo ed intrigante viaggio, che attraversa mezzo secolo di musica; il tutto raccontato con semplicità, simpatia e dovizia di particolari e questo non può che rendere la conversazione ancor più piacevole. Il panorama musicale, al di la delle naturali evoluzioni socio-culturali, ha subito nel tempo radicali trasformazioni di carattere strutturale. Quindi, è senz’altro interessante ascoltare i suoi racconti, per percorrere insieme un lungo periodo di gran lustro per la musica italiana.

“Alla fine degli anni ’50, nel mondo della musica esisteva il lavoro a chiamata - afferma Massimo - che consisteva in questo: in Galleria del Corso a Milano, una sorta di ‘capomastro della musica’ organizzava le sessioni. Noi ragazzi, seguendo un ordine predisposto, ci facevamo avanti, a seconda delle richieste e alla fine tutti tornavamo a casa con un più o meno prossimo impegno artistico. Il fatto che ci fosse molto lavoro, mi ha fatto però concentrare troppo sulla costanza dell’attività, che in un certo senso ha penalizzato la valorizzazione della mia arte e del mio talento. Tuttavia, col senno del poi, devo ringraziare questa forma mentis, che mi ha consentito di restare con i piedi per terra e di mantenere lucidità e consapevolezza, tenendomi lontano dall’egocentrismo e dalle fragilità proprie degli artisti”.

I suoi inizi, come musicista professionista, risalgono agli anni ’60 e lui, come la maggior parte dei coetanei, provava una grande ammirazione verso il complesso che ha segnato quell’epoca, i “Beatles”. Quindi, Massimo, a soli sedici anni, suonava con destrezza ed entusiasmo il repertorio del famoso quartetto di Liverpool nei vari locali milanesi, accrescendo sempre più la sua popolarità.

Negli anni ’70, appena ventunenne, egli era il chitarrista acustico del famosissimo cantautore Lucio Battisti; trovarsi in studio di registrazione con un artista così affermato significava essere sicuramente un “numero uno”. Nella memoria di tutti l’eccezionale duetto Mina - Battisti nel corso del programma televisivo del sabato sera datato 1972 “Teatro 10” , che spesso la Rai manda in onda come filmato di repertorio; alla chitarra c’era lui, Massimo, giovanissimo e talentuoso. Egli ha collaborato a quattro album di Lucio, nella sua, forse, più fiorente forma artistica e sono: “Umanamente uomo: il sogno”, con il bellissimo brano “I giardini di marzo”, “Il mio canto libero”, “Il nostro caro angelo”, con la famosa “Collina dei ciliegi” ed “Anima latina”, in cui il cantautore inizia una certa metamorfosi espressiva.

In quegli anni Massimo Luca è stato il chitarrista acustico di tutti, per citarne alcuni: Fabrizio De Andrè, Paolo Conte, Zucchero, Lucio Dalla, Fabio Concato, Bruno Lauzi, Francesco Guccini, ma la lista è lunghissima. Pertanto, ha vissuto compiutamente, accanto ai migliori cantautori, un’epoca che rappresenta, secondo molti, il “Rinascimento della musica italiana”.

Numerose le sue collaborazioni con artisti internazionali, come: Quincy Jones, Toots Thielemans, Tony Sheridan, Albert Lee, Phil Ramone, Jorma Kaukonen, Barney Kessel etc.

Ci vorrebbero fiumi di inchiostro per parlare in modo esaustivo di questo poliedrico artista, tutto da scoprire; una persona caratterialmente mite, dolce, dotata di una vastissima cultura musicale, eppur tanto modesto, in modo, come dire, disarmante.

Le notizie sono tante e non riguardano solo la sua attività di chitarrista. I suoi racconti mi lasciano piacevolmente ammirata, quindi passo direttamente la parola a lui, che si racconterà attraverso questa intervista ricca di emozioni, curiosità, aneddoti e notizie.

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Quando ci incontriamo è sempre estremamente interessante parlare con te di musica. Vorresti definire in cosa consiste, dal tuo punto di vista, essere un musicista?

La corretta visione del musicista non può mai prescindere da un discorso d’insieme. Fare musica è un lavoro di filiera, senza i corretti supporti non si riesce. Come in una squadra di calcio, quando si consegue un buon risultato, un successo, tutti i protagonisti ne beneficiano. I musicisti sono una sorta di saltimbanchi, che possono accedere dove solo pochi riescono ad arrivare. Il lavoro artistico ti da la chiave per entrare in una dimensione sui generis e solo una volta raggiunta ci si rende conto della sua importanza. Tuttavia, va anche detto che l’animo dell’artista è particolarmente sensibile; proprio attraverso l’ultima intervista rilasciata dal grande regista Mario Monicelli ho avuto conferma di ciò. Attraverso le sue parole si percepisce, in modo incontrovertibile, le fragilità della sfera emotiva dell’artista, contrariamente all’opinione comune, che lo identifica come un essere dotato di un qualcosa di superiore rispetto agli altri.

Hai iniziato giovanissimo a suonare. Qual’è stato su di te l’effetto dei Beatles?

I Beatles mi hanno letteralmente folgorato, come in una visione. Quando racconto che nel 1965, nella loro tournée italiana al “Vigorelli” di Milano, la Rai non inviò nessuna troupe, pensando si trattasse di quattro improvvisatori, i miei amici stentano a credermi. Ovviamente, parlo di quelli che non erano presenti alla memorabile serata! All’estero c’è sempre stata una grande cultura musicale e la musica “Beat” esplosa negli anni ‘60 ha generato un vero fenomeno culturale, che ha segnato una svolta epocale nel tessuto sociale della nostra generazione. Naturalmente, ho tratto insegnamento da quel modo di fare musica, che rompeva i canoni tradizionali, radicati all’interno della melodia italiana. Nel nostro Paese la musica ha seguito la corrente della moda con una diversa velocità rispetto ai paesi anglosassoni, poiché inizialmente non è stato semplice sdoganare alcuni canoni di riferimento, che contrastavano a precisi segnali di cambiamento, anche sotto il profilo sociologico. Gli artisti anglosassoni in genere hanno una forte personalità, quindi non necessitano di costruzione culturale; da noi, invece, la personalità dell’artista è più costruita. Quindi, quest’esperienza mi è stata utilissima per imparare a decifrare ogni segnale proveniente da culture diverse rispetto la nostra.

Quali sono i motivi che ti hanno spinto ad approfondire i tuoi studi sulle origini della musica?

A me piace molto percorrere la vita a ritroso, andando indietro anche di secoli, quando io non c’ero ancora… Noi musicisti catturiamo, ascoltiamo, riassembliamo e riproponiamo ciò che in antichità, magari, già esisteva. Ti faccio un esempio, è molto interessante, anche da un punto di visto filosofico, andare a scoprire le origini del “rock” e molti non sanno che per far ciò si arriva alla musica popolare, della quale, peraltro, si parla sempre poco. Anni fa conobbi una persona che andava in giro per il mondo a registrare i canti popolari appartenenti alle più svariate culture. Conversando con lui, scoprimmo un comune, forte interesse verso i Beatles; subito dopo lui tirò fuori un ordinatissimo archivio di cassette ed insieme ascoltammo un loro brano in quel periodo in voga, nella sua versione originale, che risaliva addirittura al Settecento. Un pezzo gaelico ripescato da Paul Simon, dal quale ha preso ispirazione, per poi costruire il testo. Questo dimostra che non è possibile creare nulla dal vuoto. La musica è di tutti, ma allo stesso tempo non è di nessuno. Noi siamo il frutto di memorie antiche e non saremmo mai gli stessi se non riconoscessimo il valore della memoria nel nostro DNA.

Quindi, nella musica dei leggendari Beatles origini ancestrali?

Certamente, attraverso le mie ricerche ho scoperto la radice gaelico-celtica nella musica di John Lennon, dove però l’originalità della melodia, frutto del suo tocco creativo, non ha collegamenti con la memoria musicale antica. John era il vero leader del gruppo, anche se erroneamente viene considerato Paul.

Nel decennio cha va dagli inizi degli anni ’60 alla prima metà degli anni ’70, molti artisti si sono formati attraverso le esperienze maturate lavorando nei night club. Vorresti parlarmi della tua personale esperienza?

Negli anni ’60 inizio a suonare nei night, dove avviene la mia crescita. In quel periodo, questo tipo di locale notturno era la rappresentazione dell’eleganza, nella forma e nei modi. Il night mi ha fornito una specie di “patentino”: un’esperienza completa e formativa.

Come è avvenuto il tuo incontro con Lucio Battisti?

Un giorno conobbi Gianni Dall’Aglio, il suo batterista ed Angel Salvador de “I Ribelli” e loro poco dopo fecero avere il mio numero di telefono a Lucio, che stava cercando un bravo chitarrista. Così, un pomeriggio, mia madre prese una telefonata e mi disse: “C’è un certo Lucio che ti cerca…!” Confesso che, quando sentii la sua voce dall’altra parte della cornetta, la mia salivazione si azzerò! In quel momento ebbi la netta percezione che questo sarebbe stato il mio percorso di vita; non avrei mai potuto fare il commercialista. Del resto, il mio sogno era quello di vivere una vita nella musica e sono felice di esserci riuscito. Lucio Battisti, come tutti i cantautori, ha cancellato la cosiddetta “sindrome delle cover”, tanto di moda negli anni precedenti. Anche se prodotte in modo stilisticamente corretto, erano comunque delle traduzioni.

Negli anni ’70 hai avuto esperienze professionali anche con Mina, l’icona della musica italiana. Un particolare significativo di questa esperienza?

Ricordo volentieri che Pino Prestipino, produttore ed arrangiatore del brano “L’importante è finire”,

mi chiamò per suonare e mi presentò una “lavatrice con i tasti colorati”, che era la prima batteria elettronica. Quindi, lavorai solo, con la mia chitarra e questo nuovo strumento: una novità assoluta, se la rapportiamo a quarantacinque anni fa, un’esperienza singolare e gratificante.

Secondo te chi è il vero cantante rock italiano?

Sicuramente Edoardo Bennato, con il quale ho collaborato alla realizzazione dei suoi primi due album. Lui è un vero musicista “rock”, poiché questo genere vive sui doppi sensi e quando scrisse “Capitan Uncino” il messaggio politico era preciso e palpabile. Il doppio significato, molto presente nella struttura morfologica della lingua inglese, è stato correttamente usato da Bennato, nel suo modo di fare musica “rock”, parafrasando anche chiari contenuti politici. Invece, fra le cantanti, l’anima “rock” in assoluto è Loredana Bertè, che faceva “rock” per pura filosofia di vita ed andava persino in America ad apprendere novità dalle star, per poi tornare in Italia e realizzare spettacoli unici.

Quando ci fu la prima grande crisi del mercato discografico?

I primi segnali di crisi si avvertirono già agli inizi degli anni ’80, quando il mio telefono cominciò a non squillare più. Quindi, insieme al mio amico ingegnere fisico elettronico Maurizio Fulgenzi, cominciammo a pensare come mettere a frutto il nostro talento, magari creando buone melodie per la pubblicità. Fu così che iniziammo a realizzare jungle pubblicitari e vincemmo diversi premi e Grammy Awards per le pubblicità di famosi marchi, come Ferrero e Perfetti. Ricordo quei nove anni con grande rispetto e gioia; il mondo della pubblicità mi ha consapevolizzato sulle dimensioni reali della ricchezza, dei veri fatturati. Nel ‘92 questa bellissima favola finisce e quando le agenzie cominciano a chiedere preventivi a costo zero, io e il mio socio capimmo subito che dovevamo cambiar aria…

Negli anni ’80 sei stato il talent scout di diversi artisti: vorresti parlarmene?

In effetti, in quegli anni ho scoperto alcuni artisti, destinati poi al successo. Fra essi Biagio Antonacci, al quale davo suggerimenti e correggevo i brani e che nel 1987 ottenne il suo primo successo al Festival di Sanremo. In quel periodo, nel 1989 conobbi Francesca Alotta, la quale ha cantato mie canzoni, di impronta battistiana. Scrivere canzoni sullo stile di Battisti, mi fece venire un’idea, che però in quel momento misi nel cassetto. Solo quando conobbi Gianluca Grignani, del quale fui il produttore, con la sua bellissima canzone “Destinazione Paradiso” riuscii a concretizzare questa mia idea; infatti, trovai in lui un cantautore in grado di occupare la stessa poltrona di Battisti, senza però volerlo imitare.

Che ricordo hai della televisione di una volta?

Un bellissimo ricordo! Ho nostalgia della Rai di Alberto Manzi, che insegnava a tante persone a leggere e scrivere; in quegli anni in Italia il tasso di analfabetismo era ancora elevatissimo. Ricordo le serate dedicate alle commedie in teatro dialettale, grandi attori teatrali come Govi, De Filippo, Baseggio, come anche i venerdì sera dedicati alla musica sinfonica. Insomma, una Rai, allora seconda solo alla BBC, che dava cultura al popolo sotto forma di svago ed intrattenimento.

Qual è la tua opinione nei riguardi della musica e più in generale nei riguardi del modo di fare televisione?

Provo solo tanta amarezza nel constatare che dal 2000 è stata cancellata la memoria di un mestiere che ha dato molto alla società: quello dei cantautori. Noi musicisti, per renderci credibili abbiamo faticato molto, ma oggi tutto viene vanificato dal disastro annunciato dei “Talent show”, che contribuiscono fattivamente alla fine della cultura. La televisione oggi è solo una fabbrica di plastica, costituita da persone che studiano come strutturare uno spettacolo televisivo unicamente per attirare il pubblico, senza considerare il talento, la creatività degli artisti. Solo la strada è in grado di costruire la carriera di un musicista, mentre la Tv non può creare una carriera, ma solo confermarla. Gli artisti inglesi e americani da anziani fanno ancora le tournée e i loro dischi sono sempre gettonati. Qui da noi, al contrario, non c’è posto per la memoria e tutti noi non riusciamo ad occupare il posto che in realtà meritiamo, poiché non ci sono spazi televisivi per i personaggi della musica. Faccio un esempio, nei programmi che di tanto in tanto vengono dedicati a Battisti, alla fine vengono intervistate sempre le stesse persone che, paradossalmente, non c’entrano poi molto con la sua vita. Tutti ci aspettavamo un’evoluzione diversa del nostro Paese.

Quando ti rechi all’estero come ti presenti?

Quando mi trovo fuori dall’Italia dico che vengo dal Mediterraneo, poiché qui risiede la mia nascita culturale. In questi lunghi anni non ho smesso mai di studiare, di informarmi sulle vicende storicamente rilevanti, che hanno interessato la nostra area geografica negli ultimi 5000 anni, andando anche alla ricerca delle arcaiche radici della musica.

Sei sempre in piena attività con la band “Il nostro canto libero” formato da te, Gianni Dall’Aglio, storico batterista di Lucio Battisti , Franco Malgioglio, Pino Montalbano, Daniele Perini e Jonny Pozzi. Come vorresti concludere?

Abbiamo costituito questo gruppo proprio per dare continuità al vasto repertorio di Battisti, che molti giovani seguono con vivo interesse e questo viaggio, intrapreso con i miei amici qualche anno fa, va avanti, regalandoci grandi soddisfazioni e la magia “live”. Il mio destino si è incrociato con quello dei grandi personaggi della musica e per questo motivo mi sento un prescelto! Quando mi esibisco e riesco, in modo assolutamente consapevole, ad emozionare qualcuno capisco di aver dato un vero senso alla mia giornata. A questo argomento, non a caso, è dedicato il primo capitolo del mio libro: “Rock the monkey!”, scritto con David A.R. Spezia, nel quale spiego come “dall’essere consapevoli dipenda tutto”.

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Sono sempre emozionanti e ricchi di uno straordinario fascino gli incontri con i veri protagonisti della musica “beat” degli anni ’60, periodo d’oro per la musica italiana, come per quella dell’intero pianeta.

Gianni Calabria, storico batterista de “I Bisonti”, un complesso musicale che ha conosciuto il suo periodo di massimo splendore nei favolosi anni ’60, arriva puntualissimo al nostro appuntamento per questa intervista e da subito percepisco il suo irrefrenabile desiderio di raccontare, di parlare di quegli anni memorabili, in cui la nostra musica leggera ha aggiunto lustro al già nutrito bagaglio musicale italiano, fra opere liriche di superba bellezza ed un vastissimo repertorio di musica classica, da secoli apprezzato e famoso in ogni parte del mondo.

Sempre sorridente e giovanissimo, nello spirito, nell’abbigliamento assolutamente casual e soprattutto nel modo di pensare, Gianni inizia con un puntuale ricordo verso sua madre, vedova di guerra, che per tirare su i figli lavorava instancabilmente dalla mattina alla sera e nei pochi momenti di relax amava ascoltare il cantante Renato Carosone, un’icona della musica leggera napoletana.

Egli, appena adolescente, ascoltava invece la musica d’oltreoceano, come la maggior parte dei giovani, prediligendo Elvis Presley, il più grande talento del “rock and roll” e l’italoamericano Frank Sinatra, un artista che ha saputo attraversare molte generazioni. “Accendevo il giradischi e tenevo il tempo battendo i pugni sul tavolo - afferma sorridendo Gianni - e ogni giorno sentivo sempre più forte il desiderio di imparare a suonare una strumento. Tant’è che a diciotto anni cominciai a suonare la batteria ed iniziai ad accompagnare la famosa cantante Wilma De Angelis nelle sue serate…”

Questo l’esordio di Gianni Calabria nel panorama musicale, dapprima nella sola area milanese, all’interno della quale i vari complessi emergenti, ancora alle prime armi, si esibivano nei locali proponendo il repertorio dei Beatles, dei Rolling Stones e di altri gruppi, generalmente di provenienza anglosassone, che hanno segnato un’epoca. Nella seconda metà degli anni ’60 la radio, in particolare le radio private inglesi, trasmettevano continuamente i brani più gettonati di questi gruppi e in Italia, come anche in altre parti del mondo, i musicisti e i cantanti emergenti riproponevano con orgoglio i loro pezzi, riscuotendo sempre grandi consensi.

“I gusti musicali stavano cambiando - continua Gianni - così anche il nostro costume, che risentiva dell’egemonia culturale esercitata dal mondo anglosassone; noi spesso ci recavamo in Inghilterra, a Londra e a Liverpool, il tempio dei Beatles, soprattutto per imparare ed assimilare questi nuovi ritmi musicali. Inoltre, il mercato discografico italiano in quel periodo era uno tra i più fiorenti del mondo”.

Negli anni ’60 erano tantissimi i complessi, quelle che oggi si chiamano “cover band”, che suonavano a livello professionale. Non era difficile formare un complesso musicale, che eseguiva, almeno agli inizi, testi stranieri, con un arrangiamento molto simile a quello del pezzo originale. I testi delle versioni italiane venivano affidati ad autori molto bravi nell’adattare musiche, create per testi con una struttura linguistica sostanzialmente diversa dalla nostra.

Quando Bruno Castiglia si rivolse a Gianni per chiedergli di formare con lui un complesso, non incontrò alcuna esitazione; così, a distanza di pochi giorni fecero la loro prima esibizione presso il “Circo Medini” di Milano e andò subito benissimo.

Pertanto, “I Bisonti” nacquero il primis come band di supporto del cantante Bruno Castiglia, ma successivamente trovarono una loro precisa identità d’insieme. Una volta costituito il gruppo, si presentò per loro l’immediata necessità di fare un servizio fotografico, che in quel momento non potevano certo permettersi. Quindi, con mezzi rudimentali, come i fari accesi della macchina, realizzarono un casareccio ma decoroso servizio, che si rivelò utilissimo alla loro visibilità. L’arte di arrangiarsi, ancora molto in voga in quegli anni, aveva prodotto buoni risultati!

La conversazione con Gianni Calabria si fa sempre più interessante, quindi decido di rivolgergli qualche domanda diretta ed egli si dimostra subito entusiasta all’idea.

D) Chi decise per il complesso il nome “I Bisonti” e come furono gli inizi del vostro percorso musicale?

R) Il nome nacque da una mia idea, che venne sostenuta da tutti i componenti del gruppo. Nella scelta dei nomi, si seguiva la moda del momento, quando per i gruppi musicali venivano usati nomi di animali o altri strani appellativi, oggi decisamente improbabili. Nel 1966 incidemmo il nostro primo 45 giri: la straordinaria versione italiana di “Lucille”di Little Richard, un brano “rock and roll” del 1957, che fu un successo a livello internazionale.

Il nostro stile molto personale, definito “sweet beat”, nasce dalla fusione dei ritmi “beat” con la nostrana tradizione melodica e questo si percepisce chiaramente in brani come “Occhi di sole”,”Richiamo d’amore” e la romantica per definizione “Mi è rimasto un fiore”. Il repertorio più grintoso e ricco di vibrazioni lo riservavamo alle nostre serate “live”, nel corso delle quali animavamo molti locali milanesi, come “Il Piper”, “Il Tricheco”ed altri, che andavano per la maggiore.

L’errore del nostro primo impresario fu quello di chiedere compensi troppo alti e i locali, solo per questo motivo, inizialmente tendevano a rifiutarci ma, quando cambiammo impresario, le cose andarono decisamente meglio. In breve tempo, diventammo uno dei gruppi più affermati e nella “Maratona Beat” del famoso Carnevale del ’69, che si svolse al “Piper” di Milano, risultammo nella lista dei dieci nomi più prestigiosi del “Beat”, insieme a “Dik-Dik”, “Camaleonti”, “Giganti”, “New Dada” ed altri ancora. In quella speciale occasione, ci esibimmo per l’intera giornata!

Gianni_Calabria

D) Con quali brani avete ottenuto maggior successo in quel periodo?

R) I pezzi che andavano molto bene erano “Portami tanti rose”, successivamente ripresa da “I Camaleonti”, poi “La tua ombra mi segue”, “Occhi di sole” e “Crudele”, queste ultime erano il lato A e B dello stesso 45 giri; due brani assolutamente distanti fra loro, tanto da stentare a credere che fossero stati incisi dallo stesso complesso. Mi viene in mente un fatto che ci rese molto orgogliosi: il pezzo “Crudele” venne inserita in una compilation americana, come uno fra i brani più significativi e rappresentativi del “Beat internazionale”.

D) In che senso questi due brani erano distanti, vorresti spiegarmelo?

R) Te lo spiego in poche parole: “Occhi di sole” era una canzone quasi melodica, dai contenuti morbidi; al contrario “Crudele”rappresentava il “rock”, dove primeggiavano chitarre distorte e preveggenti gocce di acida psichedelica. Tutto questo rappresentava uno stile innovativo, almeno qui in Italia, tanto che è una delle canzoni italiane del periodo “beat” più quotate ed apprezzate. Nel 1967 questo disco veniva comperato dai cosiddetti raffinati, che amavano la dolce storia d’amore cantata in “Occhi di sole”, mentre oggi i collezionisti, in particolare quelli stranieri, pagano cifre incredibili per “Crudele”, poiché riconoscono questo brano come uno dei più belli che il “beat” abbia mai prodotto e questo lo sostiene anche l’esperto critico musicale Red Ronnie.

D) A parte i vostri brani, quali erano i repertori stranieri che amavate eseguire?

R) Nel corso delle nostre lunghissime serate presentavamo spesso il repertorio degli “Shadows”, il quartetto inglese, di matrice “rock americana”, nato come band d’accompagnamento di Cliff Richard. Questo complesso dominò le classifiche per molto tempo e si pose sulla scena musicale come il precursore rispetto ai “Beatles”. Inoltre, suonavamo gli splendidi brani dei leggendari “Bee Gees”, che adoravamo ed avemmo il piacere di accompagnare gli “Aphrodite Childs” nel loro tour e conoscere e condividere emozioni da palco con il grande artista Demis Roussos, purtroppo recentemente scomparso.

D) Attraverso i tuoi racconti si evince come, in poco tempo, siate riusciti a scalare la vetta del successo e mi risulta che in quegli anni partecipaste anche ad importanti trasmissioni televisive, oltre al famosissimo “Cantagiro” che, nato nel 1962 e prodotto dall’impresario Ezio Radaelli, ebbe negli anni la funzione di dare visibilità e successo a tanti complessi dell’epoca. Cosa ricordi di questa maratona canora e dei programmi televisivi che vi hanno visti protagonisti?

R) Del “Cantagiro” ho un bellissimo e nitido ricordo; un’occasione unica per condividere con una carovana di musicisti successo, amicizia ed anche momenti di sana rivalità, che animava bonariamente la competizione. Questo tour, che si ispirava al famoso Giro d’Italia ciclistico, era una gara canora a tappe, che andava in giro per il nostro Paese e durava a lungo; la gente ci accoglieva con entusiasmo al nostro passaggio nelle strade… Momenti indimenticabili!!! Inoltre, abbiamo partecipato a “Settevoci”, il programma di Pippo Baudo, allora ai suoi esordi, al “Disco per l’Estate” e ad altre numerose manifestazioni canore, fra le quali il “Festival di Rieti”, dove il nostro brano “Richiamo d’amore” si classificò primo.

D)Fra i miei ricordi di bambina, è vivo il fenomeno di costume dei “capelloni”: un look considerato decisamente trasgressivo, con il quale si omologavano verso la fine degli anni ‘60 complessi musicali, come anche tanti giovani, per il loro modo disinvolto di portare i capelli lunghi. Attraverso le foto, vedo che anche voi vi allineaste alle tendenze della moda. Cosa vorresti aggiungere su questo argomento, che tanto animava i media dell’epoca?

R) Dal 1968 in poi, dopo un iniziale disorientamento, il fenomeno dei “capelloni” componenti dei complessi musicali cominciò ad attirare sempre più il pubblico giovanile; ovviamente anche noi seguimmo la corrente, poiché, sostanzialmente, ci piaceva portare i capelli lunghi. Quasi tutti i giovani seguivano molto volentieri questa moda, in una sorta di emulazione, segno del cambiamento epocale che stava iniziando all’interno del tessuto sociale. Nell’ambiente della musica questo determinò contrasti, a volte accesi, fra il pubblico sostenitore dei cantanti tradizionali, come Gianni Morandi, Rita Pavone Orietta Berti e quello moderno, pronto alle innovazioni, che parteggiava per i complessi alla moda. Ricordo che anche i giornalisti, al seguito di noi artisti impegnati nel famoso “Cantagiro”, erano schierati fra conservatori e moderni e la TV dava ampio spazio a questo argomento.

D) Quando iniziò la crisi del complesso “I Bisonti”?

R) Verso la fine degli anni ’60 iniziarono i disaccordi fra me e Bruno Castiglia ed inoltre, poco prima della nostra partecipazione al “Disco per l’Estate” del 1970 il nostro tastierista Paolo Pasolini, organista della prima formazione, abbandonò il gruppo per entrare in seminario e nel 1990 venne ordinato sacerdote. Egli fu sostituito da Ciro D’Ammico che, insieme a me, poco dopo, fonderà il gruppo dei “Daniel Sentacruz Ensamble”: da quel momento iniziò la mia nuova era musicale.

D) Quali ricordi hai di questa nuova esperienza?

R) Ricordo il grande successo di pezzi come “Soleado”, che rappresenta il nostro singolo di debutto e nel 1974 rimase in vetta alle nostre classifiche per molto tempo, con la vendita di cinque milioni di dischi ed ancora “Aguador”, “Un sospero”, “Linda bella Linda” etc. Nel nostro primo anno fece parte della formazione anche un grandissimo chitarrista, l’amico Massimo Luca. Conservo un ricordo assolutamente positivo di quegli anni, nel corso dei quali partecipammo a tanti programmi televisivi. La nostra casa discografica era la EMI e durante una delle convention, che si tenevano annualmente, conobbi anche i “Queen” e il loro bravissimo leader Freddy Mercury. Il nostro impresario, Il marchese Gerini, lo stesso di Peppino di Capri, ci portò in tournée in giro per il mondo, da Toronto al sud America e nel 1977 a Buenos Aires incontrammo anche Gina Lollobrigida. Questa fu una delle più belle esperienze all’estero ma, a causa di disordini politici in Argentina, durante la nostra permanenza fummo costretti a non uscire dall’hotel; quindi, quasi tutti i soldi guadagnati finirono in acquisti strampalati, per passare il tempo.

Mi viene in mente un aneddoto che non dimenticherò mai: mi trovavo in tournée in Polonia e, una volta finito il concerto di Cracovia, tornato nei camerini per cambiarmi, non trovai più la mia camicia, alla quale ero molto affezionato poiché quella del giorno del mio matrimonio. In segno di riscatto per il furto subito, presi tutti i portaceneri presenti in hotel e li portai via… Una volta rientrato in Italia, regalai portaceneri a tutti, come souvenir. Durante queste nostre tournée venivamo pagati in valuta locale, quindi in Polonia ricevevamo szoty, che investivo puntualmente in acquisti d’oro, altrimenti avrei dovuto convertirli in lire e non mi sarebbe convenuto. In questo modo, alla fine, di quello che guadagnavo non portavo a casa quasi nulla. Però ci divertivamo molto e mi ritengo fortunato di essere riuscito a fare quello che veramente mi appartiene!

Oggi, purtroppo, non si lavora più come una volta, la vita artistica dei cantanti è molto breve e non resta memoria per gran parte di essi. Non esiste più la vera melodia; per me la musica è un qualcosa di grandioso, di immenso e il mio punto di riferimento, come tanti anni or sono, restano sempre i grandissimi “Beatles”. Tuttavia, mi piace constatare che molti giovani ascoltano e studiano con interesse gli artisti di quel periodo d’oro, non solo per la musica italiana, ma anche per quella internazionale. In una visione molto più ampia, che tocca i vari aspetti della nostra vita, ognuno di noi è consapevole che fino a qualche decennio fa si viveva meglio; ma voglio conservare l’ottimismo e sperare che presto si possa tornare a vivere in un clima più disteso, sempre all’insegna della musica.

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