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Copertina del saggio

 

A coronamento delle commemorazioni sul cinquantesimo anniversario dall'apertura del Concilio e – quindi – del relativo “Anno della Fede” indetto da Benedetto XVI e concluso da Papa Francesco, il professor Stefano Fontana ha pubblicato un agile saggio investigativo sulla questione della retta interpretazione del Concilio che, dall'ormai celebre Discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 del Pontefice tedesco, non cessa di far discutere animatamente storici, teologi, esperti e osservatori vari delle correnti più diverse (cfr. S. FONTANA, Il Concilio restituito alla Chiesa. Dieci domande sul Vaticano II, La Fontana di Siloe, Torino 2013, Pp. 190, Euro 18,00). Non si tratta, però – è bene premetterlo subito in apertura – dell'ennesimo volume a tesi che tira strumentalmente acqua al mulino di chi va per la maggiore in un dato momento storico con il solo obiettivo di polemizzare ma di un'intelligente, vivace e persino simpatica rilettura del passato recente della comunità cristiana che abbraccia, prendendo spunto da alcune domande fondamentali - come suggerisce il sottotitolo - gli ultimi cinquant'anni di vita della Chiesa. Obiettivo di Fontana in questo testo è infatti quello di contribuire a chiarire le idee a un ipotetico fedele-medio della Chiesa che non ha vissuto il Concilio, magari non ha neanche letto tutti e diciassette i documenti licenziati dall'assise e oggi, in un periodo storico decisamente molto confuso, fatica a comprenderne tutte le conseguenze. Non si tratta quindi di uno studio riservato alla nicchia degli esegeti ma di una divulgazione piana diretta al semplice fedele che va a Messa la Domenica e segue abitualmente, anche con interesse, la vita interna della Chiesa senza però avere il tempo, e spesso neanche gli strumenti, per approfondire le questioni di non immediata attualità. La prefazione, firmata da Monsignor Crepaldi, intitolata “La corretta ermeneutica del Vaticano II e la nuova evangelizzazione”, d'altra parte fornisce ulteriori elementi signficativi di accompagnamento alla lettura quando sottolinea la necessità di fare finalmente strada a “una visione pienamente ecclesiale del Concilio” (p. 5) ribadendo – sulla scorta di quanto aveva già detto il cardinal Ratzinger – che il Vaticano II “non è un superdogma [e] si inserisce nella tradizione della Chiesa” (ibidem), qualcosa che invece è regolarmente mancato nelle principali ricezioni e letture che si sono susseguite negli ultimi decenni.

Come mostra opportunamente l'introduzione al saggio vero e proprio, infatti (“Introduzione di un semplice fedele della Chiesa cattolica. Che cos'è successo?”), scattando una serie di istantanee su quello che avvenne dal punto di vista pratico all'interno della Chiesa negli anni a immediato ridosso del Concilio, dimensioni essenziali e persino strutturali della Catholica come l'ambito della tradizione o la liturgia vennero radicalmente re-interpretati, e ri-formati, secondo canoni e chiavi di lettura che spesso non avevano precedenti, né - dal punto di vista formale - reale fondamento, nella storia della comunità cristiana. D'altra parte queste forzature, non autorizzate dai Pontefici, ma appoggiate vigorosamente dai circuito dei mass-media e rilanciate da settori non trascurabili della teologia del tempo, finirono col diventare un 'fatto' incontrovertibile senza che i richiami del Magistero sul punto venissero mai presi in considerazione. Particolarmente illuminante è quanto accaduto – ancora recentemente – allo stesso Benedetto XVI che nel 2009, in seguito ad un provvedimento del suo Pontificato sul delicato rapporto tra comunione e tradizione, si era visto addirittura costretto a scrivere una Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica riguardo al ritiro della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall'arcivescovo Lefebvre lamentando di essere stato trattato dagli stessi “con odio senza timore e riserbo” (cit. a p. 23): un'ulteriore dimostrazione del fatto che nella Chiesa continua ad esistere un serio problema di disciplina e di obbedienza verso l'autorità gerarchica e che persino ad alti, altissimi livelli, talvolta la manifestazione dell'ortodossia può assumere i contorni della testimonianza eroica vera e propria. Beninteso, a scanso di equivoci, Fontana sgombra il campo dai sospetti che potrebbero subito tacciarlo di anticonciliarismo: “le cause della crisi attuale della religione cattolica e della Chiesa sono molteplici e non possono essere ricondotte al solo Concilio. Esse coinvolgono anche altre dinamiche storiche e culturali. Ne elenco solo alcune per brevità: lo sviluppo del principio di immanenza della filosofia moderna, l'utilizzo ideologico dello sviluppo della tecnica che ha denaturalizzato la vita umana, l'ideologia scientista che ha desacralizzato il mondo, la liberalizzazione del costume sociale - specialmente di quello sessuale e riproduttivo - , le nuove ideologie del corpo, la cosiddetta postmodernità e il connesso pensiero debole, lo sfondamento dei confini tramite internet che ha mescolato storie, usanze e princìpi, l'ideologia della modernità, o modernismo, che è penetrata anche dentro la Chiesa, la crisi della metafisica, il passaggio da una fede vista come conoscenza a una vista come esperienza” (p. 28).

Come si vede, i problemi del tempo presente sono molteplici, ampi e variegati (altri se ne potrebbero aggiungere) e quindi non riconducibili superficialmente a questa o quell'interpretazione di un documento conciliare. Anzi, si può semmai mettere in evidenza che alcuni degli iniziali sostenitori più appassionati dell''evento-Concilio' non abbiano poi lesinato dubbi e persino critiche severe appena qualche anno più tardi. L'Autore cita ad esempio il caso del grande storico tedesco della Chiesa Hubert Jedin, in quegli anni 'firma prestigiosa' anche su L'Osservatore Romano, che aveva denunciato pubblicamente “il trasferimento nella Chiesa di forme di democrazia politica”, quindi la penetrazione di “elementi protestanti nell'ecumenismo” senza tacere persino i limiti pastorali stessi della costituzione pastorale Gaudium et spes, una delle quattro grandi costituzioni fondamentali del Concilio: “Questa costituzione fu salutata con entusiasmo, ma la sua storia posteriore ha già dimostrato che allora il suo significato e la sua importanza erano stati largamente sopravvalutati e che non si era capito quanto profondamente quel 'mondo', che si voleva guadagnare a Cristo, penetrasse nella Chiesa” (cit. a p. 33). Oppure il cardinale francese Henri de Lubac, che pure era stato perito al Concilio, e che tuttavia già nel 1969 sosteneva che la Lumen gentium (un'altra delle costituzioni conciliari) venisse di fatto dai più “adoperata per legittimare la democrazia nella Chiesa”. E ancora si potrebbero citare don Divo Barsotti, che fu chiamato da Paolo VI a predicare gli esercizi spirituali alla Curia nel 1970 dove parlò espressamente di “crisi”, Jacques Maritain con le sue riflessioni amare e autocritiche sulla cronolatria (cioè l'esaltazione a priori di tutto ciò che è nuovo e diverso rispetto al passato), fino a Gianni Baget Bozzo che ripensando ai principali episodi di quegli anni sosterrà che “da una sottile fessura è passata l'autodistruzione della Chiesa” (cit. a p. 40). Insomma, uomini e pensatori molto diversi, non catalogabili in alcun modo sotto uno schema di parte, in tempi diversi e da cattedre differenti hanno espresso domande, nutrito dubbi, sollevato perplessità, fino ad arrivare a delle critiche vere e proprie. Ce n'è abbastanza per aprire una vera e propria indagine a tutto campo su quegli anni e le loro conseguenze per la vita della Chiesa, senza peraltro dimenticare le numerose influenze e le pressioni culturali, e anche politiche, dell'ambiente esterno e della società occidentale di quella stagione storica (si pensi alla rivoluzione dei costumi del '68, al primo vero referendum di civiltà dell'Italia repubblicana che fu quello sul divorzio, poco più tardi o, fuori dall'Italia, pure alle numerose crisi provocate dalla Guerra Fredda).

Venendo al Concilio vero e proprio, uno dei dati di fatto accertati è che la cosiddetta pastoralità alla lunga abbia giocato un ruolo decisivo. In effetti, “nessun Concilio prima del Vaticano II si era dichiarato 'pastorale'” (p. 63) e il significato autentico dello stesso termine non era stato mai realmente approfondito: per dirne una, il cardinale Biffi “afferma di aver trovato 'ambiguo' questo concetto” (p. 64). Tuttavia, il fatto che sia stato un Concilio pastorale non significa che esso non abbia implicato delle conseguenze dottrinali, anche se non dogmatiche, come pure emerge dai pronunciamenti del Magistero successivo. Di certo, da allora i teologi hanno assunto un ruolo di guida preponderante nella vita interna della Chiesa (se solo si pensa che al Vaticano I del secolo precedente non era presente nessun teologo) dando vita talora a quelle forme di 'magistero alternativo parallelo', per usare un'espressione particolarmente opportuna dell’istruzione Donum Veritatis della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla vocazione ecclesiale del teologo (1990), che rovesciando radicalmente la consueta gerarchia del rapporto Chiesa-mondo, finiscono col leggere il Vangelo e la Tradizione apostolica a partire dalla realtà storica e dalle correnti di pensiero dominanti, invece che il contrario. E' anche in seguito a questo singolare processo di mondanizzazione che una disciplina come la metafisica è progressivamente sparita dalla riflessione dottrinale e dalla catechesi per fare spazio all'ermeneutica “maggiormente aperta alla storia” (p. 109) e a quanti – come taluni biblisti – si battevano allora per il superamento radicale della tradizionale visione del mondo cattolica. A tutte queste tendenze i moti e le ribellioni - generazionali e culturali - degli anni '60 forniranno un formidabile supporto e più volte i Pontefici, a partire da Paolo VI (che nel post-Concilio pronuncerà allarmato decine d'interventi critici, se non drammatici) saranno costretti a intervenire in prima persona per fare chiarezza ri-orientando sensibilmente il timone della Barca di Pietro e prendendo decisamente le distanze da quanti – ed erano in molti – senza nessun tipo di mandato né di particolare rappresentanza, andavano invece nelle piazze e nelle parrocchie a dire enfaticamente 'il Concilio siamo noi' con l'aria di voler fare piazza pulita una volta per sempre con gli ultimi diciannove secoli di storia della Chiesa.

Eppure, scrive Fontana, la storia sarebbe potuta andare diversamente se solo si fossero ascoltate altre campane. L'Autore cita a questo proposito quattro esempi di opere uscite negli anni '60 ma di controcanto rispetto al canone dominante. La prima è proprio di Gianni Baget Bozzo ed uscì nel 1962: si tratta di Cristianesimo e ordine civile (recentemente ripubblicata da Cantagalli) che si fonda in buona parte sull'idea – poi duramente contestata – “che l'ordine naturale della società non possa costituirsi come tale e reggersi senza l'ordine soprannaturale” (p. 110): qualcosa che richiama il primato di Dio per la giustizia e lo sviluppo della società e quindi, necessariamente, il riconoscimento della presenza pubblica della Chiesa e dello statuto dell'identità cattolica in quanto tale che la modernità nelle sue matrici più ideologiche aveva invece escluso nell'Occidente degli ultimi due secoli. Il secondo testo è Il problema dell'ateismo di Augusto Del Noce, che esce nel 1964 e tematizza l'altro grande tabù della modernità, ovvero il rifiuto della concezione biblica del peccato originale, dando quindi luogo a “religioni atee” (p. 114), come è ad esempio indubbiamente il marxismo, che sostituiscono la Rivelazione sottintendendo altri atti di fede, anche se superficialmente vengono negati. Il terzo libro è Il Contadino della Garonna di Maritain, del 1966, che è un'autocritica insospettabile, e matura, proprio di un filosofo che invece a tante seduzioni della modernità vi aveva sinceramente creduto, finendo col perdere di vista la dimensione essenziale della militanza della vita cristiana: “Il mondo non può essere neutro in rapporto al regno di Dio. O è vivificato da esso o lo combatte” (cit. a p. 117). L'ultima opera, e non poteva essere diversamente, è di Joseph Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, che esce nel 1968 e riapre uno spazio per una visione metafisica della dimensione storica dell'umanità che fonderà poi le basi per una teologia politica finalmente esigente, e non più di rimessa, che potesse affrontare apertamente i nodi più problematici del rapporto Chiesa-mondo già allora. Il resto, come si dice, è cronaca recente e arriva al discorso alla Curia romana del dicembre 2005 e al motu proprio Summorum Pontificum del 2007 che hanno iniziato - nonostante le difficoltà presenti e le domande che pure ancora possono sorgere - a restituire pienamente il vero Concilio al legittimo e autentico detentore: non un singolo pastore o un gruppo di teologi, neanche un assise di biblisti ed ermeneuti, ma alla Chiesa tutta medesima, laici e religiosi, presbiteri e vescovi uniti sotto la guida - e in comunione – con il Pontefice regnante e il suo Magistero.

Copertina Identità Europa

 

A più di vent'anni dall'entrata in vigore del celebre Trattato di Maastricht sull'Unione Europea (1992), il tema dell'identità culturale e religiosa e della memoria storico-politica del Vecchio Continente continua ad essere ancora oggetto di controversie, polemiche e fraintendimenti. Se a livello di classi dirigenti i segni di speranza non paiono - al momento - essere proprio tantissimi, per usare un eufemismo, lasciano tuttavia ben sperare alcune recenti iniziative portate avanti localmente soprattutto a livello scolastico ed educativo. Tra queste ultime, una menzione particolare merita il progetto “Identità Europa”, realizzato presso il liceo classico Pitagora di Crotone un paio di anni or sono e riprodotto ora a grandi linee in un'agile pubblicazione a cura di Maria Grazia D'Ettoris per il medesimo editore (cfr. Identità Europa, D'Ettoris Editori, Crotone 2011, Pp. 70, Euro 6,70). Inaugurato da un'opportuna - quanto significativa - citazione di uno dei principali pensatori europei alla soglia del tempo della modernità, il britannico Edmund Burke (1729-1797), che a proposito del Vecchio Continente scrisse che “nessun cittadino d'Europa potrebbe sentirsi del tutto in esilio in alcuna parte d'essa [...] Quando un uomo viaggia, o risiede per salute, piacere, lavoro o necessità lontano dal suo paese, egli non si sente mai del tutto all'estero” (cit. a pag. 5), il lavoro – preceduto da una “Presentazione” metodologica della stessa D'Ettoris (pagg. 8-9) che fa luce sul repertorio delle varie fonti documentali e bibliografiche adottate nel corso dell'iniziativa (dagli studi [in corso di pubblicazione per lo stesso editore] dello storico britannico Christopher Dawson (1889-1970) a quelli del sociologo contemporaneo statunitense Rodney Stark, senza dimenticare nomi del calibro di Pierre Chaunu (1923-2009) e Marco Tangheroni (1946-2004)) – offre una raccolta scelta di articoli a tema di alcuni studenti che hanno partecipato al corso e tre interviste ad altrettanti studiosi d'eccezione della storia culturale del continente europeo: Giovanni Cantoni, Massimo Introvigne e Francesco Pappalardo.

Il risultato è un'opera divulgativa scritta da, e diretta a, un pubblico giovanile e mirata ad interrogare intelligentemente gli studenti delle nostre scuole e dei nostri licei sull'importanza della conoscenza della storia e delle nostre radici morali e spirituali per la formazione dei buoni cittadini del futuro. Da questo punto di vista, paiono particolarmente utili gli approfondimenti su temi decisamente rimossi dalla manualistica storiografica contemporanea come quelli sull'importanza dei monasteri in epoca medievale (cfr. pagg. 18-22) che, lungi dall'essere eremi per pochi eletti, offrivano invece a tutta la popolazione circostante una serie di opportunità che nei periodi di crisi si riveleranno poi invece decisive per la conservazione dello sviluppo della vita civile e comunitaria: “nel VI secolo san Benedetto da Norcia fondò il suo primo monastero a Montecassino, dando vita a un'esperienza che avrà un'enorme influenza sulla successiva storia europea, da un punto di vista religioso, culturale ed economico. Le sue semplici regole modificarono, col tempo, l'economia all'interno e all'esterno del monastero, dando vita ad attività e ad innovazioni sorprendenti per i loro effetti: grazie ai monaci benedettini si sviluppò infatti la silvicoltura, la pescicoltura, l'apicoltura, si crearono nuovi tipi di formaggio (oggi noti in tutto il mondo), si studiarono nuovi metodi di cura con erbe officinali [...] Chi, anche laico, viveva nei pressi del monastero, usufruiva di una serie di servizi senza precedenti (scuole, ospedali, assistenza) e trovava sempre qualcosa da mangiare. Dei vari monasteri che furono istituiti in Occidente, molti si specializzarono in ospizi e ospedali (i primi della storia e aperti anche ai poveri); svolgevano un'azione sociale cercando di portare aiuto alle classi più deboli ospitando i pellegrini. I monasteri diventavano non solo centri spirituali, ma anche luoghi di cultura; furono fondate scuole che istruivano sia i monaci sia la gente comune, diffondendo così la cultura in tutto l'Occidente. In questo modo il monastero diventava un centro di vita attivissimo, circondato da centinaia di persone, che contribuì a dar vita alla civiltà europea, visto l'enorme numero di monasteri sorti nel Medioevo in tutta Europa” (pagg. 18-19). Oppure, poco dopo, l'approfondimento sul bellicismo islamico come antagonista militare storico della civiltà europea dal momento che se ancora oggi siamo liberi è anche perchè più volte in passato l'avanzata islamica è stata fermata in extremis, a prezzo di enormi sacrifici: “nel 709 l'intero Nord Africa venne conquistato. Dal 712 l'espansione si estese alla Spagna arrestandosi solo nel 732 con la sconfitta di Poitiers inflitta agli islamici dai franchi di Carlo Martello. Molti storici hanno considerato la vittoria riportata a Poitiers come un evento fondamentale per la sopravvivenza della civiltà occidentale. Edward Gibbon [1737-1794] ha ipotizzato che se a Poitiers i musulmani avessero vinto, sarebbero arrivati in breve tempo «fino ai confini della Polonia e alle Highlands della Scozia...e la flotta araba avrebbe potuto navigare senza nemmeno uno scontro navale fino alla foce del Tamigi. Forse oggi nelle scuole di Oxford si insegnerebbe l'esegesi coranica e dalle sue scuole verrebero rivelate a una popolazione circoncisa la santità e la verità dell'insegnamento di Maometto». In seguito, molti studiosi occidentali hanno condiviso l'analoga visione della grande battaglia come di un momento di grande portata storica” (cit. a pag. 24), cosa che purtroppo è molto meno condivisa oggi, in tempi di pensiero debole 'ufficializzato' a livello istituzionale e di relativismo culturale dominante a livello popolare.

Ben vengano allora testi come questi che, con semplicità, ma anche con chiarezza, aiutano il confuso lettore di oggi a muoversi con il dovuto rispetto e ascolto verso il proprio passato e le proprie tradizioni, pure messe in pericolo dai fenomeni non sempre gestibili della rapida 'globalizzazione virtuale' dei costumi e dei comportamenti collettivi. Significativa e originale, da questa prospettiva, anche la scelta di far precedere ognuno dei capitoli del volume dalla riproduzione dei quadri 'tradizionalmente' più illustri e rappresentativi della millenaria civiltà artistica che ci ha preceduto: da Allegoria della battaglia di Lepanto (1571) e Ratto di Europa (1578) del rinascimentale Paolo Veronese (1528-1588) al ritratto di Edmund Burke (1774) di Sir Joshua Reynolds (1723-1792) fino a quello immortale del conte Joseph de Maistre (1753-1821) ad opera del romantico tedesco Carl Christian Vogel von Vogelstein (1788-1868).

In una intervista del 2005 Papa Benedetto XVI, faceva notare che l’insegnamento di Giovanni Paolo II “rappresenta un patrimonio ricchissimo che non è ancora sufficientemente assimilato nella Chiesa”. E soprattutto i suoi documenti, rappresentano “un tesoro ricchissimo” per interpretare il Concilio Ecumenico Vaticano II.

Nella sua prima enciclica, la “Redemptorhominis”, il Papa venuto dall’Est, fa memoria di come il Concilio abbia insegnato a rivolgersi agli uomini contemporanei attraverso il “dialogo”. Naturalmente, la Chiesa deve dialogare con gli uomini che vivono in questo mondo, con certe caratteristiche, che vanno conosciute perché il dialogo possa essere efficace. In questa enciclica secondo Marco Invernizzi, autore dell’agile pamphlet, “San Giovanni Paolo II. Un’introduzione al suo Magistero” Sugarcoedizioni(Milano 2014) si cominciano a definire le caratteristiche del pontificato di Giovanni Paolo II, che sono quelle dello spirito missionario. Il Papa aveva le idee chiare a questo proposito, si richiamava all’esortazione apostolica “Evangeliinuntiandi” di Paolo VI, che nel 1975 si sforzò di far penetrare nella Chiesa un profondo senso dell’apostolato missionario. “L’atteggiamento missionario – scrive Giovanni paolo II – inizia sempre con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò che ‘c’è in ogni uomo’ (Gv 2,2). Pertanto, “la missione non è mai una distruzione, ma è una riassunzione di valori e una nuova costruzione(…)”. Esiste per il Papa un rapporto tra la veritàche il missionario deve trasmettere e la libertàche deve essere rispettata in colui al quale l’apostolo si rivolge, e qui che viene spiegato il senso della dichiarazione sulla libertà religiosa, “Dignitatishumanae”, del Vaticano II, “una dichiarazione – secondo Invernizzi –che vuole ricordare che la Chiesa, così come è custode della Verità che ha ricevuto, custodisce anche la verità sull’uomo, ossia il valore della sua libertà e dignità”. Alla Chiesa interessa solo: “che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incarnazione e della Redenzione (…)”.

Il Papa comprende che la Chiesa incontra un uomo minacciato spesso dagli stessi progressi compiuti dallo sviluppo tecnologico. Giovanni Paolo II è molto duro nei confronti del XX secolo: “Il nostro secolo è stato finora un secolo di grandi calamità per l’uomo, di grandi devastazioni non soltanto materiali, ma anche morali, anzi forse soprattutto morali” (n.17)E’ sotto gli occhi di tutti che l’uomo moderno, che aveva teorizzato i diritti umani fondamentali, nella nostra epoca, si è allontanato dal rispetto del diritto naturale. Nella RedemptorHominis, il Papa affronta alcuni argomenti che poi saranno ripresi nel corso del pontificato. Il ruolo dei teologi e la necessità che il loro insegnamento sia intriso di preghiera oltre che di scienza e di ricerca e che soprattutto, i loro studi, siano legati al Magistero. A questo devono vigilare i vescovi, come pastori, successori degli Apostoli che devono guidare il Popolo di Dio, in comunione con il Santo Padre. L’importanza della centralità del sacramento dell’Eucarestia, che si lega necessariamente a quello della riconciliazione, che deve prevedere la confessione sacramentale personale, come raccomanda l’insegnamento costante del Magistero. Qui il Papa fa riferimento al tema della libertà, un tema che sarà centrale nel suo pontificato. Numerosi sono i suoi interventi sulla libertà religiosa e sul disprezzo dei principi fondamentali del diritto naturale. A questo proposito scrive Giovanni Paolo II: “Ai nostri tempi, si ritiene talvolta, erroneamente, che la libertà sia fine a se stessa, che ogni uomo sia libero quando ne usa come vuole, che a questo sia necessario tendere nella vita degli individui e delle società. La libertà, invece, è un grande dono soltanto quando sappiamo consapevolmente usarla per tutto ciò che è il vero bene. Cristo c’insegna che il miglior uso della libertà è la carità, che si realizza nel dono e nel servizio” (n.21)

A questo punto Invernizzi commenta le pagine dell’enciclica di Giovanni Paolo II che fornisce una singolare lettura del Vaticano II, “entusiasmante ma pochissimo diffusa, anche fra i vescovi”. Indubbiamente “Il Concilio è stato l’avvenimento centrale della Chiesa del secolo XX e non poteva essere altrimenti, trattandosi della convocazione di tutti i vescovi del mondo per mettere la Chiesa cattolica nella condizione di affrontare le sfide dettate dalla nuova situazione mondiale”. Un Concilio pastorale come spiegò Giovanni XXIII nel discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962, “che doveva indicare alla Chiesa con quale nuovo atteggiamento si sarebbe dovuta porre nei confronti di un mondo che si riteneva fosse profondamente cambiato in seguito alla realizzazione della cosiddetta modernità, dopo la Rivoluzione del 1789, ma anche di fronte alla stessa modernità, che si sarebbe poi manifestata in tanti aspetti con la rivoluzione culturale del 1968”.

L’indizione del Concilio colse tutti di sorpresa, provocando una certa agitazione nella Chiesa. Anche durante i lavori perdurò l’agitazione, talvolta si arrivò ad infiammare e a dividere la stessa cristianità, almeno in Occidente, non soltanto durante la durata dell’assise, ma anche soprattutto negli anni successivi. Intanto il futuro pontefice Giovanni Paolo II, nella sua diocesi polacca, vivrà invece il Concilio “come un dono e un’occasione di arricchimento della fede, in una prospettiva missionaria e di rinascita spirituale”.

Due furono le interpretazioni dialettiche del Concilio in quell’epoca profondamente ideologica,“eravamo nel pieno del ‘secolo breve’. Una dialettica ideologica che era penetrata anche dentro la Chiesa. Il clima era quello dove ci si contrapponeva tra Chiesa preconciliare e un’altra postconciliare, tra progressisti e tradizionalisti. Il classico schema “progressista” , applicava alla Chiesa l’utopia di una società di liberi e uguali, pertanto, secondo Invernizzi, si confondeva, “l’incontro con Cristo al termine della storia, il giudizio universale, con il progresso indefinito dell’umanità raccontato dalle ideologie illuminista e marxista”.Così applicando questo schema alla storia della Chiesa, “il Concilio diveniva una sorta di svolta epocale fra il tempo ‘oscuro’ della Chiesa costantiniana e tridentina e finalmente quello della ‘luce’ portata dall’assise conciliare; che avrebbe cambiato tutto riconoscendo l’inferiorità e l’arretratezza della Chiesa nei confronti del mondo”.

Invece, leggendo attentamente i documenti conciliari, la realtà è tutta diversa: “la svolta conciliare consisteva nel cercare un modo adeguato alle caratteristiche dell’uomo moderno per trasmettere il Vangelo e la dottrina della Chiesa, che non possono mutare ma soltanto essere comprese meglio”. Era questo il significato che aveva dato il Santo Padre Giovanni XXIII.

Al prossimo appuntamento.

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