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Copertina del libro di padre Amorth

 

Nella società postmoderna che ha rotto ogni tabù sembra essere l'ultimo tabù rimasto. Parliamo del diavolo, l'angelo decaduto - ribelle a Dio - che il Vangelo stesso definisce il “principe di questo mondo” (cfr. Gv 12,31 e Gv 14,30). Eppure basterebbe dare un'occhiata alla cronaca quotidiana (nera e non) per capire che il male non solamente esiste ma può assumere contorni che vanno persino oltre il crimine più efferato. L'ultimo libro di padre Gabriele Amorth, il più noto esorcista italiano vivente, fondatore nel 1990 dell'Associazione Internazionale degli Esorcisti, di cui attualmente è presidente onorario, scritto a quattro mani con il giornalista Paolo Rodari (cfr. Padre Amorth – P. Rodari, Il segno dell'esorcista. Le mie ultime battaglie contro Satana, Piemme, Milano 2013, Pp. 236, Euro 16,50) chiarisce ogni residuo dubbio in proposito proprio sulla base della pluridecennale esperienza svolta dal religioso della Società di San Paolo nel ministero esorcistico. Quello che lo muove a scrivere ancora è soprattutto l'amore alla Madonna, Madre di Dio, che gli ispira le iniziative più incredibili come quella, ricordata in apertura del saggio, di “aver ottenuto e organizzato la consacrazione dell'Italia al Cuore Immacolato di Maria nel 1959” (pag. 8), un atto non solo di devozione spirituale ma dal notevole significato pubblico e teologico se solo si considerano gli anni in cui avvenne, con l'Europa divisa in due blocchi antagonisti contrapposti. Nei successivi dieci capitoli, il religioso, partendo dalla più tradizionale catechesi (in principio c'è solo Dio, Signore e Creatore dell'universo) arriva a spiegare ai lettori odierni, con un linguaggio diretto e con lineare semplicità e pazienza, alcune delle verità fondamentali della fede cristiana oggi spesso taciute: “A cosa serve la vita? Perchè vivere? Se il creatore è Dio che ha mandato suo figlio Gesù Cristo nel mondo, allora l'unico scopo per cui vivere resta Cristo. Solo se vive per Cristo lo si può raggiungere in Paradiso. Lo scopo della vita altro non è che conoscere, amare e servire Cristo, porta della felicità in questa terra, porta dell'eternità dopo la morte” (pag. 18) riecheggiando passi del celebre Catechismo di San Pio X. Alla domanda successiva su come si fa a seguire allora Cristo, la risposta di padre Amorth è immediata: “anzitutto incontrandolo nei sacramenti: confessati, ricevi l'eucaristia. Lui è lì. E poi frequentando la Chiesa, coloro che già lo seguono. Seguilo e vedrai” (pag. 19). E' questo, in definitiva, il modo migliore per tenere lontano anche il demonio: per riuscirci, occorrono sempre, come insegna d'altra parte il Vangelo e confermano le apparizioni mariane, “il digiuno e la preghiera” (pag. 32), difese sicure contro ogni tentazione.

Chi si aspetta rivelazioni-scoop sensazionalistiche a effetto resterà deluso, il libro - se pure non nasconde certo casi eclatanti di possessioni e ossessioni - è anzi una testimonianza chiara di come fare della buona informazione in un ambito dove solitamente ciarlatani e truffatori abbondano. Esemplare è, da questo punto di vista, la parte centrale sugli angeli e sui demoni: “essi sono spiriti invisibili. Operano senza che ce ne rendiamo conto. Eppure esercitano un'azione efficacissima. Gli angeli ci proteggono dai pericoli dell'anima e del corpo. Ognuno di noi ha un angelo custode che lo assiste per tutta la vita: capiremo solo in cielo quanto egli ha fatto per noi sia con suggerimenti rivolti a farci vivere secondo Dio, sia con interventi che ci hanno protetto da mali occasionali. Il movimento degli angeli, insomma, è stupendo e in parte misterioso. Eppure ha una grande influenza sulla nostra vita. Anche i demoni operano nascostamente, senza che noi ce ne accorgiamo. Per odio contro Dio tentano l'uomo al male. Come suggerisce san Pietro, i demoni ci circuiscono cercando il nostro punto debole, come un leone ruggente che va in cerca della preda (cfr. 1 Pietro 5,9). E così individuano dove attaccare. In genere, ci spingono verso una delle tre grandi passioni: il successo, il denaro, il piacere. Non conoscono i nostri pensieri ma li deducono dal nostro comportamento esteriore. Non conoscono il futuro ma spesso lo indovinano dalle nostre tendenze. Sono astuti, certo, ma non hanno il dono dell'onniveggenza, che appartiene soltanto alla sapienza di Dio” (pagg. 74-75). La summa del combattimento spirituale che ogni cristiano deve affrontare nella vita, come si vede, è tutta in queste parole.

A seguire, Amorth si sofferma sugli aspetti davvero straordinari – cioè fuori dal comune – dell'azione diabolica che nei casi più gravi (come le possessioni, ad esempio) possono durare anche anni giacché “ci vogliono molti esorcismi prima della definitiva liberazione” (pag. 87): anche in questo caso, però, occorre previamente specificare che una vita di regolare fede praticata, preghiera (in particolare il Rosario) e sacramenti è di per sé l'esorcismo migliore per evitare che anche solo le minime condizioni possano crearsi. Contro chi prega, ricordando qui un detto popolare di Sant'Alfonso Maria de' Liguori (“Chi prega certamente si salva, chi non prega certamente si danna”), il diavolo non può nulla. Così, per il cristiano ordinariamente è “l'eucaristia il sostegno della vita” (pag. 122) ed è altrettanto certo che chi vive del corpo di Cristo vivrà in eterno. Gli ultimi capitoli sono dedicati invece alla diffusione odierna del peccato sociale e ripetuto, come purtroppo nel caso dell'aborto, di cui il religioso sottolinea in particolare il carattere anticristiano (rifiuto del quinto comandamento del Decalogo) e insieme quello di offesa alla dignità della persona umana che nasce con il concepimento. Spiegata da un'esorcista come lui, anche la discussione in questa materia assume tutt'altro significato, così Amorth: “La legge italiana, dopo aver affermato ipocritamente il rispetto della vita, afferma che fino al novantesimo giorno si può abortire. Non si capisce su quali basi si arrivi a dire che dal novantesimo giorno in poi c'è l'obbligo di rispettare una vita mentre prima no. Sinceramente non riesco a capire che differenza vi sia fra un feto di ottanta giorni e uno di novanta. Ovviamente non c'è alcuna differenza. Come non ve ne è fra un feto di ottanta e uno di settanta giorni. E fra un feto di settanta e uno di sessanta. E così ad andare indietro fino al concepimento. Ecco perchè ritengo che la nostra legge si basa su una menzogna. E' una legge sbagliata, ispirata alle partite di calcio: al novantesimo minuto l'arbitrio fischia e la partita finisce. Il diritto alla vita di ogni individuo umano nascente é un diritto inalienabile e un elemento costitutivo di ogni società civile. E pensare che si è voluto fare approvare l'aborto come un segno di progresso [....] Mi meraviglio anche dei medici che fanno aborti. Il medico ha la missione di curare la vita. In questo modo, anche se la legge civile li assolve, di fronte a Dio sono degli assassini. E hanno anche un patrono: il re Erode, autore della strage degli innocenti” (pagg. 184-185).

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Esce, per Libro Aperto editore (via Corrado Ricci 29, 48121 Ravenna, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.), la raccolta Discorsi e scritti di Quintino Sella, curata da Marco Bertoncini e Aldo G. Ricci, con una postfazione di Maurizio Sella (pp. 104 con ill., € 15,00). Per concessione dell’editore, pubblichiamo stralci dall’introduzione

 

Il ricordo di Quintino Sella viene sempre più scolorandosi. Ancora nei primi anni del dopoguerra i libri di testo per le scuole elementari narravano di lui un simpatico aneddoto. Il rigoroso ministro, avendo trovato una voce nel bilancio del ministero dell’Interno per il mantenimento di gatti, chiese spiegazioni. Gli fu chiarito che si trattava di gatti che servivano a tenere lontani i topi dai depositi degli archivi di Stato. Sella allora disse: “O i gatti mangiano i topi, e non c’è motivo di nutrirli ancora; o non li mangiano, e allora non servono”. E cassò la spesa.

Oggi, probabilmente Quintino Sella resta un semplice nome dell’epoca unitaria, ma dipinto con quei colori cupi che in vita non gli recarono certo popolarità: il ministro più odiato d’Italia, l’assassino della povera gente, l’autore della famigerata tassa sul macinato (la più odiata fra le imposte), il teorico dell’economia fino all’osso, il politico della lesina, il grande tassatore, etichette tutte affibbiategli già da vivo.

(…)

In verità Quintino Sella fu ben altro che un rigido persecutore dei contribuenti. Era un uomo dai molteplici e perfino contrastanti interessi, uno studioso di geologia arrivato giovanissimo all’insegnamento universitario, un cultore degli studi classici, un appassionato di storia, un erudito archivista, uno sportivo, un industriale, un giornalista. Scrisse di miniere e di storia locale, di cristalli e di alpinismo, di diplomi medievali e di statuti cittadini, e poi ovviamente di politica, di economia, di finanza. A lui si debbono il Club alpino italiano e le Notizie degli scavi di antichità, le casse di risparmio postali e le ascensioni su Monviso, Rosa, Cervino e Bianco. Diede vita nuova all’Accademia dei Lincei e insegnò geometria applicata. Si batté per i trafori alpini, si occupò dei trasporti ferroviari, s’interessò a esposizioni internazionali. Viaggiò molto all’estero. Fu amministratore locale, deputato, ministro.

Non sarà fuori luogo ricordare come diversi patres della Destra storica si rivelassero autentici campioni fuori della politica, sovente nelle scienze. Così come Camillo Cavour era agricoltore ed economista (e in suo piccolo studio si rivelò perfino esperto di balistica), Bettino Ricasoli era agricoltore, Marco Minghetti agricoltore, Pietro Paleocapa ingegnere e, tanto per uscire dalle scienze, Massimo d’Azeglio pittore e scrittore. Pure sotto tale peculiare aspetto l’Italia non ha più avuto una classe politica a quell’altezza. Ma, fra tutti costoro, nessuno fu più versatile di Sella, scienziato prestato alla politica, umanista che recava un alito di classica tradizione nell’affrontare la spinosa finanza pubblica, imprenditore che recava nella cosa pubblica l’accortezza industriale.

Fondamentale è in Sella il senso civile della vita pubblica, che si potrebbe addirittura definire etico. Prima di diventare titolare delle Finanze convocò soci e congiunti: la ditta si sarebbe astenuta dall’assumere forniture dallo Stato, quand’egli fosse stato al governo. Rifiutò di alloggiare presso il ministero, asserendo: “Siamo borghesi, con famiglie borghesi, abituate modestamente, lontane dagli splendori dei grandi palazzi”, sicché “guai abitare nei palazzi ministeriali”. Applicava a sé quel sacrificio del potere che chiedeva agli altri come sacrificio contributivo. Occorreva dare l’esempio, prima di pretendere alcunché dagli altri.

Il suo sentimento sociale si avvertiva anche nel ritenere che l’istruzione tanto più si spandesse in basso e in larghezza quanto più fosse alta, intensa, densa. Per questo, pregno com’era di spirito di ricerca, sempre favorì la spesa pubblica per l’istruzione, anche per l’istruzione superiore, le istituzioni culturali, gli alti studi, convinto che l’eccellenza dei vertici sarebbe servita a promuovere la base.

La fusione tra politica e scienza si avvertiva nella precisione con la quale studiava i bilanci pubblici, conscio che “la statistica è il buon senso ridotto a calcolo”. Indicativa è la confessata visita alle biblioteche religiose in Roma, dopo il 1870, per vedere quali testi scientifici fossero oggetto di studio nello Stato del papa. Era avido di conoscere, anche nelle minime cose.

Marco Bertoncini

Aldo G. Ricci

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Con questo sintetico contributo collettaneo l'Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti prosegue i suoi studi su sviluppo e bene comune inaugurati per la collana “Imprenditori Cristiani per il Bene Comune” della Libreria Editrice Vaticana in occasione dell'enciclica Caritas in veritate nel 2009 e destinati a un pubblico ampio, non necessariamente specializzato. Il tema affrontato questa volta è uno dei più delicati della crisi socio-economica attuale: ovvero il rapporto, spesso di conflitto, tra famiglia e lavoro, con i suoi numerosi nodi irrisolti e talora volutamente contrapposti. Anzitutto, un'opportuna considerazione preliminare: “la famiglia naturale é stata data per spacciata molte volte e da molto tempo, soprattutto dalla cultura sociologica e psicologica anglosassone. Nel 1927 lo psicologo John Wilson, analizzando le tendenze del matrimonio, prevedeva la fine della famiglia entro 50 anni [mentre] nel 1971 lo psichiatra inglese David Cooper produceva un libro tradotto in Italia con il titolo lapidario: 'La morte della famiglia'” (pag. 25). Da allora, come si suol dire, di acqua ne è passata sotto i ponti, e tuttavia nonostante l'indubbio processo involutivo attraversato dall'istituzione famigliare in Occidente – e anche le nuove sfide portate dalla teoria del gender, impensabili fino ad appena dieci o venti anni fa – l'unità-base della società tiene, negli Stati Uniti come in Italia. Con notevole fatica e in grande difficoltà, ma tutto sommato resta ancora un riferimento sociale condiviso, soprattutto in tempi economicamente difficili come gli attuali dove si nota che molto spesso – nonostante l'individualismo sfrenato e il relativismo morale – nei periodi di mancanza di lavoro o affanno finanziario i figli tornano comunque dai genitori che (a volte grazie anche all'affiancamento dei nonni) non negano mai l'aiuto richiesto. Di per sè non sarebbe certo un fenomeno di cui rallegrarsi ovviamente, ma gli autori fanno notare che se è vero che la sua estensione conferma in pieno la gravità della crisi, essa dimostra pure la concreta rete di soccorso e assistenza che la famiglia unita in quanto tale è in grado ancora di oggi di fornire davanti a sfide quantomai impegnative. E che dire del fatto che il nostro Paese rifiuta ancora la pseudo-'cultura' degli ospizi per i propri anziani quando subentrano la vecchiaia avanzata e le malattie degenerative? Non è forse questo un indice di sanità morale? Eppure, l'emergenza reale resta in tutta la sua drammaticità. Alcuni dati rivelatori: “nel 1951 in Italia vi erano oltre 16 milioni di giovani sotto i 20 anni a fronte di meno di 6 milioni di ultrassessantenni [mentre] nel 2001 vi erano 14 milioni di anziani e 11 milioni di giovani” (pag. 27) sicchè oggi il nostro Paese 'vanta' il triste primato di avere una delle popolazioni più vecchie del mondo. Ancora: nel 2051, se nulla cambierà i trend demografici “fanno prevedere 21 milioni di vecchi a fronte di 8 milioni di giovani. E' da sottolineare che non è l'aumento dei vecchi che preoccupa [ma] la carenza di nascite. L'Italia, con un tasso di fecondità per donna dell'1,4 (era il 2,7 negli anni sessanta) é lontana dal tasso necessario per assicurare che le generazioni più giovani sostituiscano quelle anziane, che è di 2,1 per donna fertile. Il tasso di natalità italiano è uno dei più bassi del mondo” (ibidem). Sono cifre obiettivamente allarmanti, per dire il meno, che dovrebbero essere all'ordine del giorno di qualsiasi Governo o Parlamento perchè nella loro crudezza paiono tutte dire una sola cosa: il Paese di cui si tratta nei numeri si sta eclissando dal corso della storia, nel senso più letterale del termine, perchè non trasmette più la vita perpetuando la propria generazione ai posteri.

E, in questo caso, nemmeno è accettabile spostare le eventuali obiezioni sul 'supposto' confessionalismo del discorso perchè la laicissima Francia - ad esempio - destina alla famiglia il 2,5% del PIL, a fronte del solo 1% dell'Italia, che occupa anche qui “l'ultimo posto delle classifiche europee” (pag. 27). Semmai, vale proprio l'esatto opposto, perchè il deficit di nascite per raggiungere il punto di equilibrio attualmente sarebbe di circa 150.000 bambini ogni anno: “ma dal 1978 [anno di entrata in vigore della legge che liberalizza l'aborto, la ben nota numero 194/1978] al 2011 le interruzioni volontarie di gravidanza sono state 5 milioni, numero che corrisponde a 115.151 non nati ogni anno” (ibidem). Vista l'enorme rilevanza della posta in gioco, stupisce che tali argomenti non vengano mai utilizzati anche da politici e legislatori di buon orientamento: fornirebbero ulteriori prove a dimostrazione che la battaglia pro-life è anche e soprattutto una battaglia di progresso e sviluppo sociale e civile, non solo morale, checchè ne dicano i libertari nichilisti di tutte le risme. Accanto a questo aspetto decisivo, vi è inoltre l'incidenza di divorzi e separazioni - “ormai prossima al 50%” (pag. 28) - che pure contribuiscono a destabilizzare la fiducia nelle nuove generazioni nella famiglia in quanto tale. Come se tutto questo non bastasse, da parte di molti economisti permane l'illusione che il mercato abbia le sue proprie regole e vada avanti ugualmente, nonostante tutto. Ma non funziona così: meno famiglia vuol dire meno figli e quindi meno 'capitale umano' a disposizione per tutti, meno risorse fisiche (e morali) su cui contare, meno contribuenti e meno pensioni, insomma meno energie a cui poter attingere per il proprio futuro. Chi mai si potrebbe augurare consapevolmente uno scenario del genere? E il corpo politico può dirsi neutrale o 'laico' (qualsiasi cosa questo voglia dire) di fronte a una tale questione? Con quale autorità?

Nella seconda parte del fascicolo vengono quindi sviluppate alcune riflessioni pratiche, e di buon senso, sulla necessità di tutelare la famiglia come soggetto di produzione e di sviluppo, qualcosa che attualmente manca nel nostro ordinamento giuridico giacchè perlopiù “il focus è basato su esigenze individuali” (pag. 30), senza parlare del fatto che la stessa riforma del diritto famigliare del 1975, da taluni celebrata acriticamente come segno di conquista civile, “ha sposato, in buona sostanza, la concezione individualista” (ibidem) contribuendo quindi ad aggravare ulteriormente la situazione complessiva. Insomma, occorre capire – e far capire a tutti il più possibile, soprattutto in chi siede nelle istituzioni – che “la famiglia produce capitale sociale e dunque produce benessere non solo per sé ma per la comunità in cui vive”: in quest'ottica è necessario che chi ha a cuore il rilancio delle politiche famigliari su scala nazionale s'impegni decisamente per una rinnovata promozione – tanto culturale quanto politica – del concetto di famiglia “come istituzione, come soggetto autonomo di sviluppo sociale ed economico e non come puro centro di consumo, come è ora per il pensiero dominante e come è attestato dalla stessa contabilità nazionale secondo la quale le imprese producono e le famiglie consumano” (pag. 31). Chiudono il contributo alla riflessione delle ulteriori considerazioni – quantomai opportune – sulla possibile revisione delle attuali politiche fiscali e sul tipo di tassazione in vigore, con ogni evidenza oggi troppo penalizzante economicamente oltre che palesemente disincentivante verso la formazione di nuovi nuclei famigliari.

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