A due settimane dalla conclusione di una guerra civile insorta in Spagna per frenare il processo di sovietizzazione e scristianizzazione imposta da chi, nel 1936, deteneva le leve del potere politico, il 16 aprile del 1939, il papa inviò ai cattolici di Spagna un radiomessaggio nel quale – senza alcuna remora clericale – si dichiarava felice dell’esito della guerra: «Con immensa gioia Ci rivolgiamo a voi, figli dilettissimi della Cattolica Spagna, per esprimervi la Nostra paterna felicitazione per il dono della pace e della vittoria con il quale Dio si è degnato di coronare l’eroismo cristiano della vostra fede e carità, provato da tante e così generose sofferenze. […] La Nazione eletta da Dio come principale strumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica, ha testé dato ai proseliti dell’ateismo materialista del nostro secolo la più elevata prova che al di sopra di ogni cosa stanno i valori eterni della religione e dello spirito».
Il venerabile papa Pio XII (1939-1958) auspicava poi, in questo che è tra i suoi primissimi atti di magistero, che nell’opera di pacificazione tutti, in Spagna, seguissero «i princípi inculcati dalla Chiesa, e proclamati con tanta nobilità dal Generalissimo [Francisco Franco Bahamonde (1892-1975)]».
Il testo del radiomessaggio è opportunamente inserito in appendice a La Spagna dei Legionari, volume pubblicato per la prima volta nel 1942 e riproposto dalla casa editrice Solfanelli nel 2019. La definizione di «diario di guerra» sta decisamente stretta a questo testo, che non si limita alla scabra registrazione di eventi bellici. Vi si trovano, infatti, suggestioni artistiche e geografiche, come anche molte testimonianze, fra cui quella dell’epico difensore dell’Alcazar di Toledo, il colonello José Moscardò Ituarte (1878-1956), e quella di diversi popolani e borghesi incontrati nelle zone appena liberate dal giogo dei rojos. Accattivante anche solo dal punto di vista letterario, lo stile non è quindi alieno da quello dei «diari di viaggio» dell’età romantica, la cui ambizione principale era quella di cogliere l’ethos della nazione straniera visitata. Ma c’è ancora un’altra ragione per non lasciarsi sfuggire questo libro: poiché dà la possibilità di esplorare in presa diretta, senza cioè un’intermediazione eventualmente viziata da pregiudizi ideologici, l’orizzonte ideale degli italiani che, senza essere costretti dalla povertà, decisero di arruolarsi nel Tercio de Extranjeros e rischiare la vita a supporto delle forze spagnole nazionaliste.
Uomo d’armi, giurista e scrittore, l’autore de «La Spagna dei Legionari» è infatti l’avvocato penalista napoletano Tullio Rispoli (1899-1974), che combatté in Spagna dal gennaio del 1937 all’ottobre del 1938 nel Corpo Truppe Volontarie col grado di capitano, peraltro meritando una medaglia di bronzo per meriti acquistati sul campo nel corso della battaglia di Guadalajara (8-23 marzo 1937).
Nel diario di Tullio Rispoli non mancano episodi e pagine francamente toccanti. Per esempio quando si legge che a Oliete, «un piccolo paese che i rossi per la loro fuga precipitosa non erano riusciti a saccheggiare, né a distruggere», «un povero padre […] aveva nascosto in casa il figliuolo prete murandolo nella stalla» per 19 mesi per sottrarlo all’eccidio di sacerdoti, religiosi e religiose perpetrato sistematicamente dalle bande di miliziani anarchici e comunisti. Ne era uscito «un povero giovane dalla barba lunga, dalla pelle bianca, dalla vista che non poteva reggere la luce del sole». Oppure quando, a proposito della fierezza della Navarra, Rispoli racconta come, dopo più di mille anni dalla buccina del paladino Orlando, ne era suonata un’altra: «quella della nazione che non ha voluto morire. […] Tutta la Spagna nazione considera la Navarra come culla della riscossa anti-bolscevica e queste boine rosse [i berretti tipici dei Requetés carlisti] come la migliore espressione dei vecchi sentimenti tradizionalisti. Dio, Re, Patria: ecco il programma secolare di questa provincia che con la Castilla, con l’Aragona e il Leon già riuscì per il passato a far la Spagna Una, Grande y Libre».
Il volume si chiude con un’acuta post-fazione del curatore Gianandrea de Antonellis che, a ottant’anni dal vittorioso esito della Cruzada, individua nel perdurare anche dopo la guerra dell’unificazione imposta da Francisco Franco nel 1937 fra i falangisti e i requetes, uno degli errori politici che fecero perdere al Caudillo… il dopoguerra. Indebolito il fronte culturale e politico che avrebbe potuto, almeno in tesi, impedire la deriva zapateriana del secolo XXI, la Spagna si è purtroppo trasformata in «una nazione di punta del “politicamente corretto”, ben più invertebrata di quanto lamentava nel 1921 Ortega y Gasset [1883-1955]».