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L'inferno dell'isola martoriata

''Sembra un film dell'orrore, là sotto c'è una massa di corpi incastrati, uno sull'altro nella stiva mentre tentavano di fuggire e altri sono aggrappati alla fiancata del peschereccio''. E' il racconto atroce di Rocco Canell, il primo sub sceso dove è naufragato ieri il barcone davanti a Lampedusa. Rocco racconta di aver visto almeno una ventina di corpi tutti attorno al relitto e altri ammassati nella stiva. ''Due di loro - racconta - sono aggrappati alla fiancata della barca, sono affondati con lei''.


Quando l'hanno ripescata dal mare erano convinti di avere tra le braccia un cadavere. L'hanno distesa a terra, accanto ai corpi delle decine di migranti che non ce l'hanno fatta. Poi un soccorritore s'è accorto che respirava ancora e ha avvertito gli altri. Il suo nome non si sa ancora: della giovane donna, sopravvissuta all'ennesima tragedia dell'immigrazione che si è consumata a meno di un miglio da Lampedusa, si sa solo che è eritrea, che ha una ventina di anni e che, prima di precipitare in acqua, ha visto le fiamme levarsi dal barcone su cui viaggiava. Ora è ricoverata all'ospedale Civico di Palermo in gravissime condizioni. Non è lucida, ha farfugliato confusamente qualche parola in inglese. "Ha detto poche cose quasi incomprensibili: soffriva molto, si lamentava", hanno detto i medici che l'hanno visitata. A Palermo è arrivata con l'elisoccorso del 118: insieme a lei c'era un'altra giovanissima eritrea che è incinta. "Sono in gravi condizioni ed entrambe sono in Rianimazione", racconta l'anestesista Edoardo Fileccia, che ha viaggiato con loro sull'elicottero verso il Civico. Nell'ospedale palermitano è finito anche un altro superstite: un ragazzino di 16 anni che è in Terapia Intensiva. Le due ragazze sono disidratate e con sintomi di ipotermia. La più grave delle due sopravvissute - la giovane creduta morta - ha anche la polmonite: le sue condizioni sono le più critiche perché hanno bevuto acqua di mare e della nafta, molto probabilmente fuoriuscita dall'imbarcazione. Ai mediatori culturali che si trovano sull'isola e con i quali hanno scambiato solo qualche parola prima di partire per Palermo le due donne scampate dall'inferno del naufragio hanno detto da dove provenivano e hanno raccontato l'orrore vissuto: il barcone in fiamme, i corpi che si ammassavano e i tanti che finivano in acqua. Anche loro sono cadute giù travolte da quelli finiti in mare. Poi c'è stato il buio. L'eritrea creduta morta ha perso i sensi: si è risvegliata sulla banchina accanto ai cadaveri di chi aveva preso il mare con lei.

Il corpo galleggia nell'acqua, le braccia larghe, le gambe innaturalmente piegate. Sembra un manichino rotto, dall'alto, ma basta zoomare l'immagine con i teleobiettivi dell'elicottero per capire che è un uomo. O forse soltanto un ragazzo. Ce ne sono tanti li' intorno. "Una scena mai vista". L'Ab 212 della Marina militare imbarcato sul pattugliatore Vega è stato il primo, stamani, a giungere sul luogo della tragedia di Lampedusa. "In mare c'erano molti naufraghi, una estesa chiazza di liquido, forse carburante, e nessun segno dell'imbarcazione", racconta all'ANSA il tenente di vascello Giovanni Urro, comandante della nave militare, che si trovava a circa 25 miglia di distanza. "Oggi, alle prime luci dell'alba, siamo stati contattati dalla Capitaneria di porto di Palermo, l'ente che coordina le attività di ricerca e soccorso nell'area. Ci hanno chiesto l'intervento dell'elicottero: era stato segnalato un naufragio ed occorreva avere un quadro chiaro della situazione". Ed il quadro, purtroppo, è stato subito chiarissimo. "Il barcone - prosegue Urro - è affondato a circa mezzo miglio a sud dell'isola dei Conigli. Il pilota dell'elicottero, appena localizzate le persone in mare, ha cominciato a coordinare l'azione dei vari mezzi di soccorso, fornendo indicazioni precise sulla posizione dei naufraghi disseminati su un fronte ampio, di circa 500-600 metri".

C'è pianto e rabbia, sul molo Favarolo. "Non sappiamo più dove mettere i morti e i vivi. E' un orrore", dice il sindaco Giusi Nicolini, tra le lacrime, mentre vede arrivare e partire le motovedette cariche di cadaveri. "E' una mattanza, una mattanza che bisogna fermare", urla don Stefano Nastasi, il prete che invitò papa Francesco a Lampedusa, anche lui - come tutti - sul molo.
"Quando siamo arrivati in prossimità dell'isola abbiamo deciso di accendere un fuoco, incendiando una coperta, per farci notare. Ma il ponte era sporco di benzina: in pochi attimi il barcone è stato avvolto dalle fiamme: la gente urlava e si lanciava in mare. E' stata una scena terribile...". Samuel, uno dei superstiti scampati al naufragio avvenuto davanti alle coste di Lampedusa, balbetta poche parole. Quando sbarca sulla banchina del porto, dopo essere stato tratto in salvo da un peschereccio, è bagnato fradicio ed ancora sotto choc. Lo avvolgono subito con una coperta termica ma lui continua a tremare, non si capisce se per il freddo o per la paura. E' un giovane di poco di vent'anni, partito alcuni mesi fa dall'Eritrea con lo speranza di raggiungere l'Europa e un futuro migliore. Ma a poche centinaia di metri dalla costa il sogno si è trasformato in un incubo: "Ho visto morire centinaia di compagni di viaggio che erano con me", dice ai mediatori culturali che lo assistono e cercano di dargli coraggio mentre ricostruisce quegli attimi terribili. "Per sfuggire al rogo che noi stessi avevano appiccato - spiega - alcuni si sono lanciati subito in mare mentre altri si sono accalcati in massa dall'altra parte del ponte. La barca ha cominciato a oscillare fino a capovolgersi completamente. Io, che mi ero lanciato in acqua perché so nuotare, ho visto gli altri miei compagni affogare, mentre il barcone, ormai completamente avvolto dalle fiamme, scompariva lentamente tra le onde". Un altro ragazzo, Abraham, anche lui eritreo, racconta i particolari della traversata: "Siamo partiti due giorni fa dal porto libico di Misurata. Da tempo eravamo in attesa di imbarcarci, quando ci hanno detto all'improvviso che era giunto il momento. Ci hanno caricato a forza su quel barcone: eravamo in 500, comprese decine di donne e bambini. Abbiamo pagato tra i mille e i 1500 dollari per un biglietto che, per molti di noi, si è trasformato in un viaggio senza ritorno".

Descrive una scena apocalittica, un mare con centinaia di braccia che si muovevano, con teste che affondavano, che riemergevano, che sputavano, che gridavano. E loro, otto amici, sulla barca nella cala Tabaccara, davanti a quell'inferno improvviso alle prime luci dell'alba, verso le 5,45, che sono passati dall'allegria di una promettente battuta di pesca alle lacrime di un dramma enorme, inaspettato. E' ancora sconvolta Grazia Migliosini, 50 anni, la donna che nelle prime immagini dei soccorsi, rimbalzate in tutto il mondo, si vedeva piangere sul molo di Lampedusa. Catanese, ma lampedusana di adozione, sull'isola gestisce un negozio di costumi e oggetti per il mare, racconta il film dell'orrore che ha vissuto in prima persona. La barca di Vito Fiorino, un vecchio peschereccio di 15 metri riammodernato per ospitare vacanzieri, è stata la prima a trovarsi nello specchio di mare del naufragio in cui sono morti oltre cento migranti e sono stati gli otto ospiti a salvare 47 persone.

Ha salvato dodici naufraghi tirandoli a bordo della sua barca, mentre con un amico si trovava nei pressi dell'Isola dei Conigli per una battuta di pesca. Dopo aver messo in salvo i primi undici, tutti uomini, si è avvicinato a una motovedetta della Capitaneria di porto che li ha presi a bordo, "ma ho continuato a perlustrare la zona, dove ho scorto un paio di cadaveri; poi ho visto tra le onde una mano che si agitava: era una ragazza, stremata ma viva. Ho lanciato una cima, alla quale si è debolmente attaccata. Mi sono dovuto avvicinare ancora con la barca e tirarla su con le mani: aveva il corpo coperto di nafta, è stato difficile persino stabilire una presa. Sono sicuro che se fosse passato ancora un minuto, o ancor meno, sarebbe morta in quell'inferno". E' il racconto di Costantino Baratta, 56 anni, sposato, un figlio. Vive a Lampedusa da 25 anni, dove fa il muratore, anche se è originario di Trani, in Puglia. Erano le 7.30 quando Baratta e l'amico, Onder Vecchi, che era al timone, sono giunti sul luogo della tragedia, partiti poco prima dalla banchina del porto vecchio. "In pochi minuti - ricorda - la scena attorno a noi è mutata: mentre soccorrevamo i naufraghi gli altri scomparivano alla nostra vista. Alle 8, forse prima, tutto era finito, in acqua non si vedeva più nessuno, tranne il braccio della ragazza, appena sollevato. Quando finalmente l'abbiamo tirata a bordo le ho dato la maglietta che indossavo. Purtroppo non avevamo nulla in barca per coprirla e ristorarla e quella T-shirt era l'unica cosa che le potevo offrire. Lei tremava e aveva lo sguardo smarrito, perso nel vuoto. Una volta consegnata agli uomini della Capitaneria, le hanno subito dato i primi soccorsi e l'hanno portata con la motovedetta sulla terraferma: era chiaro che stava malissimo".

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