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Massimo Luca: il suo caleidoscopico viaggio nella musica

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Incontrare il musicista Massimo Luca significa intraprendere un lungo ed intrigante viaggio, che attraversa mezzo secolo di musica; il tutto raccontato con semplicità, simpatia e dovizia di particolari e questo non può che rendere la conversazione ancor più piacevole. Il panorama musicale, al di la delle naturali evoluzioni socio-culturali, ha subito nel tempo radicali trasformazioni di carattere strutturale. Quindi, è senz’altro interessante ascoltare i suoi racconti, per percorrere insieme un lungo periodo di gran lustro per la musica italiana.

“Alla fine degli anni ’50, nel mondo della musica esisteva il lavoro a chiamata - afferma Massimo - che consisteva in questo: in Galleria del Corso a Milano, una sorta di ‘capomastro della musica’ organizzava le sessioni. Noi ragazzi, seguendo un ordine predisposto, ci facevamo avanti, a seconda delle richieste e alla fine tutti tornavamo a casa con un più o meno prossimo impegno artistico. Il fatto che ci fosse molto lavoro, mi ha fatto però concentrare troppo sulla costanza dell’attività, che in un certo senso ha penalizzato la valorizzazione della mia arte e del mio talento. Tuttavia, col senno del poi, devo ringraziare questa forma mentis, che mi ha consentito di restare con i piedi per terra e di mantenere lucidità e consapevolezza, tenendomi lontano dall’egocentrismo e dalle fragilità proprie degli artisti”.

I suoi inizi, come musicista professionista, risalgono agli anni ’60 e lui, come la maggior parte dei coetanei, provava una grande ammirazione verso il complesso che ha segnato quell’epoca, i “Beatles”. Quindi, Massimo, a soli sedici anni, suonava con destrezza ed entusiasmo il repertorio del famoso quartetto di Liverpool nei vari locali milanesi, accrescendo sempre più la sua popolarità.

Negli anni ’70, appena ventunenne, egli era il chitarrista acustico del famosissimo cantautore Lucio Battisti; trovarsi in studio di registrazione con un artista così affermato significava essere sicuramente un “numero uno”. Nella memoria di tutti l’eccezionale duetto Mina - Battisti nel corso del programma televisivo del sabato sera datato 1972 “Teatro 10” , che spesso la Rai manda in onda come filmato di repertorio; alla chitarra c’era lui, Massimo, giovanissimo e talentuoso. Egli ha collaborato a quattro album di Lucio, nella sua, forse, più fiorente forma artistica e sono: “Umanamente uomo: il sogno”, con il bellissimo brano “I giardini di marzo”, “Il mio canto libero”, “Il nostro caro angelo”, con la famosa “Collina dei ciliegi” ed “Anima latina”, in cui il cantautore inizia una certa metamorfosi espressiva.

In quegli anni Massimo Luca è stato il chitarrista acustico di tutti, per citarne alcuni: Fabrizio De Andrè, Paolo Conte, Zucchero, Lucio Dalla, Fabio Concato, Bruno Lauzi, Francesco Guccini, ma la lista è lunghissima. Pertanto, ha vissuto compiutamente, accanto ai migliori cantautori, un’epoca che rappresenta, secondo molti, il “Rinascimento della musica italiana”.

Numerose le sue collaborazioni con artisti internazionali, come: Quincy Jones, Toots Thielemans, Tony Sheridan, Albert Lee, Phil Ramone, Jorma Kaukonen, Barney Kessel etc.

Ci vorrebbero fiumi di inchiostro per parlare in modo esaustivo di questo poliedrico artista, tutto da scoprire; una persona caratterialmente mite, dolce, dotata di una vastissima cultura musicale, eppur tanto modesto, in modo, come dire, disarmante.

Le notizie sono tante e non riguardano solo la sua attività di chitarrista. I suoi racconti mi lasciano piacevolmente ammirata, quindi passo direttamente la parola a lui, che si racconterà attraverso questa intervista ricca di emozioni, curiosità, aneddoti e notizie.

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Quando ci incontriamo è sempre estremamente interessante parlare con te di musica. Vorresti definire in cosa consiste, dal tuo punto di vista, essere un musicista?

La corretta visione del musicista non può mai prescindere da un discorso d’insieme. Fare musica è un lavoro di filiera, senza i corretti supporti non si riesce. Come in una squadra di calcio, quando si consegue un buon risultato, un successo, tutti i protagonisti ne beneficiano. I musicisti sono una sorta di saltimbanchi, che possono accedere dove solo pochi riescono ad arrivare. Il lavoro artistico ti da la chiave per entrare in una dimensione sui generis e solo una volta raggiunta ci si rende conto della sua importanza. Tuttavia, va anche detto che l’animo dell’artista è particolarmente sensibile; proprio attraverso l’ultima intervista rilasciata dal grande regista Mario Monicelli ho avuto conferma di ciò. Attraverso le sue parole si percepisce, in modo incontrovertibile, le fragilità della sfera emotiva dell’artista, contrariamente all’opinione comune, che lo identifica come un essere dotato di un qualcosa di superiore rispetto agli altri.

Hai iniziato giovanissimo a suonare. Qual’è stato su di te l’effetto dei Beatles?

I Beatles mi hanno letteralmente folgorato, come in una visione. Quando racconto che nel 1965, nella loro tournée italiana al “Vigorelli” di Milano, la Rai non inviò nessuna troupe, pensando si trattasse di quattro improvvisatori, i miei amici stentano a credermi. Ovviamente, parlo di quelli che non erano presenti alla memorabile serata! All’estero c’è sempre stata una grande cultura musicale e la musica “Beat” esplosa negli anni ‘60 ha generato un vero fenomeno culturale, che ha segnato una svolta epocale nel tessuto sociale della nostra generazione. Naturalmente, ho tratto insegnamento da quel modo di fare musica, che rompeva i canoni tradizionali, radicati all’interno della melodia italiana. Nel nostro Paese la musica ha seguito la corrente della moda con una diversa velocità rispetto ai paesi anglosassoni, poiché inizialmente non è stato semplice sdoganare alcuni canoni di riferimento, che contrastavano a precisi segnali di cambiamento, anche sotto il profilo sociologico. Gli artisti anglosassoni in genere hanno una forte personalità, quindi non necessitano di costruzione culturale; da noi, invece, la personalità dell’artista è più costruita. Quindi, quest’esperienza mi è stata utilissima per imparare a decifrare ogni segnale proveniente da culture diverse rispetto la nostra.

Quali sono i motivi che ti hanno spinto ad approfondire i tuoi studi sulle origini della musica?

A me piace molto percorrere la vita a ritroso, andando indietro anche di secoli, quando io non c’ero ancora… Noi musicisti catturiamo, ascoltiamo, riassembliamo e riproponiamo ciò che in antichità, magari, già esisteva. Ti faccio un esempio, è molto interessante, anche da un punto di visto filosofico, andare a scoprire le origini del “rock” e molti non sanno che per far ciò si arriva alla musica popolare, della quale, peraltro, si parla sempre poco. Anni fa conobbi una persona che andava in giro per il mondo a registrare i canti popolari appartenenti alle più svariate culture. Conversando con lui, scoprimmo un comune, forte interesse verso i Beatles; subito dopo lui tirò fuori un ordinatissimo archivio di cassette ed insieme ascoltammo un loro brano in quel periodo in voga, nella sua versione originale, che risaliva addirittura al Settecento. Un pezzo gaelico ripescato da Paul Simon, dal quale ha preso ispirazione, per poi costruire il testo. Questo dimostra che non è possibile creare nulla dal vuoto. La musica è di tutti, ma allo stesso tempo non è di nessuno. Noi siamo il frutto di memorie antiche e non saremmo mai gli stessi se non riconoscessimo il valore della memoria nel nostro DNA.

Quindi, nella musica dei leggendari Beatles origini ancestrali?

Certamente, attraverso le mie ricerche ho scoperto la radice gaelico-celtica nella musica di John Lennon, dove però l’originalità della melodia, frutto del suo tocco creativo, non ha collegamenti con la memoria musicale antica. John era il vero leader del gruppo, anche se erroneamente viene considerato Paul.

Nel decennio cha va dagli inizi degli anni ’60 alla prima metà degli anni ’70, molti artisti si sono formati attraverso le esperienze maturate lavorando nei night club. Vorresti parlarmi della tua personale esperienza?

Negli anni ’60 inizio a suonare nei night, dove avviene la mia crescita. In quel periodo, questo tipo di locale notturno era la rappresentazione dell’eleganza, nella forma e nei modi. Il night mi ha fornito una specie di “patentino”: un’esperienza completa e formativa.

Come è avvenuto il tuo incontro con Lucio Battisti?

Un giorno conobbi Gianni Dall’Aglio, il suo batterista ed Angel Salvador de “I Ribelli” e loro poco dopo fecero avere il mio numero di telefono a Lucio, che stava cercando un bravo chitarrista. Così, un pomeriggio, mia madre prese una telefonata e mi disse: “C’è un certo Lucio che ti cerca…!” Confesso che, quando sentii la sua voce dall’altra parte della cornetta, la mia salivazione si azzerò! In quel momento ebbi la netta percezione che questo sarebbe stato il mio percorso di vita; non avrei mai potuto fare il commercialista. Del resto, il mio sogno era quello di vivere una vita nella musica e sono felice di esserci riuscito. Lucio Battisti, come tutti i cantautori, ha cancellato la cosiddetta “sindrome delle cover”, tanto di moda negli anni precedenti. Anche se prodotte in modo stilisticamente corretto, erano comunque delle traduzioni.

Negli anni ’70 hai avuto esperienze professionali anche con Mina, l’icona della musica italiana. Un particolare significativo di questa esperienza?

Ricordo volentieri che Pino Prestipino, produttore ed arrangiatore del brano “L’importante è finire”,

mi chiamò per suonare e mi presentò una “lavatrice con i tasti colorati”, che era la prima batteria elettronica. Quindi, lavorai solo, con la mia chitarra e questo nuovo strumento: una novità assoluta, se la rapportiamo a quarantacinque anni fa, un’esperienza singolare e gratificante.

Secondo te chi è il vero cantante rock italiano?

Sicuramente Edoardo Bennato, con il quale ho collaborato alla realizzazione dei suoi primi due album. Lui è un vero musicista “rock”, poiché questo genere vive sui doppi sensi e quando scrisse “Capitan Uncino” il messaggio politico era preciso e palpabile. Il doppio significato, molto presente nella struttura morfologica della lingua inglese, è stato correttamente usato da Bennato, nel suo modo di fare musica “rock”, parafrasando anche chiari contenuti politici. Invece, fra le cantanti, l’anima “rock” in assoluto è Loredana Bertè, che faceva “rock” per pura filosofia di vita ed andava persino in America ad apprendere novità dalle star, per poi tornare in Italia e realizzare spettacoli unici.

Quando ci fu la prima grande crisi del mercato discografico?

I primi segnali di crisi si avvertirono già agli inizi degli anni ’80, quando il mio telefono cominciò a non squillare più. Quindi, insieme al mio amico ingegnere fisico elettronico Maurizio Fulgenzi, cominciammo a pensare come mettere a frutto il nostro talento, magari creando buone melodie per la pubblicità. Fu così che iniziammo a realizzare jungle pubblicitari e vincemmo diversi premi e Grammy Awards per le pubblicità di famosi marchi, come Ferrero e Perfetti. Ricordo quei nove anni con grande rispetto e gioia; il mondo della pubblicità mi ha consapevolizzato sulle dimensioni reali della ricchezza, dei veri fatturati. Nel ‘92 questa bellissima favola finisce e quando le agenzie cominciano a chiedere preventivi a costo zero, io e il mio socio capimmo subito che dovevamo cambiar aria…

Negli anni ’80 sei stato il talent scout di diversi artisti: vorresti parlarmene?

In effetti, in quegli anni ho scoperto alcuni artisti, destinati poi al successo. Fra essi Biagio Antonacci, al quale davo suggerimenti e correggevo i brani e che nel 1987 ottenne il suo primo successo al Festival di Sanremo. In quel periodo, nel 1989 conobbi Francesca Alotta, la quale ha cantato mie canzoni, di impronta battistiana. Scrivere canzoni sullo stile di Battisti, mi fece venire un’idea, che però in quel momento misi nel cassetto. Solo quando conobbi Gianluca Grignani, del quale fui il produttore, con la sua bellissima canzone “Destinazione Paradiso” riuscii a concretizzare questa mia idea; infatti, trovai in lui un cantautore in grado di occupare la stessa poltrona di Battisti, senza però volerlo imitare.

Che ricordo hai della televisione di una volta?

Un bellissimo ricordo! Ho nostalgia della Rai di Alberto Manzi, che insegnava a tante persone a leggere e scrivere; in quegli anni in Italia il tasso di analfabetismo era ancora elevatissimo. Ricordo le serate dedicate alle commedie in teatro dialettale, grandi attori teatrali come Govi, De Filippo, Baseggio, come anche i venerdì sera dedicati alla musica sinfonica. Insomma, una Rai, allora seconda solo alla BBC, che dava cultura al popolo sotto forma di svago ed intrattenimento.

Qual è la tua opinione nei riguardi della musica e più in generale nei riguardi del modo di fare televisione?

Provo solo tanta amarezza nel constatare che dal 2000 è stata cancellata la memoria di un mestiere che ha dato molto alla società: quello dei cantautori. Noi musicisti, per renderci credibili abbiamo faticato molto, ma oggi tutto viene vanificato dal disastro annunciato dei “Talent show”, che contribuiscono fattivamente alla fine della cultura. La televisione oggi è solo una fabbrica di plastica, costituita da persone che studiano come strutturare uno spettacolo televisivo unicamente per attirare il pubblico, senza considerare il talento, la creatività degli artisti. Solo la strada è in grado di costruire la carriera di un musicista, mentre la Tv non può creare una carriera, ma solo confermarla. Gli artisti inglesi e americani da anziani fanno ancora le tournée e i loro dischi sono sempre gettonati. Qui da noi, al contrario, non c’è posto per la memoria e tutti noi non riusciamo ad occupare il posto che in realtà meritiamo, poiché non ci sono spazi televisivi per i personaggi della musica. Faccio un esempio, nei programmi che di tanto in tanto vengono dedicati a Battisti, alla fine vengono intervistate sempre le stesse persone che, paradossalmente, non c’entrano poi molto con la sua vita. Tutti ci aspettavamo un’evoluzione diversa del nostro Paese.

Quando ti rechi all’estero come ti presenti?

Quando mi trovo fuori dall’Italia dico che vengo dal Mediterraneo, poiché qui risiede la mia nascita culturale. In questi lunghi anni non ho smesso mai di studiare, di informarmi sulle vicende storicamente rilevanti, che hanno interessato la nostra area geografica negli ultimi 5000 anni, andando anche alla ricerca delle arcaiche radici della musica.

Sei sempre in piena attività con la band “Il nostro canto libero” formato da te, Gianni Dall’Aglio, storico batterista di Lucio Battisti , Franco Malgioglio, Pino Montalbano, Daniele Perini e Jonny Pozzi. Come vorresti concludere?

Abbiamo costituito questo gruppo proprio per dare continuità al vasto repertorio di Battisti, che molti giovani seguono con vivo interesse e questo viaggio, intrapreso con i miei amici qualche anno fa, va avanti, regalandoci grandi soddisfazioni e la magia “live”. Il mio destino si è incrociato con quello dei grandi personaggi della musica e per questo motivo mi sento un prescelto! Quando mi esibisco e riesco, in modo assolutamente consapevole, ad emozionare qualcuno capisco di aver dato un vero senso alla mia giornata. A questo argomento, non a caso, è dedicato il primo capitolo del mio libro: “Rock the monkey!”, scritto con David A.R. Spezia, nel quale spiego come “dall’essere consapevoli dipenda tutto”.

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