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“AmarArmenia” il libro di Diego Cimara

Daniela Cecchini e Diego Cimara

Nei giorni scorsi, presso la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, si è svolta la presentazione del libro di Diego Cimara “AmarArmenia”, edito da “Edizioni Ararai”, romanzo-diario e, al tempo stesso, approfondita inchiesta sul genocidio del popolo armeno, libro di storia, saggio sul bene e sul male, riflessione sociologico-religiosa e diario intimo di nonno Kostja, illustre filosofo e movimentista degli anni ’20, nella Parigi di altri grandi informatori, come: Hamingway, Picasso, Chaplin, Toynbee, Cendras, Modigliani e tutta la “rive gauche” degli esuli polacchi, italiani, armeni e russi in Francia.

Proprio in occasione di questo prestigioso evento culturale, ho avuto il piacere di intervistare per il Corriere del Sud lo scrittore Diego Cimara, stimatissimo giornalista, volto noto del Tg1 ed autore di dieci libri e di alcuni servizi sul tema dell’Anatolya, pulita etnicamente tra il 1895 ed il 1923 dal drammatico genocidio turco, orchestrato dai tedeschi, dietro le quinte degli interessi turchi e russi.

D) Hai alle spalle una carriera di reporter lunga 40 anni, nel corso della quale hai realizzato, tra la fine degli anni’60 e la fine degli anni ‘80 moltissimi documentari per il programma televisivo Tv7 di Sergio Zavoli, sul genocidio degli armeni e delle altre minoranze cristiane, in particolare greci e siriaci ad opera dei turchi dal 1913 in poi, dimostrando di essere uno fra i più autorevoli studiosi e specialisti del settore. Insomma, una vita di intenso lavoro, al fine di ricavare da migliaia di documenti, ben undici mila fogli, una storia, che sappia più di romanzo che di documento. Con il tuo inedito libro “AmarArmenia” offri una preziosa testimonianza, che consente alla diaspora e al nostro Paese di avere una fonte informativa fra le più dettagliate ed esaustive sull’intera questione e colloca, quindi, il “Metz Yeghérn” (grande male) in un’analisi storica che parte dai conflitti d’interesse tra le Grandi Potenze, preludio della Prima Guerra Mondiale, fino a concludersi con un capitolo dedicato alla comparazione tra l’Olocausto Armeno e la Shoah. Vorresti parlarmene?

R) Nell’ambito della mia attività di reporter per Gr Rai e Tg1, che dura da una vita, sono stato autore di numerosi documentari sul ritrovamento in Armenia Occidentale (Anatolya) di barranchi, foibe aperte di montagna, contenenti 20-22 mila cadaveri ognuna e successivamente cementate dai turchi negli anni ’90. Questi documentari contengono i filmati di campi di concentramento e di sperimentazione eugenetica, le centinaia di migliaia di morti per fame, nel corso della realizzazione dell’utopica ferrovia Berlino-Bagdad, su regia tedesca, consenso russo e manovalanza curda; armeni deceduti all’interno di miniere chiuse dall’alto, come immensi buchi neri dove, per morire, si impiegano giorni e giorni. Sono stato anche testimone oculare delle colline costituite di ossa di cadaveri, pazientemente numerati dai preti gregoriani di Mardin, Kars, Erzurum, Van e di altri paesi della Valle di Lori.

D) Questo tuo libro, che ha letteralmente catturato la mia attenzione sin dalle prime pagine, lo hai realizzato in chiave romanzata. I protagonisti per eccellenza sono tuo nonno Kostja, lo scrittore poeta e filosofo Eghyazarian e sua moglie Takuhì, armena di padre ebreo, famosa concertista intorno al 1910 a Costantinopoli e a Sofia. Lascio a te il racconto di questa avvincente e significativa storia di vita…

R) Come hai premesso, è la storia di un uomo, mio nonno materno Kostja e mia nonna Takuhì la quale, dopo la fuga del marito dal carcere, una “fuga di mezzanotte”, come nel famoso film, ma moltiplicata tre poiché, per ben tre volte egli riesce a scappare, assieme ad altri fuggiaschi, con l’aiuto di partigiani armeni, dalle carceri turche prima e tedesche dopo e nel 1915 parte dal Corno d’Oro con una nave di disperati, per giungere in Italia, dove Takuhì mette al mondo la piccola Nwarth, mia madre. Successivamente, durante la Resistenza romana, nel 1943-44 Nwarth svolge un ruolo di staffetta partigiana in seno al movimento e viene soprannominata e riconosciuta con il nome di “Ombra”, per aver messo in salvo, grazie ad uno stratagemma, centododici esseri umani, tra ebrei ed antifascisti.

Quindi, una storia di sangue ed onore, di religione e crudeltà. L’orrore e le speranze di un popolo, visti attraverso gli occhi di un poeta: Zarian, il quale racconta ed include il destino degli armeni del Caucaso e come i turchi cerchino di diffondere il loro dominio pan-turko a est nel 1918, dopo il massacro di due milioni di armeni compiuto tre anni prima. Egli, fuggendo in modo rocambolesco da Costantinopoli e girando mezzo mondo come informatore-giornalista e professore di filosofia, racconta il suo diario di una vita. Egli è grande collaboratore di Lemkin all’ONU, al quale consegna centocinquantaquattromila pagine di resoconti, analisi, criptografie, documenti registrati, foto rubate ai russi,ai tedeschi, ai siriani, agli ucraini, ai greci, agli ungheresi, al fine di inserire la codificazione di “genocidio”. Sono testi sconosciuti ed inediti di Zarian, ucciso dal MIT (servizi segreti turchi) nel 1969 in via Abovian n. 5 a Yerevan.

Un documento dal valore inestimabile, per la sua unicità, se consideriamo i pochi dati sul genocidio scampati all’Intellingence russo-tedesco-turca che, nel corso degli anni ha polverizzato tutto, come se nulla fosse mai accaduto, cementando i barranchi, dove giacevano da settantanove anni i poveri cadaveri cristiani, con le mani legate dal filo spinato; uccidendo coloro i quali dispongono di documenti originali di migliaia di testimoni, foto, registrazioni, articoli. Un documento ancor più prezioso nella sua unicità, se si pensa al doloroso fardello portato nel cuore per ben un secolo dall’esigua rappresentanza di armeni della terza generazione.

Vorrei aggiungere che il libro “AmarArmenia” esce proprio mentre i turchi si stanno preparando a soffocare il 100° anniversario dell’Olocausto contro gli Armeni Cristiani dell’Impero Ottomano del 1915, attraverso commemorazioni della loro vittoria sugli alleati a Canakkale (Gallipoli) nello stesso anno.

La diaspora non potrà mai perdonare l’avidità di sangue e l’efferata violenza dei turchi. Tuttavia, nel cuore di un deportato non c’è posto nemmeno per l’odio. Ad accomunare questi anziani, la voce di un poeta, che consegna il suo diario di una vita al nipotino, un passaggio del testimone fra generazioni carico di umanità e tensione emotiva.

D) A monte di questo libro c’è un lungo lavoro di preparazione e un’accuratissima documentazione; lo si evince dalla precisione dei riferimenti storici, ambientali e culturali, dall’ efficace rielaborazione di alcune foto d’archivio, da come, in così breve spazio, i fatti sono stati concatenati, in un armonico equilibrio fra le vicende dei singoli e quelle dei popoli. Come sei riuscito a dar voce ad ognuno dei protagonisti, determinando un risultato di così incisiva coralità?

R) La dimensione umana è vista con gli occhi dei sopravvissuti alla feroce pulizia etnica: gente comune, travolta da eventi imprevisti ed inconcepibili, che nonostante tutto mantiene alta la propria dignità. Il giovane filosofo e poeta armeno, mio nonno Kostja (Eghyazarian), detto “Eghyaspya” , una volta scampato ai massacri,diventa successivamente informatore e collaboratore in tutto il mondo e sua moglie armena-ebrea e madre di tre figli, che lo porta in salvo con una ardimentosa fuga in Italia. Poi, ancora tante altre vicende umane, segnate da un unico destino. L’olocausto di due milioni di cristiani armeni rappresenta uno fra i più brutali massacri del secolo breve, che pure ne ha conosciuti parecchi. I servizi segreti russi NKVD hanno da sempre fatto di tutto per occultare e far scomparire ogni tipo di documentazione.

D)Cosa ti disse tuo nonno Kostja quando ti consegnò il suo diario?

R) Mio nonno mi disse che il diario rappresentava un ricordo indelebile ed aggiunse che il testimone della ferocia e della barbarie è destinato ad essere per sempre un infelice: ogni volta che dovrà fare un resoconto, un bilancio sul suo vissuto ed aprirà la sua cassaforte, vi troverà solo ricordi, sogni e rassegnazioni afferenti ad un incommensurabile dolore, che graffia l’anima all’infinito.

 

Alla presentazione del libro “AmarArmenia” sono intervenuti relatori d’eccezione. Fra essi, l’architetto Mischa Wegner, figlio dello scrittore e poeta espressionista tedesco Armin T. Wegner, in Italia conosciuto essenzialmente per l’importante documentazione fotografica eseguita personalmente in Anatolya durante la Prima Guerra mondiale, lungo i percorsi delle vie senza ritorno delle popolazioni armene, di cui non si voleva rimanesse memoria alcuna. Armin Wegner fu reporter di viaggi in Nord Africa a Mesopotamia negli anni ’20 e sin dalla gioventù partecipò attivamente ai movimenti pacifisti in Germania e in tutta Europa, paladino della cultura tedesca, ma avversario del militarismo prussiano e poi oppositore del regime di A. Hitler: destino che ha segnato il suo percorso esistenziale. Queste le dichiarazioni di Mischa Wegner: “risalgono al periodo immediatamente precedente il cinquantesimo anniversario del Genocidio armeno, le richieste di poter ottenere copia della documentazione fotografica, attraverso pubblicazioni ed eventi da parte di armeni residenti a Milano. L’interesse e l’approfondimento per questa memoria del primo genocidio del ventesimo secolo ha percorso una lunga fase di maturazione durata ancora molti anni, prima che il Genocidio degli ebrei e il susseguirsi di altre catastrofi, le più recenti avvenute in questi ultimi vent’anni di storia, non portassero ad una larga diffusione della conoscenza sui genocidi e quindi la necessità di custodirne memoria. Oggi, in occasione del centenario del tragico Genocidio della popolazione armena compiuto fra il 1914/1915, il percorso è giunto ad un punto di svolta, anche grazie a documentazioni e capillari ricerche condotte da chi porta e rappresenta l’eredità di un popolo di così grande cultura. Uno degli eredi, uno dei figli della tragedia, lo scrittore e reporter Diego Cimara, ha fattivamente contribuito negli anni con memorie inedite provenienti dalla sua stessa famiglia d’origine. Il suo inedito libro-documento “AmarArmenia” costituisce un importante fonte di approfondimento ed anche un sostegno alla comprensione ed alla memoria di quanto avvenuto cento anni orsono”.

Notevole analisi quella del giornalista Alessandro Forlani,il quale dichiara:”nonostante i tragici esempi del passato, anche nella fase contemporanea rischiamo di vedere riproposte nefandezze, persecuzioni, abusi e violenze. L’Isis opera proprio nella stessa area medio-orientale dove si è consumata la tragedia armena e le persecuzioni iniziarono come conseguenza dell’esasperato nazionalismo, che conduce poi alla discriminazione del “diverso”. In questa area geografica si continua a mettere a repentaglio la pace, raccogliendo militanti provenienti da tutto il mondo, per impegnarli in uno scontro frontale. La finalità è quella di abbattere tutti quegli stati circostanti, al fine di costituire lo stato islamico ed arrivare al califfato, forse ancor più intollerante e sanguinario, sicuramente più autoritario rispetto all’Impero ottomano, poiché obbliga in modo coercitivo a parlare bene al mondo di un regime ancor più odioso, in quanto giustificato da una fede religiosa. Del resto, sono proprio le logiche e le strategie politiche dell’uomo che portano ad interpretazioni aberranti. In Anatolya non si tollerava l’esistenza di comunità coese, che vivevano in modo pacifico, ma si differenziavano nella fede religiosa. Quindi, si cominciò ad allontanarle dalle loro terre, determinando logiche difficoltà di sopravvivenza per queste persone. I turchi non si limitarono ad eseguire allontanamenti per estinguere un’etnia, ma ricorsero alle torture, all’uccisione di un popolo. Il Novecento fu un secolo caratterizzato da persecuzioni, che portarono all’eliminazione di tutto ciò che non è omologato. La strage degli armeni iniziò a fine ‘800, quindi è emblematica, poiché questo genocidio portò nel 1915 i giovani turchi al potere mettendo a rischio l’autorità di un tempo del sultano, mentre il popolo cominciò a pensare ad un superamento della forma imperiale. Tutti noi abbiamo preso le distanze dai fatti atroci del passato, che tuttavia ci vengono riproposti anche a causa dei continui errori da parte dell’occidente. Parlare del dolore che ci viene dagli insegnamenti del genocidio armeno, dovrebbe insegnare come integrare le coalizioni per arginare il fenomeno dell’Islam”.

Interviene al dibattito, in chiave sostanzialmente filosofica, il cantautore e poeta Mario Castelnuovo, amico da tempo dello scrittore Diego Cimara, al quale lo accomuna il medesimo atteggiamento di rifiuto nei confronti dell’indifferenza, che va senz’altro combattuta attraverso una sana e trasparente comunicazione, utilizzando ogni possibile modalità espressiva. Entrambi nutrono le stesse urgenze di esternare le proprie passioni, di nutrirle, comunque sia e verso qualsiasi cosa, senza peraltro avvertire la necessità di parlare in modo cattedratico. Questo bravo artista, che non si può certo considerare un accademico per definizione, crede fermamente nell’efficacia e la valenza della spontaneità, della sincerità, della curiosità che porta, infine, alla scoperta. Questo è stato il percorso costantemente seguito da Diego Cimara, che nel corso degli anni tante energie ha profuso nei suoi servizi giornalistici, come nei suoi libri, sempre a sostegno di una causa di importantissima rilevanza sociale ed umana, della quale si è ingiustamente parlato troppo poco, quella del doloroso genocidio del popolo armeno, in cui ha creduto fermamente ed anche per questo, le sue parole sono state riconosciute. La preponderante funzione sociologica legata al modo di fare comunicazione accomuna empaticamente il cantautore, nonché filosofo Castelnuovo ,ad una persona di così alta caratura come il giornalista e scrittore Diego Cimara. Mario Castelnuovo, estimatore dello scrittore Dostoevskij, ha ritrovato lo stesso volto tragico, ricorrente nei suoi romanzi, proprio fra le righe del libro “AmarArmenia”. Egli conclude con un’interpretazione canora, su testo intenso e ricco di spunti di riflessione.

Il noto scrittore, giornalista e critico letterario Gavino Angius inizia il suo singolare intervento con una bellissima citazione di Julian Barnes ne “The sense of an ending”: “La storia non è il racconto dei vincitori, ma l’illusione dei vinti”. Il genocidio armeno è rimasto estraneo all’immaginario dell’occidente, anche se è il primo, archetipo e prototipo, dei tanti perpetrati nel ‘900, in particolare di quelli basati sul concetto di “pulizia etnica”. La cosa desta meraviglia, poiché al genocidio armeno ha fatto più volte cenno un autore di vastissima popolarità per tutto l’arco del secolo, come Hamingway. L’identità culturale dell’Occidente, gravata da sensi di colpa non sempre fondati, è debole e confusa e non sa confrontarsi con l’altro, neanche quando questo è violento e invadente, né tantomeno sa affrontare le minacce. Quando reagisce, in genere tardivamente, lo fa in maniera disordinata, velleitaria, e con ricadute spesso controproducenti. Gavino Angius aggiunge: “L’inerzia dell’occidente origina dalla sottovalutazione del problema, oppure da pregiudizi ideologici; giustificazionismi di chiunque si accrediti con rivendicazioni da ‘ultimo della terra’. Una terza ipotesi, la più grave e spesso anche la più realistica, è che interessi particolari di una certa Potenza, o gruppo di potere occidentale, abbiano la meglio sul senso di appartenenza, e che vi sia scarso discernimento nell’intrattenere rapporti, soprattutto economici e commerciali, con chi è pronto ad usare i vantaggi ottenuti da questi rapporti per sopraffare chi glieli ha consentiti”. Egli conclude, facendo cenno a Jan III Sobieski Re di Polonia,in quale nel 1683, mentre le altre Potenze europee cincischiavano e temporeggiavano, mise fine, con una mossa decisiva, all’assedio di Vienna da parte dei Turchi, spezzandone il moto espansionista in Europa e dando il via all’inarrestabile declino della presenza ottomana sul nostro continente e della conseguente decadenza di quell’impero.

Interviene anche la scrittrice, poetessa e responsabile all’interno della Casa Editrice “Ararat” Laura Chiarina, la quale afferma: “ Devo al bellissimo libro ‘AmarArmenia’, l’accostarmi alla storia del popolo armeno, alla presa di coscienza dell’aberrante pulizia etnica avvenuta. La presentazione mi sta dando forti emozioni, in particolare, conoscere Diego Cimara, percepirne lo spessore emotivo, la passione che guida il suo impegno da anni, mi hanno indicato, tra le altre, la chiave che lo ha condotto alla stesura di un romanzo-documento avvincente ed illuminante. Ringrazio per l’opportunità di poter intervenire a questo evento , che mi ha consentito di ascoltare gli interventi ampi, esaustivi e dal tocco personale, in particolare quello di Mischa Wegner. Intima l’atmosfera, resa ancor più toccante, grazie all’interpretazione del cantautore-poeta Mario Castelnuovo. Sono orgogliosa di ricoprire un piccolo ruolo all’interno della Casa Editrice “Divina follia- Ararat. L’impegno di squadra sarà costante. Infine, sono certa che il libro ‘AmarArmenia’ arriverà al cuore di moltissime persone. Un tributo doveroso al popolo armeno di ieri e di oggi”.

La scrittrice e poetessa Silvia Denti esordisce con un passaggio di Diego Cimara, che in una sinossi del suo libro “AmarArmenia” cita: ‘Il tratto che ci allontana dagli altri è lo stesso che ci distingue’. Probabilmente, proprio questo tratto è stato il gancio che l’ha avvicinata alla storia del Genocidio armeno, troppo dimenticata, troppo accantonata. Ed aggiunge: “non potevo rimanere indifferente rispetto quanto appreso dalla narrazione del romanzo in questione, ai fatti, anche quelli più ascosi, che l’autore ci svela, attraverso la testimonianza di Kostja al nipotino Diego. Leggendolo, analizzandolo e sezionandolo, in quanto ricco di dati, ho attraversato contrastanti stati d’animo, dalla rabbia iniziale ad una sorta di conforto automatico, che chiamerei ‘istinto di sopravvivenza’; se ci si addentra nella storia, abbandonando ogni preconcetto o conoscenza appresi sui libri di testo, sembra di navigarci, di vivere quelle situazioni, sentendole addosso. Capacità indiscutibile quella di Diego Cimara nel trasportare, tendendo idealmente la sua mano, che ci accompagna in un mondo buio, cattivo oltre l’indicibile, al di là di ogni immaginazione. Come editore posso ritenermi fiera di averlo pubblicato, in un braccio nuovo chiamato Ararat, in onore all’imponente testimone roccioso armeno, con Divinafollia Edizioni. Sicuramente, è il libro più importante pubblicato nei due anni dall’apertura di questa piccola e modesta casa editrice, che ho voluto far nascere, con l’intento di realizzare quei sogni che mi accompagnano sin da bambina. E’ con libri come “AmarArmenia” che vorrei distinguermi nel vasto panorama editoriale. Avvicinandomi alla tematica armena, ne ho conosciuto la robustezza della vicenda, la forza di un popolo che ha portato sulle proprie spalle patimenti tanto duri, persino difficili da raccontare. Ma la penna dell’autore non ha avuto esitazioni, la carica emotiva appesa al filo della memoria, fa trapelare affreschi imparziali di quella gente che, quando ha subito, lo ha fatto con grande dignità, assieme agli umani desideri collettivi contraddittori, fino a sfociare nei fermenti dei moti individuali. La parte romanzata, infatti, punta parecchio sulle percezioni, sui dettagli interiori, ed io qui ho trovato bellissimi intarsi poetici, dal linguaggio lirico, con amalgami ricchi di effetto…Del resto, uno dei testimoni-protagonisti era un artista, un poeta che sapeva cogliere e tradurre in versi la sua vita. ‘AmarArmenia’ è un libro scritto per non dimenticare, affinchè la cosiddetta memoria silenziosa del popolo armeno abbia voce ed io, come editore, ma anche come autrice, sono felice di esserci stata e di esserci ancora e ancora”.

Diego Cimara scrive: “…saper leggere cose che non potranno mai essere scritte e dire ciò che non potrà mai essere letto”.

La copertina del libro

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