«[…] “Creare una melodia nell’orecchio* acquieta il dolore e sana la ferita”.* Forse pure lui come me subì un destino*e una perdita? Che senso aveva per lui quel verso?* Capii. Era inutile scendere nel luogo dell’assenza.* Non potevo restare: Euridice non era più lì. […]».
È Orfeo che decide di vivere il suo dolore per la perdita dell’amata, fiducioso che il tempo potrà «ridonare senso a ciò che è stato». Ad aiutarlo in questa decisione è una versione originale del traghettatore più famoso della letteratura latina e italiana: Caronte che, «ormai in pensione», legge versi e fa riflettere sulla preziosità della memoria, equiparata alla cenere di un fuoco spento.
E proprio la memoria è uno dei fili conduttori di Ruah, la seconda raccolta di versi del crotonese Davide Zizza, edito da Ensemble con una bellissima prefazione di Enrico Testa.
Il titolo è una parola ebraica che significa “vento”, “soffio”, “respiro” e anche “spirito”. È infatti a questa parola che si ricollega l’etimologia dello Spirito Santo. Lo spirito di Dio che con il suo soffio vitale apre questa raccolta:
«Anche Dio nel respirare* inspirò perché potesse* diminuire e far posto al mondo.* Nel liberarlo, il soffio* si assorbì a tutta la terra».
È l’atto della Creazione, dove Dio si fa piccolo per accogliere il mondo, il «Farsi da parte per fare spazio» e consentirci di «vivere nel suo soffio».
Fin dalle prime pagine della raccolta di Zizza è evidente il richiamo ˗ reso esplicito dallo stesso autore con la citazione che apre il libro ˗ alla terminologia e al mondo poetico di Rainer Maria Rilke, sopra tutti.
Il “nome delle cose”, il “soffio”, il “respiro” e la stessa ripresa del mito di Orfeo e Euridice ˗ che ha largamente influenzato la poesia del Novecento ˗ sono sintomo del bagaglio culturale dello scrittore che, fra gli autori della sua biblioteca, riserva un posto di riguardo al poeta austriaco di origine boema.
Caratteristica di Rilke è quel sostrato pagano permeato di una religiosità che porta con sé un messaggio tutto cristiano. In questo senso, in Rilke come in Zizza, il mito di Orfeo simboleggia il regno visibile e quello invisibile, quello dei vivi e quello dei morti. Ma in Ruah non si arriva all’atto più famoso di questo mito ˗ presente anche in Pavese ˗, non si fa riferimento al respicere del protagonista, perché Orfeo avverte ancor prima la necessità di accettare, vivendola, l’assenza dell’amata.
La lettura di Ruah risulta così familiare al lettore che vi si accosta, poiché evoca immagini che abitano nella mente del singolo e riaffiorano in maniera soggettiva in ognuno di noi.
D’altronde, la magia della poesia è proprio questa: le esperienze dell’autore, anche se diverse, sono le stesse del lettore che, elaborandole, le interpreta in maniera del tutto personale. Attraverso una sorta di memoria collettiva si arriva all’intimità della memoria individuale:
«Estate sul balcone:* come ai vecchi tempi, c’è sempre qualcuno* in canottiera, con un giornale come* ventaglio, che inizia ˗ due sorsi di caffè ˗* un cruciverba», come in questo caso, dove il richiamo di una scena dal sapore spiccatamente meridionale, mette il lettore di fronte a una familiarità che lo fa sentire subito a casa.
Anche io mi immedesimo nelle parole del poeta poiché «oggi leggo e scrivo qui, con l’affacciata ad est […] ritorno alle mie pagine, cerco un finale per un articolo».
Siamo nell’era digitale, dei social e del libro elettronico, dove leggere poesie è diventato sempre più un piacere per pochi. Da sempre la poesia, e oggi più che mai, è considerata un genere di nicchia.
In un mondo in cui la fretta regna sovrana, si preferiscono sistemi di comunicazione più immediati che vanno dal romanzo alle serie tv, ai social network. Ma tutti prima o poi abbiamo bisogno di fermarci a pensare, di dedicare un po’ del nostro prezioso tempo alla bellezza della parola, di “accennare” senza “svelare”, di “accarezzare” senza “tradire”, ché «la poesia non è una scuola per scienziati», ma un rifugio per l’anima della mente.