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Vista su Rocca di Papa

Annunciato sulla prima pagina de La Croce quotidiano, il 29 maggio scorso si è tenuto presso la parrocchia di S. Maria Assunta a Rocca di Papa, in provincia di Roma, un incontro di formazione dal titolo “Sulle tracce di Maria nella storia”. Promotore di questa iniziativa su un anrgomento così avvincente per un cristiano l’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan”, rappresentato dal corrispondente romano Dott. Giuseppe Brienza, che ha relazionato assieme al prof. Gianluca Agostini, del Centro culturale degli “Amici del Timone”-Roma. Consapevoli che intorno alle Apparizioni di Maria negli ultimi 150 anni si è creata anche un’attesa apocalittica (nel senso comune – ed errato – del termine), in riferimento in particolare ad una certa lettura della vicenda straordinaria di Medjugorje, quasi tutti gli intervenuti alla conferenza si sono chiesti se avessero potuto trovare una qualche risposta in merito ed, eventualmente, conferma del clima da tempi ultimi che serpeggia in qualche settore della Chiesa, soprattutto italiana.

Brienza ed Agostini hanno fornito in merito una risposta documentata e convinta, senza allarmismi ma con precisa consapevolezza della serietà degli accadimenti.

È sull’apparizione mariana di Fatima (1917) che il dott. Brienza ha concentrato la propria attenzione, per la straordinarietà dei messaggi e per il fatto che gli esiti di quella vicenda sono tuttora aperti. Che dire – in particolare – del ruolo attribuito alla Russia, sia sullo scacchiere internazionale (consacrata a Maria, proprio la Russia diverrebbe protagonista e costruttrice della pace mondiale) che all’interno della vita della Chiesa cristiana? Che sia la Russia il vero baluardo contro la crisi valoriale di un Occidente sempre più al tramonto? Infatti, ha osservato Brienza, «la nuova Russia rappresenta oggi l’unica potenza che si difende dal relativismo morale imperante in Occidente, accettando l’influsso della Chiesa, intesse rapporti di positiva collaborazione con altri grandi popoli asiatici, proclama la sua avversione alla preponderanza della grande finanza».

Al prof. Agostini il compito di delineare, in maniera più analitica, il percorso storico delle Apparizioni mariane degli ultimi tempi, a partire dal 1830 (Rue du Bac, Parigi: apparizione della santa Vergine a santa Caterina Labouré ed indicazioni per la diffusione della medaglia miracolosa) fino alle odierne manifestazioni mariane di Medjugorje.

Sono vicende conosciute. Ma i punti che il relatore Agostini ha evidenziato vanno al di là della semplice rievocazione; il riferimento alle apparizioni, più o meno conosciute, ha voluto cogliere sempre una ragione meno evidente e più profonda e cogente (per noi) nell’intervento di Maria. Per esempio, nell’apparizione de La Salette (19 settembre 1846), il richiamo accorato di Maria SS.ma alla conversione e alla penitenza si concretizza nel rimprovero per il peccato grave del lavoro domenicale (che dire dell’odierna apertura domenicale dei Centri commerciali, divenuti santuario di festeggiamento laico per tante persone e necessaria costrizione al lavoro per donne, uomini, madri di famiglia tenute lontane, proprio la domenica, dalle loro famiglie?).

Poi la preghiera di Leone XIII a San Michele Arcangelo, a seguito di una drammatica visione avuta dal Papa il 13 ottobre del 1884 (il 13 ottobre sarà la data dell’ultima Apparizione di Fatima nel 1917): avvisaglia di pericoli per la Chiesa. Stesso tono drammatico, osserva il prof. Agostini, che caratterizza la Divini Redemptoris di Pio XI (1937) nella ripetuta condanna del comunismo (per es. nn. 3-4, 58).

Locandina

Altro tema suggestivo: l’aggancio tra le Apparizioni mariane ed il dogma cattolico. Il riferimento non è solo Lourdes, allorché nel 1858 la Santa Vergine, definendosi Immacolata, conferma ufficialmente la solenne proclamazione del 1854 – ad opera del Papa Pio IX – del dogma dell’Immacolata Concezione. Meno conosciuta risulta essere l’Apparizione di Maria a Bruno Cornacchiola, a Roma, alle Tre Fontane, il 12 aprile 1947. La Madonna, che si presentò come Vergine della Rivelazione, volle anche svelare il senso della sua glorificazione: «Il mio corpo non poteva marcire e non marcì. Mio Figlio e gli angeli mi vennero a prendere al momento del mio trapasso»; anticipazione della definizione solenne del dogma dell’Assunzione di Maria in cielo, proclamata da Pio XII il 1° novembre 1950.

Di qui l’interessante passaggio alle apparizioni di Amsterdam (Il 25 marzo 1945 la Madonna è apparsa ad Amsterdam a Ida Peerdeman). Era la prima di 56 apparizioni avvenute tra il 1945 e il 1959, con le quali Maria SS. ma rivelò che vuole essere conosciuta ed amata da tutti gli uomini come La Signora di tutti i popoli o La Madre di tutti i popoli. Il 31 maggio 1996 il vescovo di Haarlem Mons. H. Bomers ed il suo Ausiliare Mons. J. M. Punt – dopo aver consultato la Congregazione per la Dottrina della Fede – hanno permesso la venerazione pubblica della Madonna con il titolo “La Signora di Tutti i Popoli”; l’origine soprannaturale delle apparizioni è stata attestata il 31 maggio 2002 dal vescovo diocesano.

Occorrerebbe approfondire lo studio e la conoscenza delle Apparizioni di Amsterdam, per cogliere il senso del profondo legame che pare sussistere con Rue du Bac (1830): ad Amsterdam, l’Immacolata prosegue e sembra portare a compimento, con il nuovo titolo di Signora di tutti i Popoli, la via iniziata nel 1830 a Parigi. Sul sito www.de-vrouwe.info ci si dilunga sulle concordanze più evidenti tra le due apparizioni, in riferimento essenzialmente a uno studio del Comitato Signora di tutti i Popoli risalente al 1973. Sembra confermarsi pure il nesso tra apparizioni mariane e dogma cattolico: come Rue du Bac con la Medaglia miracolosa e l’invocazione a Maria concepita senza peccato che anticipa la proclamazione del dogma dell’Immacolata del 1854, così come l’immagine della Signora di tutti i popoli (mostrata da Maria a Ida Peerdeman) sembra interpretare l’attesa di un nuovo e definitivo dogma mariano, che proclamerebbe Maria Santissima “Corredentrice, Mediatrice di tutte le grazie e Avvocata”, titoli mariani che sarebbero già identificabili nei due lati della Medaglia miracolosa del 1830 (la Chiesa, precisiamo, ancora non si è pronunciata su questa suggestiva ipotesi).

Fra gli altri argomenti toccati da Agostini e Brienza, naturalmente, non potevano mancare le apparizioni di Medjugorje, iniziate nel giugno del 1981 e ancora in essere. Quindi quelle di Akita, Giappone 1973, profezia di distruzione del mondo con un nuovo e più terribile diluvio, di fuoco e, infine, le apparizioni di Kibeho (1981-1989) in Ruanda, terra martoriata di lì a poco – nel 1994 – dalla guerra civile con 800.000 morti ammazzati.

Anche alla luce anche del dibattito che è seguito agli interventi del dott. Brienza e del prof. Agostini, è emersa la convinzione comune che, mentre il mondo sembra seguire un suo itinerario sempre più problematico - da parte del pubblico è emersa, ad esempio, la preoccupazione per la deriva relativista e nichilista delle nostre società ex- e post cristiane (v. la recente scelta pro matrimonio gay dell'Irlanda) - la presenza di Maria Santissima attraverso numerose e provvidenziali apparizioni si pone sempre più come faro per la comunità credente. Quale storia stiamo di fatto vivendo, visto che ormai la cultura ha dimenticato che la storia è - per il credente - fondamentalmente una storia sacra?

Dio è stato tolto dal suo spazio abituale (fino alla modernità) e nella cornice rimasta vuota abbiamo rimpiazzato Dio con gli idoli. Ripudiando il Padre, siamo rimasti orfani, soli con le nostre angosce.

Perciò l'intervento prezioso e materno di Maria. I suoi messaggi suonano come un accorato ammonimento a ristabilire i fondamentali del vivere umano.

A La Salette (1846) ci ha richiamato al riposo festivo. Nel Messaggio del 14 aprile 1982 a Medjugorje - contro il menzognero ottimismo illuministico - insiste "Dovete sapere che Satana esiste ...". Nelle apparizioni di Amsterdam, che opportunamente sono state ricordate ad un pubblico che ne aveva scarsa notizia, ha chiesto di essere venerata col titolo di Signora di tutti i popoli. A Medjugorje è invocata come Regina della Pace.

Ne risulta, ancora una volta, richiamato e valorizzato il compito del credente: consapevole di essere nel mondo, ma non del mondo, vive in pienezza la vocazione terrestre per costruire un’umanità migliore, con l’occhio sempre rivolto alla vera meta che Maria nei suoi messaggi non cessa di indicare. In concreto: è la conversione individuale e collettiva che ci chiede Maria.

Senza allarmismi e millenarismi, ma con la ferma convinzione che siamo cittadini del cielo.

 

mau

Ho incontrato Maurizio De Rosa pochi giorni orsono. Un appuntamento rimandato da tempo divenuto improcrastinabile per l’uscita – finalmente – della sua storia della letteratura greca dal 1800 al 2015: “Bella come i greci”. Devo dire pero che questa intervista e stata realizzata per il Corriere del Sud grazie al amico scrittore ed editore Enzo Terzi,che lo ringrazio infinitamente per il Suo precioso aiuto. Ci siamo incontrati in questi giorni particolari dove all’affanno della città che come ogni anno si dedica interamente all’accoglienza dei turisti che in barba a tutte le nuvole che incombono su questo paese arrivano sempre in maggior numero. Ma da cittadini ateniesi quali oramai siamo, pur cercando di esorcizzare ogni e qualsiasi demone avvertiamo, palpabile, l’aria pesante dell’attesa. Un’attesa che per i più è solo rivolta a conoscere quando questa estenuante querelle con l’Europa avrà fine, quale che possa essere la decisione che verrà presa. Lo scopo dell’incontro tuttavia era quello di sapere da De rosa, qualcosa in più della genesi e dei metodi con i quali il suo volume si è sviluppato. Ricordo che De Rosa è un filologo ed uno studioso della letteratura greca che accomuna quella che definisce oramai la linfa della sua esistenza  al lavoro di traduttore (dal greco all’italiano) internazionalmente affermato e riconosciuto.

Il dialogo poteva svilupparsi forse in una chiacchierata che - ahimé - per quanto forse più piacevole, ci avrebbe probabilmente portato a perdersi nei tanti argomenti che ogni volta affrontiamo, senza un ordine preciso. Abbiamo, dunque, di comune accordo, deciso di dare a questa chiacchierata, la forma di una intervista,  più per non correre il rischio di divagare (come sempre facciamo) che non per una necessità di ordine.

Ho scelto dunque una serie di domande inerenti questo suo lavoro  - al quale, con meritato orgoglio, tiene particolarmente -,  alle quali, di buon grado, De Rosa ha risposto con esauriente chiarezza, spesso con allusioni e piccole provocazioni.

 

1. “Bella come i greci” indica nel suo sottotitolo una precisa epoca storica che inizia nel 1880: cosa rappresenta letterariamente la scelta di questa data?

La scelta di questa data indica nel contempo un punto di arrivo e un punto di partenza. Intorno a quella data lo Stato greco, nato dalla rivoluzione del 1821 e fondato ufficialmente nel 1832, ha già mezzo secolo di vita. La retorica del tardo romanticismo comincia a poco a poco a tramontare, e si delinea il compimento di un lungo processo di sintesi, il primo nella letteratura e cultura della Grecia moderna. Sintesi, da una parte, tra la ricca tradizione nazionale, che affonda le sue radici nell’impero Romano d’Oriente e nella tradizione orale del canto popolare, tanto amato da Goethe, Fauriel e il nostro Tommaseo. E dall’altra con gli stimoli provenienti dall’Europa occidentale, decisivi per la letteratura greca “post-bizantina”. Il primo a tentare questa sintesi fu il poeta dell’Eptaneso Dionisios Solomòs, conterraneo e contemporaneo di Ugo Foscolo, che ha lasciato un corpus di opere frammentario e tormentato. Un nuovo tentativo avvenne con un altro poeta dell’Eptaneso, Andreas Kalvos, segretario di Ugo Foscolo, che ritenne di doversi volgere soprattutto all’antichità classica. Con la generazione del 1880 e soprattutto con il poeta Kostìs Palamàs, questi filoni di ricerca, non privi di una certa drammaticità, giunsero a una sintesi dal valore paradigmatico almeno fino alla generazione degli anni Trenta. Tale sintesi fu resa possibile anche dall’opzione a favore del greco volgare. Proprio la generazione dl 1880, infatti, è quella che in modo perentorio proclamò la dignità della lingua del popolo a scapito della cosiddetta lingua epurata. In realtà la questione della lingua, in Grecia, fu risolta sul piano istituzionale soltanto un secolo dopo, negli anni Ottanta del Novecento. Nel frattempo però il greco demotico era riuscito a imporsi come lingua della letteratura, della poesia prima e poi anche della prosa, proprio a partire dalla generazione del 1880.

2. La scelta di illustrare l’universo letterario greco senza seguire la classica catalogazione in correnti e movimenti quale tipo di opportunità ha concesso?

La letteratura, in ultima analisi, è un dialogo intertestuale più che un dialogo tra le figure storiche, biografiche degli autori. Quest’ultimo riguarda semmai la storia della cultura e delle idee oppure, nella peggiore delle ipotesi, il pettegolezzo culturale. Sono i testi a dialogare, a interagire o anche a scontrarsi tra di loro, e a creare quella catena che prende il nome di “tradizione”. In generale le storie letterarie seguono una via di mezzo tra la gallerie di personaggi illustri e la centralità del testo. Nel caso di Bella come i greci l’intento è stato invece quello di assegnare il posto d’onore ai testi. Una tale scelta consente di mettere in evidenza il fitto reticolo di riferimenti che lega un testo all’altro, le allusioni, le strizzate d’occhio, le prese di posizione e di distanza, gli echi e le riscritture. Inoltre la centralità del testo consente di scoprire alcuni motivi ricorrenti, o ossessioni se si preferisce, della letteratura greca. Tra questi ci sono il gusto per le parabola e per il racconto simbolico, e il ricorrere della presenza di spazi chiusi e di orizzonti angusti. Un altro elemento ricorrente è la frequente riflessione sul senso storico e culturale della grecità, e per conseguenza la forte presenza della storia e della testimonianza presso i letterati greci. Certo, una storia letteraria basata sui testi può spiazzare il lettore che i testi non li conosce o non li può leggere in originale, se non tradotti. Nel caso dei testi della letteratura greca moderna questo accade abbastanza spesso. Ma mi auguro che a prevalere sia soprattutto la curiosità e che ai lettori venga la voglia di procurarsi i testi, almeno quelli tradotti in italiano, che costituiscono comunque un corpus ormai rilevante.

3. Il panorama che lei ci illustra valica e meri confini nazionali greci e coinvolge - rappresentando una stimolante sorpresa - i protagonisti della letteratura cipriota. Quali i legami letterari tra questi due mondi spesso tanto vicini da confondersi, spesso tanto lontani da non riuscire mai a ricongiungersi, come se l'identità cipriota si rivelasse come una esacerbazione di quella cretese alla quale a tratti sembra somigliare?

Il legame più forte resta quello della lingua. Anche se Cipro possiede un suo dialetto, uno dei pochissimi in seno alla lingua greca, decisamente molto unitaria e compatta, la koinè è la lingua della letteratura e della cultura in generale. La grecità cipriota è una grecità che resta militante e in cui resta forte la presenza dell’elemento storico. I tragici fatti del 1974 e la divisione dell’isola, che si protrae tutt’ora, pongono i greci di Cipro in una posizione diversa da quella degli altri greci. D’altro canto la grecità cipriota, e qui cito Seferis, costituisce l’ultimo baluardo di una grecità fuori dalla Grecia, l’ultimo pezzo non coinvolto dal movimento centripeto che ha visto i greci abbandonare, quasi mai volontariamente, le “patrie perdute” e cercare rifugio nello Stato nazionale. Ancor oggi quindi Cipro ha grande importanza per l’immagine dei greci rispetto a se stessi, e rispetto alla memoria storica di un passato ancora relativamente recente, in cui la lingua e la cultura greca non conoscevano confini di sorta.

4. Quanto la letteratura greca del periodo preso in considerazione può considerarsi specchio delle vicende sociali e storiche del paese e quale è stato a suo avviso il momento in cui maggiormente la produzione letteraria è stata espressione delle speranze e dei desideri del paese?

Una delle caratteristiche principali della letteratura greca moderna è la presa diretta con la storia. Né potrebbe essere altrimenti date le vicissitudini del Paese, le difficoltà della sua affermazione storica e il carattere paradigmatico di molti episodi che la riguardano: dalla stessa nascita, che revoca in dubbio l’ordine sancito dal Congresso di Vienna e costituisce una sfida paragonabile soltanto, oltre un secolo dopo, alla fondazione dello Stato di Israele, fino allo scambio di popolazione con la Turchia nel 1922, il più grande mai avvenuto fino ad allora e ancor oggi uno dei più grandi di tutta la storia mondiale. Per non parlare dell’epopea della guerra in Albania contro l’Italia mussoliniana e i tragici fatti della resistenza antifascista e antinazista, e della guerra civile conclusasi nel 1950. A questo proposito c’è un testo che a mio parere più di ogni altro coagula intorno a sé storia, cultura, sentimento popolare e senso di appartenenza nazionale. Si tratta del poema Dignum est del Premio Nobel Odisseas Elitis, messo in musica da Mikis Theodorakis, in cui l’avanguardia surrealista, la musica popolare, la spiritualità ortodossa e la tradizione del canto popolare si fondono in una sintesi mirabile e irripetibile.

5. Quali sono i legami tra la letteratura bizantina e quella del post-indipendenza? E in che maniera si sono potuti mantenere questi rapporti in un paese per quattro secoli oscurato dalla dominazione ottomana?

Nella storiografia specializzata è comune il concetto di “Bisanzio dopo Bisanzio”. In altre parole, Bisanzio ha continuato a vivere nella mentalità, nella cultura, nella religione e in parte persino nelle istituzioni delle popolazioni ortodosse sottomesse al Sultano anche dopo la caduta del grande impero. Questo vale per i greci come per gli slavi della Penisola Balcanica, che a loro volta condividono con i greci l’eredità dell’impero d’Oriente. Nel caso dei greci, tale continuità è stata garantita dalla relativa autonomia conservata dal Patriarcato di Costantinopoli e dalla presenza dei Fanarioti, alti funzionari greci che negli ultimi due secoli prima della guerra d’indipendenza riuscirono persino a introdursi nei gangli amministrativi dell’impero Ottomano occupandone posti di rilievo. I Fanarioti si fecero garanti della conservazione della tradizione greco-bizantina e tramandarono allo Stato greco forme e strutture letterarie nate soprattutto in tarda epoca bizantina. Non si dimentichi inoltre che la stessa letteratura greca moderna è una derivazione della letteratura bizantina in lingua demotica, a sua volta sviluppatasi anche grazie al contatto con le letterature volgari portate dagli invasori occidentali con le Crociate. Sempre da Bisanzio deriva la doppia tradizione della lingua greca, con la sua dicotomia tra forma dotta e forma popolare, che risale in realtà al tardo mondo antico. E a Bisanzio si volsero molti esponenti della generazione del 1880 e non solo, tra cui Kostìs Palamàs, e numerosi studiosi, a cui si deve la sostanziale riscoperta di questo fondamentale capitolo della storia culturale d’Europa.

6. Il novecento ha regalato al mondo due premi nobel greci per la letteratura ed altri personaggi che certo non avrebbero demeritato un simile riconoscimento. Proprio nel novecento la Grecia viveva uno dei suoi più travagliati periodi, affrontando due guerre balcaniche, una guerra con i Turchi, due guerre mondiali, la guerra civile ed una dittatura. Quali sono gli elementi che possono conciliare questa doppia ed antitetica faccia del secolo breve greco?

Come dicevo prima, la letteratura greca è una letteratura che, storicamente, non ama rifugiarsi nella narcisistica torre d’avorio dei vati estetizzanti e non esita a chinarsi sugli aspetti e problemi di una delle più travagliate storie mondiali. Dopo quella del 1880, una sintesi fondamentale per le lettere e per la cultura greche è quella operata dalla generazione degli anni Trenta. Ghiorgos Seferis e Odisseas Elitis, vincitori del Premio Nobel, ne sono considerati i maggiori esponenti. Il miracolo di questa generazione sta appunto nell’aver cercato di conferire un senso agli eventi storici e di sublimare il destino della Grecia nel nome della poesia, della tradizione nazionale e della ricerca d’avanguardia. In altri Paesi l’avanguardia dei poeti dotti e la poesia popolare si troverebbero forse in antitesi, ma non in Grecia, dove i poeti hanno saputo mettere in luce gli elementi “d’avanguardia” della poesia, e soprattutto del canto, popolare, e gli elementi popolari della poesia impegnata. L’importanza di tale sintesi, e non soltanto per la Grecia, è tale che essa è stata riconosciuta anche all’estero grazie ai due Premi Nobel. Oggi come oggi la poesia, anche in Grecia, risulta appannata per molte ragioni, sociali, economiche ed editoriali. Quel paradigma tuttavia resta insuperato e forse insuperabile.

7. Si possono individuare nella letteratura greca del novecento personaggi specifici se non addirittura una vera e propria corrente che si sia fatto interprete, al pari del rebetiko nella musica e nella canzone popolare, dei disagi e degli sfollati e dei reietti?

La letteratura greca comincia fin da subito a occuparsi di sfollati e di sottoproletariato urbano. Atene stessa, subito dopo la proclamazione a capitale, si era riempita di “miserabili” all’indomani della guerra d’indipendenza: si trattava di veterani, di reduci e di combattenti giunti da altre aree dell’impero Ottomano, formalmente cittadini ottomani, considerati “personae non gratae” dalle autorità del Sultano. Uno dei massimi prosatori greci moderni, Alèxandros Papadiamandis, descrive il problema del male in un’ottica ortodossa su sfondi agresti segnati dalla povertà e dall’indigenza. Altri autori si soffermano invece sulla malavita e sul sottoproletariato che proliferava, com’era naturale, nei porti greci e non solo. Gli storici e i sociologi hanno rivelato che si tratta spesso di esagerazioni retoriche e che le campagne greche non erano più segnate dall’indigenza delle coeve campagne centroeuropee, per esempio. Resta il fatto che l’insoddisfazione sociale assume talora il simbolo del lamento per un paradiso perduto: motivo a sua volta ricorrente, e importante, per interpretare la letteratura greca moderna.

8. Quale è il ruolo che ha assunto la cultura ed in particolare della letteratura nella Grecia degli ultimi venti anni?

Negli ultimi vent’anni si è assistito a una vera e propria rivoluzione segnata dalla trasformazione dell’editoria in industria, dall’ampliamento del pubblico dei lettori, da un progressivo allontanamento della letteratura greca dalla tematica politica e sociale, soppiantata da un approccio individualistico, dal contrarsi della poesia e favore della prosa, e dagli autori che diventano personaggi. Prima della crisi uscivano circa diecimila nuovi titoli all’anno mentre adesso veleggiano intorno ai sette-ottomila. Numeri di tutto rispetto se si pensa che il mercato della letteratura in lingua greca è limitato ai dieci milioni di greci e al milione scarso di ciprioti. Negli ultimissimi anni il libro è entrato a far parte delle abitudini culturali di molti cittadini. A testimoniarlo sono anche il proliferare di blog dedicati al libro, il successo dei seminari di scrittura creativa e l’interesse del pubblico per i nuovi premi letterari, meno paludati ed accademici, e più vicini, almeno negli intenti, alle preferenze del lettore medio.

9. Nel momento in cui, di fronte all’avvento della profonda crisi che tutt’oggi attanaglia il paese, dal mondo culturale europeo e non solo è sorto l’appello nei confronti di una Grecia che andava ad ogni costo sostenuta in quanto culla della civiltà mediterranea. Come interpreta lei questo appello? Lo riconosce come veritiero o ne avverte un certo qual spirito retorico?

La retorica è sempre in agguato ma d’altra parte non si può neppure, nel timore di apparire retorici, finire con il dar sempre ragione al pensiero dominante basato sulle virgole dei patti di stabilità e sui decimali dei deficit di bilancio. L’Europa è certo una costruzione in primo luogo economica, uno spazio, inizialmente, di libero scambio di materie prime ma è anche, da sempre, un luogo di interazione, di idee, di riflessione sull’uomo e sul suo destino. Il Vecchio Continente concentra un numero impressionante di vestigia della cultura umana universale, non esiste centimetro quadrato di territorio che non presenti un qualche interesse storico o culturale. L’Europa a sua volta fa parte del Vecchio Mondo, che comprende il Mediterraneo orientale e l’Egitto. La Grecia è un ponte gettato tra queste diverse sfaccettature d’Europa, sospeso geograficamente e storicamente, e ha bisogno dell’Europa almeno quanto l’Europa ha bisogno della Grecia per non smarrire la sua anima, anche se tale affermazione oggi come oggi suona romanticamente fuori tempo massimo.

10. Durante questi anni, in particolare dal 2009 al 2012 mentre il paese sprofondava senza controllo nel pozzo profondo della crisi, a suo parere, gli esponenti del mondo culturale greco (oltre le posizioni pubbliche assunte da uomini simbolo come Theodorakis) avrebbero potuto assumere una posizione pubblica di più chiaro intervento anziché esiliarsi corporativamente su un silenzioso Aventino dal quale sono prevalentemente emerse solo gesti stereotipati?

C’è stato un lungo dibattito negli ultimi anni su questo argomento. Alcuni sognavano l’intellettuale interventista, pronto ad assumere ruoli di leader. Altri, forse più saggiamente, hanno lasciato che gli autori, i pensatori e gli artisti in genere parlassero con le loro opere. In questa diatriba, a mio parere, c’è un equivoco di fondo. Gli artisti non sono e non devono essere necessariamente intellettuali, nel senso, come s’intende spesso oggi, di sociologi. Il mondo dell’artista appartiene a un’altra sfera, quella estetica, che deve essere a tutti i costi salvaguardata dalla stringente attualità, che peraltro, anche a prescindere dalla crisi di oggi, è problematica a priori. In altre parole, si rischia di rimproverare all’artista di fare il suo lavoro, e dunque di cadere in una forma di censura, soltanto perché non prende posizione “mediatica” sugli argomenti dell’attualità. Ma da qui a impedire a Fidia di scolpire il frontone del Partenone prima che siano risolti tutti i problemi sociali, economici e di felicità personale di ogni abitante del pianeta, il passo rischia di essere breve. Del resto neppure gli intellettuali sono infallibili. In una recente intervista rilasciata alla rivista culturale ateniese “Frear”, Claudio Magris ricorda che Luigi Pirandello inviò un telegramma di solidarietà a Mussolini dopo il delitto di Matteotti.

11. Un’ultima domanda non specificatamente rivolta al filologo ed allo studioso ma al cittadino ateniese quale lei è oramai da più di un decennio: che ne sarà, infine di questo Paese? Sarà ancora il ballo purificatore dello Zorba di Kazantzakis  che stabilirà il legame tra la capacità di superare le difficoltà e la forza per ricostruirsi? Quale spirito fornirà quella energia sufficiente a consolidare le fondamenta di questa democrazia greca contemporanea?

Credo molto nei giovani greci. Parlando in generale, la nuova generazione è preparata, cosmopolita, poco incline ai sentimentalismi, e ama la Grecia come forse non l’hanno mai amata neppure i loro genitori. Comprensibilmente: l’attuale è forse la prima generazione di greci a non avere genitori nati altrove, in altri lidi o in altri Paesi, dove spesso sognavano di tornare una volta sedate le bufere della storia. La prospettiva dei giovani greci è all’interno del Paese anche se naturalmente anche qui il fenomeno della “fuga dei cervelli” è molto intenso. Ma questo non è per forza un male. Una volta compiuto il loro viaggio, torneranno più saggi e ricchi di esperienze. E in tal modo potranno aiutare la loro piccola Itaca a continuare il suo viaggio nella storia, all’interno dell’Europa, al crocevia tra tre continenti e altrettante aree culturali. Certo, in questo contesto non so quanto il “ballo di Zorba” possa considerarsi ancora attuale, ammesso che lo sia mai stato. Perché anche il vitalismo di Zorba, identificato tout-court con lo spirito greco, letterariamente parlando è assai più legato alla temperie novecentesca che non a una presunta grecità diacronica. D’altra parte il ballo di Zorba rappresenta anche il superamento dei limiti, lo spirito di adattamento, la capacità di risorgere dopo le sconfitte, la volatilità che aspira alla solidificazione, il movimento perenne e anche, perché no, le contraddizioni di un piccolo, storico popolo che, non dimentichiamolo, ha spesso rimescolato, e in senso positivo, le carte della storia europea, sin dalla sua rinascita nazionale nel lontano 1821.

chi impugna la croce 1

La vittoriosa conferma elettorale della Lega in Veneto, mi ha stimolato a leggere, “Chi impugna la Croce”. Lega e Chiesa”, editrice Laterza (2011), un libro inchiesta sui rapporti tra Lega e la Chiesa cattolica, scritto da Renzo Guolo, professore di sociologia delle culture e della politica presso l’università di Padova e editorialista del quotidiano La Repubblica.

Renzo Guolo si pone alcuni interrogativi: perché il Carroccio si espande proprio su quell’Italia bianca in cui il Cattolicesimo e la DC hanno avuto sempre una forte rilevanza. Perché ha incontrato un sola resistenza: la Chiesa. E poi perché oggi il Carroccio e i vertici ecclesiali, dopo gli scontri iniziali, sembrano avviati verso strade meno conflittuali. Ma soprattutto Guolo nel testo evidenzia nella Lega il passaggio dal neopaganesimoiniziale a una certa riscoperta del cristianesimo. Al riguardo Guolo vede tra la Lega e la Chiesa quasi una sfida che non interessa la salvezza delle anime, ma è soprattutto orientata verso l’identità del territorio, su chi riesce per primo a dare forma alla società. Si tratta, a parere del professore dell’università padovana, di un conflitto, uno scontro egemonico nella società del Nord Est.

Per la verità il libro mi sembra sufficientemente equilibrato e in parte sgombro da certi pregiudizi negativi in riguardo alla Lega.

Certamente il rapporto tra la Lega e la Chiesa è atipico. Peraltro la loro relazione non è riconducibile allo scontro classico Stato-Chiesa. Secondo Guolo, la Lega si presenta come un partito che interviene attivamente nelle vicende della Chiesa, rovesciando “i crismi del partito confessionale”. Infatti il partito leghista,“tende a dare una linea alla Chiesa”. Scrive Guolo: “la Lega privilegia un corpus dottrinale anziché un altro; agisce come attore ostile a interpretazioni dottrinare e azioni pastorali ritenute potenzialmente destinate a sfociare in sistemi concorrenti alternativi”. E qui probabilmente Guolo si riferisce alle polemiche innescate all’interno del mondo cattolico sull’ermeneutica del Concilio Ecumenico Vaticano II. Dopo il celebre discorso alla Curia Romana di Papa Benedetto XVI nel dicembre del 2005, Papa Ratzinger ha ben inquadrato il Concilio, nella “giusta ermeneutica”, definendolo in continuità con tutta gli altri concili. Mentre altre interpretazioni invece vedono il Vaticano II come discontinuità, come rottura con la Chiesa di prima. La Lega si schiera con l’interpretazione della continuità e non disdegna di criticare teologi, intellettuali, e specialisti, “che avrebbero imposto alla Chiesa quell’ermeneutica della discontinuità”.

Per Guolo questo sembra un interventismo anomalo, che vede un partito definire pubblicamente ciò che è bene o meno nella condotta della Chiesa”

La Lega ribadirà sempre, “di non essere ostile alla Chiesa in quanto tale, ma solo nei confronti di quella post-conciliare”. E proprio qui, forse, in maniera grossolana, individua amici e nemici della sua politica religiosa. Tra i suoi “nemici” individua il cardinale Martini nella diocesi di Milano e poi il suo successore cardinale Tettamanzi. Poi c’è il vescovo monsignor Magnani di Treviso. Nel testo Guoloesamina il “caso Treviso”, dove forse c’è stato il contrasto più forte con la Chiesa. Il contendere è la questione immigrazione, il rapporto con i musulmani , che chiedono moschee per il loro culto. Il culmine della contesa si ha quando ai primi di gennaio del 2009, un corteo contro i bombardamenti israeliani su Gaza si conclude con la preghiera dei musulmani sul sagrato del Duomo di Milano, episodio molto grave per i leghisti milanesi, ma anche per tanti altri cittadini milanesi. Ma se ci sono vescovi “nemici”, ci sono anche gli “amici”, e tra questi c’è il cardinale Giacomo Biffi di Bologna, che gode della simpatia leghista.

Il sociologo Guolo, fa un’ottima sintesi del magistero biffiano. Viene spiegato il celebre discorso di San Petronio del settembre 2000, quando il cardinale chiarì quale doveva essere la posizione politica del nostro Paese nei confronti dell’immigrazionismo. Per quanto riguarda la Chiesa, il prete giustamente deve accogliere tutti, bianchi, neri, verdi etc. Lo Stato, invece, deve discriminare, non può far finta di nulla, deve stare attento alla cultura, alla religione degli uomini e donne che fa entrare nel nostro Paese. Naturalmente il primate bolognese, fa riferimento agli immigrati musulmani che per la loro “diversità”, costituiscono un serio problema per l’integrazione. Secondo Biffi, gli immigrati dovrebbero conoscere e rispettare le nostre tradizioni e la nostra cultura e identità. Per lo meno se dobbiamo rispettare le “minoranze”, bisognerebbe rispettare anche le “maggioranze”. Pertanto abolire i crocifissi nei luoghi pubblici, per non urtare la sensibilità di minoranze di altre religioni, è aberrante.

Il cardinale di fronte alle dinamiche demografiche sul futuro dell’Italia e dell’Europa, propone l’unica “medicina” possibile: o riscopriamo la nostra vera identità e ridiventiamo cristiani, oppure saremo conquistati dall’Islam o dalla “cultura del niente”. “Solo la riscoperta dell’avvenimento cristiano potrà dare, secondo Biffi, un esito diverso a questo inevitabile confronto”. Ma a distanza di quindici anni ancora oggi, né i “laici”, né i “cattolici”, sembrano rendersi conto del dramma che si sta profilando all’orizzonte.

Nel libro, Guolo dà conto di un diversoapprezzamento dei leghisti nei confronti di Papa Wojtyla e di Papa Ratzinger. Secondo l’editorialista di Repubblica, il leghismo italiano non ha digerito molto il pontificato di Giovanni Paolo II, mentre si è trovato in perfetta sintonia con Benedetto XVI. Addirittura al papa polacco viene idealmente contrapposto il bergamasco Giovanni XXIII. La contrapposizione mi sembra abbastanza forzata, anche perché Benedetto XVI ha continuato l’opera magisterialee di riforma di san Giovanni Paolo II. Ma non bisogna meravigliarsi, ormai è abitudine di certo giornalismo contrapporre i vari pontefici.

Il testo di Guolo descrive correttamente il superamento della Lega della prima fase neopagana anticlericale, del culto al dio Po e ai Celti, intriso di new age e di panteismo. Peraltro, è il periodo del secessionismo duro e puro, all’approdo al cattolicesimo.

Anche sulla faccenda dei rapporti tra il cattolicesimo padano e quello tradizionalista dei lefebvriani, anche su questo tema non riscontro squilibri, Guolodescrive i fatti come sono stati e poi tira delle conclusioni. L’aspetto della strumentalizzazione, forse, affiora quando Guolo descrive le battaglie della Lega in difesa del crocefisso e del presepe. Si nota una certa esagerazione nella difesa dei simboli religiosi. Chiaramente il crocifisso non si impone per legge o con i carabinieri. Anche se per il leghismo, la mobilitazione a favore dei simboli cristiani, “dà forma e valorizza i sentimenti di appartenenza alla comunità locale”. Pertanto secondo Guolo, “la presenza del crocifisso viene vista da questi cittadini come segno della continuità identitaria della comunità locale più che come simbolo del messaggio di fratellanza cristiana”.

Il testo, naturalmente affronta altre questioni dei rapporti complessi tra Lega e Chiesa, per l’autore, il Carroccio esalterebbe una religione senza Chiesa, addirittura il cattolicesimo del Carroccio, che pure si richiama alla Tradizione, si nutrirebbe di un’interpretazione della fede più simile alla matrice protestante, soprattutto, quando intende mettere in discussione la stessa forma romana del cattolicesimo. Ma queste, forse, sono interpretazioni del professore Guolo, simili a quelli che identificavano i leghisti nei riti neopagani dei celti. A questo proposito, il professore Massimo Introvigne che ha diretto una ricerca scientifica nel 2001sul tema,“Aspetti spirituali dei revival celtici e tradizionali in Lombardia”, proprio tra gli iscritti e gli elettori della Lega in Lombardia, con notevoli sforzi, ha trovato ben quindici persone che dichiarano di professare la religione dei celti e partecipano a riti neo-pagani: una minoranza colorita, dunque, ma infima.

Esce in questi giorni per i tipi di Universitalia, all’interno della collana “Studi e testi” di letteratura e civiltà della Grecia moderna, diretta dal prof. Cristiano Luciani, ma soprattutto per la penna di Maurizio De Rosa, filologo e studioso di letteratura greca da oltre un decennio residente ad Atene, “Bella come i greci” , un’accurata storia degli ultimi 135 di letteratura greca. Dal 1880 al 2015.

Così ci propone il sottotitolo dell’opera che già in questo suo sguardo attento nella contemporaneità assolve, per prima, al compito di indagare su un mondo, quello letterario greco, che nonostante gli anni difficili che sta attraversando il paese, si manifesta con una produzione vivace, attiva, capace di portare al mondo culturale europeo un contributo forse anche inatteso che De Rosa ha saputo cogliere e portare all’attenzione che merita. De Rosa ha scelto di seguire un percorso originale, sviluppando il suo lavoro - questa una delle più accattivanti chiavi di lettura -  non attraverso i classici percorsi storici e delle correnti letterarie, quanto indagando su ogni singolo autore e sulle sue opere tanto da fornirci un complesso mosaico dal quale emergono, oltre i vincoli di una qualsivoglia catalogazione, i tratti complessi di un mondo letterario in continuo divenire.

E non è questa la sola - gradita - sorpresa del volume. Una attenta disamina anche alla letteratura greca cipriota non solo giunge a completamento ma anzi, mostra come la stessa sia sempre di più elemento autonomo che promette, sua sponte, una sempre più palpabile e specifica identità. In ultimo, da buon filologo, De Rosa pone l’attenzione sulle condizioni linguistiche, sottolineando nella sua prefazione che oggi: “per la prima volta dopo quasi due millenni, i letterati greci hanno finalmente a loro disposizione una lingua unitaria da plasmare e coltivare in piena libertà”.

Mercoledi 24 giugno, presso la Società Geografica Nazionale, alla presenza degli Ambasciatori di Grecia e Cipro, del prof. Mario Vitti, Presidente dell’Associazione Nazionale di Studi Neogreci e decano della neogrecistica italiana, del prof. Cristiano Luciani, direttore della collana “Studi e Testi” di Letteratura e civiltà della Grecia moderna, e con l’intervento del direttore editoriale di Universitalia Manuel Onorati, del direttore dell’ufficio stampa dell’Ambasciata di Cipro Dimitris Deliolanes e della poetessa e critico letterario Isabella Vincentini.

Il 6 ottobre 1919 Luigi Einaudi viene nominato senatore, scelto nella categoria 18 dello Statuto Albertino: “I membri della Regia Accademia delle Scienze, dopo sette anni di nomina”. Il 9 dicembre presta giuramento, iniziando così un’attività parlamentare che si presenta densa negli ultimi anni dell’età liberale. Dopo il consolidamento del regime, evita di solito la presenza stessa in palazzo Madama: in ogni caso, non prende più la parola. L’impegno parlamentare prosegue poi, molto attivo, nella Consulta nazionale e nell’Assemblea costituente. Chiuso il periodo quirinalizio, torna a fare parte del Senato: si registra ancora qualche suo intervento.

Le edizioni di Libro Aperto (Via Ricci 29, 48121 Ravenna; www.libroaperto.it) avviano, con un primo tomo, la pubblicazione di discorsi einaudiani. Il titolo di Libertà economiche raggruppa gli interventi più strettamente qualificabili come incentrati sull’economia, pur essendo sempre arduo il dividere politica ed economia nella riflessione einaudiana, e ancor più nel caso di discorsi tenuti in dibattiti di un organo legislativo. Il primo tomo (pp. 264, con ill.) è dedicato a discorsi pronunciati nel Senato del Regno. La cura è di Aldo G. Ricci e Marco Bertoncini, mentre Roberto Einaudi e Corrado Sforza Fogliani stendono due postfazioni. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo alcuni estratti dello scritto di Sforza Fogliani.

 

La lettura dei discorsi parlamentari di Luigi Einaudi presenta una costante: l’impronta schiettamente didattica. Non intendo asserire che l’oratore svolga lezioni universitarie, posto che – specie nei discorsi più schiettamente di natura politica o politico-istituzionale – si avvertono i riferimenti politici, l’interpretazione politica, la stessa vis polemica politicamente connotata. Intendo invece riferirmi alla peculiare natura del suo eloquio, che possiede il rigore logico e argomentativo che dovrebbe sempre connotare una proficua lezione accademica.

Einaudi vuol persuadere l’assemblea o, almeno, cercare di convincere una parte dei suoi colleghi. I suoi discorsi non sono mai concepiti come testi da lasciare agli atti, quali oggi siamo avvezzi nel Parlamento, sovente ridotto a un mero “leggimento”, in cui gli oratori si susseguono leggendo discorsi non sempre stesi da chi li pronuncia, senza curarsi né di rifarsi a chi li ha preceduti né di rimanere a sentire chi si alzerà dopo. Einaudi ragiona, argomenta, chiarisce, polemizza. Non parla tanto per rispettare un obbligo di presenza politica: fra l’altro, al Senato del Regno non esistevano gruppi parlamentari e quindi non vigeva alcuna disciplina di partito. Parla perché avverte l’urgenza del problema trattato e propone soluzioni, critiche, riflessioni.

La sua natura di professore di alta scuola si avverte in alcuni elementi che sempre qualificano l’intera sua esistenza. È uno storico: di qui, la citazione di episodi, eventi, questioni, personaggi, anche dei secoli andati. Nei suoi discorsi, come nei suoi articoli e, ovviamente ancor più, nei suoi saggi, ricerche, libri, egli trae ammaestramento dalla lezione della storia, nel bene e nel male, cosciente che certamente i fatti non si ripropongono giammai identici, ma che difficilmente essi sono totalmente nuovi, senza alcuna analogia con il passato.

Einaudi è altrettanto attento al presente. Quindi, si documenta su libri italiani e stranieri, giornali nostri ed esteri, studi che appaiono di qua e di là delle Alpi. Tiene rapporti con specialisti, italiani e no. Ricchissimi appaiono i riferimenti concreti al presente, non soltanto limitandosi alla Penisola. Da buon docente, esemplifica.

Altra dote dell’Einaudi insegnante (esemplare nelle sue apprezzatissime lezioni di scienza delle finanze) è la chiarezza espositiva. Si consideri come sono esemplarmente cristallini questi discorsi, privi di sbavature, di oscurità, d’incertezze. Einaudi è l’esatto opposto dei macroeconomisti oggi in voga, avvezzi alla teoria pura, priva di fondamenti nel reale e ricca di termini astrusi (che al paragone rendono quasi libri per l’infanzia la Fenomenologia dello Spirito di Hegel o Essere e tempo di Heidegger). Il suo linguaggio è semplice, lontano da bizantinismi, alessandrinismi, tecnicismi. Ha il grande merito di partire dalla realtà, dal fatto anche minore (il piccolo mercato di una città di provincia), per assurgere a considerazioni più vaste: egli sa davvero inverare ogni minor aspetto, traguardandolo in un’aura superiore.

Anche per questo possiamo rileggere tanti brani dei suoi discorsi astraendo dalle contingenze storiche. Molte riflessioni serbano attualità, specie quando si tratti di pensieri che potremmo dire di filosofia economica. Basta guardare ai brani in cui si occupa, tanto per citare qua e là, di speculazione o di aliquote, di controlli pubblici o di libertà economica, di svalutazione o di patrimoni, di beni rurali o d’immobili urbani, d’imposte o di circolazione della moneta. Sempre – ecco un altro merito del professor Einaudi – egli svolge le sue considerazioni sulla base non di fumose teoresi, bensì di un sano realismo, che i suoi conterranei hanno l’orgoglio di definire tutto piemontese.

Corrado Sforza Fogliani

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