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Mercoledì, 22 Gennaio 2025

Monsignor Coutts

 

Organizzato dalla benemerita fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre si è svolta a Roma, presso l'aula Alvaro del Portillo della Pontificia Università della Santa Croce (PUSC), una conferenza internazionale sul delicato tema della libertà religiosa in Pakistan, il Paese forse più difficile in cui vivere oggi per i cristiani. Qui infatti, nonostante ripetuti appelli, é ancora in carcere in attesa di giudizio la povera Asia Bibi, la coraggiosa mamma di cinque figli che ha osato professare pubblicamente la sua fede in Gesù Cristo e non nell'Islam fondamentalista che domina il Paese, qui - soprattutto - non più tardi di due anni fa sono stati uccisi uomini di buona volontà come Salman Taseer (1946-2011) e Shahbaz Bhatti (1968-2011) che si battevano per la difesa delle minoranze religiose vessate e in particolare per quella cristiana. Il primo era un musulmano moderato, il secondo un cattolico esemplare, ma per i terroristi non c'era alcuna differenza: entrambi avevano la 'colpa' di sostenere la causa sbagliata. La giornata organizzata dall'ACS aveva quindi l'obiettivo di far conoscere questa vera e propria via crucis silenziosa del popolo cattolico pakistano che da anni vive sofferenze indicibili, sconosciute ai più, soprattutto in Occidente. Dopo il saluto iniziale del professor Norberto Gonzalez Gaitano a nome del Rettore dell'Università ospitante, è intervenuto il direttore della sezione italiana di ACS, Massimo Ilardo, che ha ricordato, citando un recente messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di Benedetto XVI come, davvero – guardando alla situazione attuale nel mondo – oggi più che mai “la libertà religiosa sia la via per la pace”. Se essa (intesa non solamente come libertà di culto, naturalmente, ma anche come libertà di anunciare la fede in pubblico e di trasmetterla nei luoghi deputati dell'educazione, per esempio, a scuola) viene rispettata, allora solitamente anche la vita sociale nel suo insieme – e la tutela dei diritti umani, complessivamente considerati – ne trarrà giovamento, viceversa è facile immaginare che l'assenza di quella libertà non sia altro che la spia di una situazione di un degrado pubblico molto più esteso. E' in questo senso, d'altronde, che lo stesso Papa Giovanni Paolo II la intendeva: come la “cartina di tornasole di ogni altro diritto”, una vera e propria bussola di orientamento per monitorare lo stato di salute di una società. Il Pakistan oggi è certamente il caso più allarmante, ma – ha specificato Ilardo – non è l'unico: Cina, Corea del Nord, Iraq, Nigeria e Repubblica Centrafricana, ad esempio, sono tutti Stati in cui essere cristiani vuol dire pagare la testimonianza duramente sulla propria pelle, a volte persino a costo della vita.

Ha preso quindi la parola di Roberto Fontolan, giornalista e direttore del Centro Internazionale “Comunione e Liberazione”, che ha presentato brevemente quel “cuore dolente della Cristianità” dei nostri giorni che è la Repubblica del Pakistan ed ha successivamente introdotto l'ospite più atteso: l'arcivescovo di Karachi, nonché presidente della Conferenza episcopale locale, monsignor Joseph Coutts. Il presule ha esordito spiegando le premesse storiche della fondazione (nel 1947) del Pakistan come Stato indipendente e sottolineando che l'idea del padre fondatore, Mohammad Ali Jinnah (1876-1948), un musulmano moderato, era quella di dare vita a uno Stato moderno e democratico. Di lui oggi si ricorda soprattutto la celebre frase che bene ne esprime l'idea interreligiosa di partenza: “Siete liberi di andare alla moschea, al tempio o in qualsiasi altro luogo di culto”. Si tratta peraltro di un'acquisizione poi integrata anche nella Costituzione del Paese e tuttora vigente, per quel che vale. I problemi (e la relativa radicalizazione del Paese verso un estremismo islamico intollerante) sono venuti più tradi, più o meno nella seconda metà degli anni Settanta, quando con un colpo di Stato sale al potere un generale, Muhammad Zia ul-Haq (1924-1988), che governerà per circa undici anni (dal 1977 al 1988) imprimendo al Paese una svolta islamista e dai contorni fanatici. Sarà lui che farà infatti approvare, nel 1986, la cosiddetta 'legge sulla blasfemia' in base alla quale ogni commento, o espressione, o atto ritenuto offensivo nei confronti del Corano o di Maometto può essere perseguito a livello penale. Di fatto, con il tempo la norma è diventata un mezzo di repressione verso i cristiani per il solo fatto di essere cristiani e di rifiutarsi di apostatare, dando parimenti origine a periodici attacchi di chiese, scuole e villaggi (tra cui quello celebre di Gojra, avvenuto nella regione del Punjab nel 2009, filmato in diretta e diffuso poi via internet). In ogni caso, l'arcivescovo ha riferito che dall'approvazione della legge ad oggi sono più di 1000 i casi di 'presunta blasfemia' denunciati, nella stragrande maggioranza, in modo del tutto pretestuoso. Beninteso, Coutts ha spiegato che le “discriminazioni contro i non musulmani sono sempre esistite” e che spesso sono state tollerate apertamente dagli stessi poteri pubblici. Oggi, però, la situazione è aggravata – oltre che dall'abuso esponenziale della legge sulla blasfemia – anche dall'opera 'educativa' della scuola che spesso rafforza l'idea che i cristiani valgano di meno come persone e, in ogni caso, che non siano dei 'veri pakistani': è l'idea della vecchia 'dhimmitudine' dei secoli antichi per cui il cristiano doveva comprarsi la protezione del musulmano pagando una tassa apposita se voleva vivere in pace in un Paese a maggioranza islamica.

Un altro problema ancora è l'identificazione indiscriminata che viene fatta tout-court tra contingenti militari occidentali occupanti Paesi dell'area (vedi l'Afghanistan) e il Cristianesimo, con il risultato di ritenere il cristiano in quanto tale un corpo estraneo alla cultura locale anche quando in realtà è vero il contrario. Infine, non va dimenticato il crescente influsso che l'islamismo wahhabita (proveniente dall'Arabia Saudita) esercita (versando ingenti capitali) sulla cultura e l'economia pakistana, tentando di dare vita una versione dell'Islam ancora più settaria e fanatica di quella attualmente presente nell'area. Questo influsso – ha concluso Coutts – lo si vede soprattutto nell'ultimo attentato a Peshawar dove un kamikaze si è fatto esplodere provocando la morte di decine di persone. La cultura del kamikaze, infatti, è di per sé storicamente estranea alla mentalità pakistana. Probabilmente, si tratta appunto di cellule fondamentaliste recentemente inflitratesi nel Paese che reclutano giovani e giovanissimi soprattutto fra i ceti più poveri e quindi manipolabili intellettualmente. La soluzione, ancora una volta, oltre che nella forza della preghiera, per i cristiani va ricercata che nel dialogo e nella cooperazione sociale con i tanti musulmani moderati che pure vivono nel Paese e non vogliono l'instaurazione di uno Stato di terrore.

Manifestazione pro cristiani

 

Al termine del suo intervento – applauditissimo – ha quindi preso la parola monsignor José Tomàs Martìn de Agar, docente nella facoltà di diritto canonico della Pontificia Università della Santa Croce che ha concluso la giornata richiamando brevemente i fondamenti della libertà religiosa nel Magistero della Chiesa soffermandosi soprattutto sugli sforzi di Papa Giovanni Paolo II (il Papa per eccellenza della libertà religiosa) ed evidenziando poi – da ultimo con gli insegnamenti di Benedetto XVI – che “i diritti non possono essere distaccati dalla loro dimensione etica e razionale”. Senza il rispetto della natura umana della persona e le verità naturali di ragione che preesistono al confronto religioso e politico, infatti, risulterà piuttosto difficile, se non impossibile, parlare di passi concreti verso la riconciliazione e la pace. Quest'ultima, come ribadisce la stessa Dottrina sociale delal Chiesa, ha insistito de Agar, trova il suo fondamento ultimo nella verità, che, anche in tempi di relativismo diffuso, mantiene inalterate tutte le sue prerogative e tutti i suoi diritti.

osama-bin-laden

 

Il professore Massimo Introvigne nell’agile volumetto, “Islam. Che cosa sta succedendo?”, pubblicato da Sugarcoedizioni, dopo aver descritto l’influenza di facebook sulle rivolte delle cosiddette “Primavere Arabe”, si occupa delle innumerevole rivolte scoppiate apparentemente senza nessuna programmazione tra il 2010 e il 2011. A partire dalla Tunisia di Ben Ali e dall’Egitto di Mubarak, la guerra in Libia di Gheddafi, in poche settimane sono caduti regimi dittatoriali che sembravano saldissimi. Dopo queste rivolte, il professore si chiede: “Chi vince?”

Una risposta non è facile anche perché, sociologi di lungo corso del mondo arabo affermano di non essere in grado, di tracciare una mappa, per esempio, delle forze che sono insorte contro il colonnello Gheddafi. La tentazione di questi sociologi è di trasferire al mondo arabo le categorie socio-politiche del mondo occidentale. Invece secondo Introvigne, qui occorre guardare le realtà etniche e tribali, soprattutto per quanto riguarda la Libia.

Certamente in questi Paesi, governati da regimi nazionalisti laici, da dittatori, ormai a “fine corsa”, che magari un tempo, soprattutto, nel clima di “Guerra fredda”, venivano tollerati e sostenuti dai governi occidentali. Oggi si è scelto la via di “pilotare la caduta” di questi dittatori, “ma pilotare la caduta – scrive Introvigne – significa sapere esattamente chi, come, quando e dove mettere al loro posto”. Molti di quelli che hanno abbattuto Gheddafi, cioè quelli del “Tutto Tranne Gheddafi” (che ricorda un altro “Tutto Tranne Berlusconi”), non lo sanno. Piuttosto, “si limitano a esprimere una fiducia quasi messianica nelle ‘magnifiche sorti e progressive’ che dovrebbero conseguire necessariamente a ogni rovesciamento di un tiranno. Lo pensava anche Carter. Dovette tornare a coltivare noccioline”.

Pertanto a questo proposito, è interessante riflettere sul dopo-Gheddafi. Sicuramente il colonnello libico era “un vecchio tiranno con le mani sporche di sangue”. Ma i fatti hanno dimostrato che non basta essere contro Gheddafi, o di un’altra delle tribù che si contendono il controllo della Libia, per avere diritto alla patente di ‘moderati’ o ‘democratico’, e che anche alcuni dei suoi oppositori hanno un curriculum in materia di diritti umani che non dovrebbe lasciare tranquillo nessuno”. Tra l’altro per Introvigne, non si può neanche credere alla favola della guerra “umanitaria”. “Ci sarebbero tanti interventi umanitari da fare, da Cuba all’Iran e alla Corea del Nord”.

Nei capitoli finali il professore Introvigne si occupa della morte di Osama bin Laden, il 2 maggio 2011, sostenendo che la fine del miliardario saudita, capo di Al-Qa’ida, non significa che il terrorismo è finito, anzi continua e si fa sentire eccome, basta vedere i continui attentati e massacri di questi giorni. Certo l’organizzazione terroristica avrà subito qualche mutamento dopo l’uccisione del suo capo carismatico, sicuramente, è un’importante vittoria nella lotta contro il terrorismo, che probabilmente renderà difficili, ma non impossibili, attentati in grande stile, come quelli dell’11 settembre a New York.

Tuttavia però occorre sempre tenere conto che Al-Qa’ida è un network, una specie di coordinamento dell’attività di altri gruppi terroristici. Secondo Introvigne, “l’organizzazione al centro del network creato da Osama bin Laden operava piuttosto come un editore. Questi può certamente avere le sue idee su quali libri potrebbero avere successo, e commissionare specifici manoscritti. Ma, nella maggior parte dei casi, riceverà proposte da potenziali autori, le valuterà e le incoraggerà e finanzierà nel caso gli sembrino promettenti”. Pertanto a Bin Laden, l”editore”, si avvicinavano gruppi radicali che avevano già un loro progetto di azione terroristica, lui li ascoltava, accettava o rifiutava il progetto, in caso affermativo dava suggerimenti, invitava, i terroristi ad addestrarsi nei suoi campi e li riforniva di armi. Comunque sia anche se la “testa”è stata decapitata, le “gambe” possono continuare a scalciare, secondo il professore torinese.

Esempio concreto sono la guerra in Siria, e i recenti atti terroristici, in particolare quello presso il centro commerciale Westgate mail di Nairobi. A questo proposito c’è un articolo significativo su La Stampa del 22 settembre scorso di Domenico Quirico che vede una guerra incombente contro l’Occidente, da parte dell’Islam radicale. “La Spagna - scrive Quirico – come mi hanno raccontato gli uomini di Al-Qa’ida di cui sono stato prigioniero, è ‘terra nostra e la riprenderemo’. All’Occidente, spaurito e volutamente distratto e saldamente deciso a seguire il mito di un Islam moderato, educato che esiste solo nei libri (e nelle bugie), disperatamente aggrappato al calendariuccio delle nostre nobili comodità, sfugge la semplicità brutale del problema”. L’islam fanatico ormai è un problema militare e a Nairobi, secondo il giornalista de La Stampa, ci sono i primi morti della guerra che verrà” 

Copertina del libro

 

Nella storia ormai più che bi-millenaria della Chiesa resta un episodio largamente avvolto dal mistero: come mai un Ordine cavallaresco di antica fama, anzi il più glorioso di tutti, quello dei Templari sparì dalla Cristianità in breve tempo? Perchè fu soppresso? Che fine fecero quei valorosi cavalieri? Dopo diversi tra film, documentari e romanzi di grande successo (ma, per la verità, complessivamente di ben scarsa attendiblità storica) arriva ora a cimentarsi con la scottante materia lo studioso Mario dal Bello in un'opera breve ma densa e narrativamente entusiasmante, a metà tra il saggio storico e il racconto letterario, che fa stato anche delle ultime documentazioni raccolte dall'Archivio Segreto Vaticano (cfr. M. Dal Bello, Gli ultimi giorni dei Templari, Città Nuova, Roma 2013, pp. 150, Euro 12,00). La vicenda inizia a Troyes, nella Francia settentrionale, nell'inverno del 1129, quando San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) accoglie nella locale cattedrale un gruppo di pellegrini provenienti dalla Terrasanta, dove hanno vissuto poveramente e castamente, al modo dei monaci – ma senza essere preti – presso i resti del Tempio di Salomone (da cui il nome) nella Città Santa. Vogliono proteggere il Santo Sepolcro e le comunità cristiane che vivono nei luoghi santi, sempre più vessate dalle invasioni islamiche: per questo chiedono la benedizione del Papa ma anche, una volta confermati nell'opportunità della loro missione (che svolgono già dai primi decenni del XI secolo), beni e uomini disposti a soffrire per Cristo, nelle Sue terre. Nascerà così l'Ordine dei Cavalieri del Tempio che per circa centocinquant'anni, praticamente fino al 1291, di fatto, proteggerà - compiendo atti di straordinario eroismo - i cammini del pellegrinaggio cristiano proveniente dall'Europa verso Gerusalemme. I problemi inizieranno quando il re di Francia Filippo IV (1268-1314), detto poi 'il Bello' per il suo aspetto fisico, già noto per il celebre 'schiaffo di Anagni' contro Papa Bonifacio VIII (1230-1303) e il suo esasperato regalismo, fortemente indebitato, riesce – con una sorta di ricatto – a farsi prestare dai Templari stessi una somma ingente di denaro. L'idea, oltre che risanare in un tempo praticamente record le casse vuote del suo regno, é quella d'indebolire così un ordine – strategicamente formidabile - che non rispondeva a nessun potere statale, né religioso, che fosse facilmente manipolabile (i Templari obbedivano infatti direttamente al Pontefice) e la cui influenza, morale e spirituale, oltre che economica, iniziava a diffondersi rapidamente in tutta la Cristianità d'Occidente. Dapprima il re tentò di fare pressioni sul Papa (Clemente V (1264-1314), che allora risiedeva in Francia, é infatti il periodo in cui inizia la 'cattività avignonese' del Papato) perché sciogliesse i Templari, li unisse agli Ospedalieri (un altro ordine cavalleresco dalla giurisdizione pure sovranazionale, oggi più noti come 'Cavalieri di Malta') e li ponesse sotto la sua protezione in modo da governarli direttamente e poter avere mano libera anche sul resto del loro tesoro.

Quindi, non riuscendo nel suo intento, istigato dal suo cancelliere di corte, il giurista Guillaume de Nogaret ((1260-1313) uno dei precursori, con i suoi scritti, delle forme più moderne e radicali di giuridisdizionalismo), peraltro già scomunicato in quanto artefice della spedizione di Anagni contro Bonifacio VIII, ideò un vero e proprio complotto con una serie di accuse gravissime contro l'Ordine per far esplodere pubblicamente il caso: eresia, idolatria, stregoneria, sodomia. In poco tempo, così, tutti i cavalieri residenti in Francia (dove si trovava anche la Casa madre dell'Ordine), oltre cinquecento, furono arrestati. Nel riportare le cronache degli storici Dal Bello ricostruisce atmosfere e ansie di quei giorni riuscendo a far comprendere a pieno la complicata questione che metteva uno di fronte all'altro cristiani contro altri cristiani: da una parte il re - se non avesse avuto partita vinta - minacciava uno scisma gallicano e una 'vendetta' post mortem contro Bonifacio VIII, dall'altra il Papa non poteva certo abbandonare al suo destino un Ordine fedelissimo e benemerito come quello dei Templari. Il conflitto fu quindi pressoché totale: politico, diplomatico, ecclesiastico e religioso. Filippo IV, alla fine, riuscì nonostante tutto a costruire un'abile rete di spie, delatori e informatori, isolando sia il Papa che il Gran Maestro dell'Ordine, Jacques de Molay (1243-1324), che si rivelerà decisiva. Il processo seguente contro i Templari che ebbe luogo nel 1307, all'insaputa del Papa stesso, fu una tragica farsa: oltre alle accuse inventate, metodi brutali, finti testimoni e un uso reiterato della tortura per estorcere confessioni il più possibile agghiaccianti. Quando poi, informato dei fatti, Papa Clemente cercò di avocare a sé l'intera querelle, Filippo rispose convocando gli Stati Generali che si espressero per la soppressione dell'Ordine e l'apertura di un processo per eresia contro il defunto Bonifacio VIII. Il Papa – già provato nelle condizioni fisiche e stretto tra due fuochi - cercò a lungo di salvare i cavalieri, ma su pressioni di cardinali vicini al re francese alla fine soppresse temporaneamente l'Ordine per via amministrativa ribadendo comunque che non si trattava affatto di una condanna dottrinale. L'eterodossia dei cavalieri non era mai stata provata. In seguito a questo episodio, però, il re francese ne approfittò per sottrarre il tesoro dell'Ordine e defraudare numerose tra proprietà terriere e fortezze. Per la cronaca, nulla di tutto ciò venne mai restituito.

L'epilogo della drammatica vicenda arrivò infine nel marzo 1314 con la condanna al rogo, organizzata pure in gran segreto dal re, a Parigi, nell'ile de la Cité, sulla Senna, dello stesso Jacques de Molay e Geoffrey de Charney (1251-1314) che dell'Ordine era il precettore per la Normandia. Tuttavia, per uno strano destino – qualcuno per lungo tempo parlò di una vera e propria maledizione lanciata sul patibolo dai Crociati per un atto così folle e criminale – anche gli altri protagonisti della vicenda trovarono tutti la morte di lì a poco, sempre nel 1314. Una scia luttuosa senza precedenti che si estenderà 'inspiegabilmente' anche ai discendenti di re Filippo: “Il figlio Luigi, un carattere aspro e litigioso, regna solo due anni quando muore lasciando incinta la moglie Clemenza d'Ungheria. Gli nascerà un bambino, Giovanni, che vivrà solo cinque mesi. E' nata la leggenda, la maledizione dei Templari che colpirà anche l'ultimo dei successori di re Filippo. Il boia, prima di giustiziare Luigi XVI, gli dirà: «Questa é la vendetta del Gran Maestro»” (p. 122).

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Nuno Alvares Pereira non è un calciatore, ma un santo molto particolare, vissuto nel tardo medioevo portoghese, “senza di lui non ci sarebbe mai stato il Portogallo”, disse monsignor Vitalino Dantas O.C.D. Riprendo la straordinaria storia di questo santo dal libro di Massimo Introvigne, “Tu sei Pietro. Benedetto XVI contro la dittatura del relativismo”, pubblicato da Sugarcoedizioni (2011, Milano, pp.316, e.18,50).

La canonizzazione del santo portoghese ha una lunga storia, dopo la sua morte nel 1438, il re Edoardo I aveva chiesto la sua canonizzazione al papa di allora. “Poiché san Nuno - scrive Introvigne - aveva trascorso gran parte della sua vita come militare e generale combattendo contro la Spagna per l’indipendenza del Portogallo, il veto spagnolo impedisce che si dia corso alla richiesta del re portoghese”. La Spagna era allora una grande potenza cattolica e non si poteva non tenere conto, ma anche dopo dal Portogallo giungono a Roma ripetute richieste di beatificazione e canonizzazione, soltanto nel 1918, Benedetto XV, lo iscrive al culto dei beati. Ma i portoghesi puntano santificazione di san Nuno, così nel 1940 il primo ministro Antonio de Oliveira Salazar, insiste per la sua canonizzazione presso il venerabile Pio XII, ma il Papa rifiuta, sia perché c’era in atto la guerra, ma anche per evitare uno scontro con la Spagna, che era appena uscita dalla guerra civile.

Bisogna aspettare il 2004, quando il beato Giovanni Paolo II riapre il processo canonico. Riesaminata la vita del beato Nuno, viene approvato dalla commissione medica un miracolo che ha ottenuto una signora e così Benedetto XVI può procedere alla canonizzazione, 571 anni dopo la prima richiesta. Alle polemiche politico-diplomatiche da parte della Spagna, il generale portoghese gli ha inflitto una delle più gravi sconfitte militari della sua storia, bisogna aggiungere quelle dentro al mondo cattolico.

Intellettuali “progressisti” e almeno un vescovo, “hanno criticato la canonizzazione affermando che san Nuno fu soprattutto un guerriero, e chi uccide il prossimo non merita il titolo di santo”. Per Introvigne queste posizioni ignorano la vera natura della santità cattolica, peraltro, altri credenti, per evitare di essere accusati di seguire un santo guerrafondaio, insistono esclusivamente sugli ultimi nove anni della vita di san Nuno, nei quali il santo - dopo aver fatto costruire a sue spese il Convento do Carmo a Lisbona - vi si ritira come frate carmelitano.

Questi credenti, praticamente, interpretano questi nove anni di convento quasi come una penitenza per la passata vita militare, come se san Nuno avrebbe dovuto chiedere perdono a Dio e agli uomini. Tuttavia“le parole di Benedetto XVI nella solenne cerimonia di canonizzazione hanno fatto giustizia di queste interpretazioni e pregiudizi”. Infatti scrive Introvigne, “il Papa al contrario ha esaltato la figura di cavaliere cristiano di san Nuno, impegnato nella ‘militia Christi’, cioè al servizio di testimonianza che ogni cristiano è chiamato a dare al mondo”. Pertanto, “caratteristiche del santo sono un’intensa vita di orazione e l’assoluta fiducia nell’aiuto divino. Benché fosse un ottimo militare e un grande capo, non considerò le doti personali preminenti rispetto all’azione suprema che viene da Dio. San Nuno si sforzava di non porre ostacoli all’azione di Dio nella sua vita, imitando Nostra Signora di cui era devotissimo e cui attribuiva pubblicamente le sue vittorie”. Infine il generale Nuno Alvares Pereira diventa, secondo Benedetto XVI uno “strumento di un disegno superiore”, la fondazione della nazione portoghese indipendente dalla Spagna, che poi contribuirà a portare nel mondo il Vangelo fino agli estremi confini della Terra. Così grazie a san Nuno, il Portogallo diventa una nazione missionaria, estendendosi “attraverso gli Oceani – non senza un disegno particolare di Dio – aprendo nuove rotte che avrebbero propiziato la diffusione del Vangelo di Cristo fino ai confini della Terra”.

San Nuno dagli storici militari viene considerato uno dei più grandi generali europei, lo ha dimostrato in tutte le battaglie a cui ha partecipato, in particolare in quella di Aljubarrota, il 14 agosto 1385, in pratica,“seimila portoghesi sconfiggono trentamila spagnoli grazie a una strategia che prevede che la cavalleria pesante castigliana sia attirata su un terreno costellato di palizzate appositamente erette per rendere difficili le manovre dei cavalli, i quali sono abbattuti da fanti o da cavalieri portoghesi capaci di smontare e risalire rapidamente. Così scrive Introvigne,“i cavalieri spagnoli disarcionati e colti di sorpresa sono uccisi in gran numero”, e tra l’altro, “san Nuno combatte personalmente in prima fila”. Sia questa battaglia che quella di Valverde, pongono fine al sogno spagnolo di conquistare il Portogallo.

Dopo essere rimasto vedovo, il generale si ritira a vita privata e nel 1422 entra nel Convento do carmo, dove pronuncia i voti e sceglie con umiltà di diventare “semi-fratello”, rifiutando tutte le cariche e distinzioni che gli sono offerte. “In convento si segnala per la vita poverissima – lui che era stato considerato l’uomo più ricco del Portogallo – e per la grande carità: ma re Giovanni I viene spesso a chiedergli consiglio”.

Alla sua morte perfino la regina di Spagna Isabella I la Cattolica (1474-1504), che lo considera un santo, fa invocare nelle Messe celebrate a corte quello che era stato come generale un fiero avversario del suo Paese.

“La canonizzazione di san Nuno, ha affermato Benedetto XVI, vuole mostrare alla Chiesa come ‘la vita di fede e di preghiera è presente anche in contesti apparentemente poco favorevoli alla stessa, ed è la prova che in qualunque situazione, anche in quelle di carattere militare e di guerra, è possibile mettere in atto e realizzare i valori e i principi della vita cristiana, soprattutto se questa è posta al servizio del bene comune e della gloria di Dio’”.

Pertanto, scrive Introvigne, “se dunque vi è stato chi ha cercato di sminuire la lunga fase ‘ militare e di guerra’ della vita di san Nuno – quasi che solo ‘il tramonto della sua vita’ in convento ne manifestasse la santità – Benedetto XVI al contrario dà rilievo alla ‘figura esemplare’ del Connestabile anzitutto come cavaliere, miles Christi”.

Se la santità non serve per “premiare” qualcuno, come scrive Alessandro Fadda, ma “quanto piuttosto per indicare agli uomini modelli vicini e possibili di fedeltà al Vangelo”, sicuramente san Nuno è uno di questi.

l'eredità di benedetto xvi. m.introvigne

 

Ci sono momenti dell’anno in cui spontaneamente emergono riflessioni “ultime”, “fondamentali”, in merito alla propria vita, sul modo di vivere e di pensare, ma anche sul proprio agire. In particolare mi riferisco alla mia attività di “dilettante” scrittore, giornalista freelance, collaboratore di siti e giornali online. Allora mi pongo delle domande: perché lo faccio? Chi me lo fa fare? Visto che da queste collaborazioni non guadagno un centesimo di euro, anzi a volte devo anche stare “in guardia”, evitando di affrontare certi argomenti rischiosi che possono procurarmi possibili denunce.

Infine mi chiedo: dove trovo la forza di continuare a scrivere, di commentare, di comunicare? Essendo militante cattolico, la trovo nel Magistero della Chiesa, dei Papi, in particolare in quelli che ho conosciuto meglio, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e ora Francesco in sintonia con i predecessori. Ma da qualche tempo trovo la forza nel vedere i miei interventi pubblicati nella grande rete di facebook, qui constato che a volte siamo in tanti a condividere non solo stessa fede, ma anche gli stessi ideali, gli stessi studi, le stesse ricerche e anche la stessa passione politica, quella vera, non quella attuale.

Secondo Introvigne, nel social network si è creata una rete di amici, dove si ricevono e si ridiffondono note, che “costituiscono una scuola di ascolto del Magistero del Papa”.

E allora penso che ha ragione Benedetto XVI quando spiega a che cosa serve la GMG, in questo periodo di crisi per l’Europa e per il mondo. “Le GMG danno visibilità alla fede, visibilità alla presenza di Dio nel mondo e creano il coraggio di essere credenti. Spesso i credenti si sentono isolati in questo mondo, quasi perduti. Qui vedono che non sono soli, che c’è una grande rete di fede, una grande comunità di credenti nel mondo, che è bello vivere in questa amicizia universale. E così, mi sembra, nascono amicizie, amicizie oltre i confini delle diverse culture, dei diversi Paesi”. Certo la GMG da sola non basta, il Papa lo ricorda, come non basta face book.

Ma la forza per continuare a scrivere e quindi pubblicare i propri interventi deriva anche dalla lettura dei libri, soprattutto di certi libri come quello che sto leggendo in queste settimane, “L’eredità di Benedetto XVI. Quello che Papa Ratzinger lascia al suo successore FRANCESCO”, di Massimo Introvigne, Sugarcoedizioni (2013 Milano, pp 423, e.25)

Il libro di Introvigne è una fitta sintesi dei discorsi, delle udienze, delle encicliche, di papa Benedetto XVI, tra l’altro il testo è la naturale continuazione di “Tu sei Pietro. Benedetto XVI contro la dittatura del relativismo, pubblicato precedentemente nel 2011, sempre da Sugarcoedizioni. In questo volume, la selezione dei documenti su Papa Ratzinger di Introvigne, emerge un disegno complessivo “di contrasto alla “dittatura del relativismo”, che è il tentativo subdolo – ma spesso anche violento – d’imporre la dottrina secondo cui la verità non esiste: ‘ciascuno dice la sua’, e tutte le opinioni hanno stesso valore”. Qui Benedetto XVI appare, come “il primo custode non solo della fede ma anche della ragione minacciata dal relativismo”

Il professore Introvigne da qualche anno oltre a tante altre attività riesce a leggere e a sintetizzare per noi il ricco e intenso Magistero di Benedetto XVI e ora anche quello di papa Francesco, che si può leggere sul giornale online, Lanuovabussolaquotidiana.it. Peraltro, i due testi pubblicati dalla casa editrice milanese, rappresentano due ottime “guide” ragionate del grande patrimonio magisteriale di papa Ratzinger, il professore torinese, “offre qui un vero e proprio corso sul Magistero di Benedetto XVI”, vi assicuro che leggendoli vi aiuteranno molto a far diventare più adulta la vostra fede, perché vi danno veramente quel giusto alimento per non cadere nello scoraggiamento e soprattutto in quella crisi di identità che spesso tormenta certi ambienti cattolici.

Facendo nostro il monito di papa Benedetto XVI, possiamo scrivere che l’antidoto a questa grande crisi, che lambisce anche il sacerdozio cattolico, è di proporre il ritorno alla fede, e proprio nell’anno della fede, il papa ci ricorda che “non si tratta di un’emozione, ma di un preciso contenuto di dottrina”. Ciò significa letture e studio dei testi, possibilmente integrale e non parziale o addirittura mediate dai giornali, delle encicliche del Papa.

Bisogna ringraziare il professore Introvigne per questa lettura guidata del Magistero di Benedetto XVI, un corpus paragonabile nella storia della Chiesa solo a quello di Leone XIII, una vera e propria miniera di dottrina, di storia, di informazioni, che aiutano a comprendere ora il Magistero di papa Francesco. Infatti come viene scritto in fondo alla copertina di “Tu sei Pietro”: “Ogni testo va letto alla luce degli interventi precedenti dello stesso e di altri Pontefici, e diventa a sua volta criterio d’interpretazione dei testi successivi”.

Introvigne che è vice reggente nazionale di Alleanza Cattolica, ci invita allo studio del Magistero pontifico in modo sistematico, come merita. E questo si potrà fare soprattutto con il libro cartaceo, perché internet non sempre aiuta.

Nei prossimi interventi cercherò di approfondire qualche tema del ricco magistero di papa Ratzinger.

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