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“Arcipelago Gulag di Aleksandr Solgenitsin, I racconti della Kolyma di Varlam Salamov, Gulag di Anne Applebaum, Koba il terribile di Martin Amis, Il Grande Terrore di Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine di Robert Conquest, Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt, La società aperta e i suoi nemici di Karl Raimund Popper, Prigioniera di Stalin e Hitler di Margarete Buber-Neumann, Il corsivo è mio di Nina Berberova, Ritorno dall’Urss di André Gide, Tutto scorre di Vasilij Grossman, Il passato di un’illusione di François Furet, L’epoca e i lupi di Nadezda Mandel’stam, tutte le opere di Osip Mandel’stam, tutte le opere di Marina Cvetaeva, tutte le opere di Anna Achmatova, tutte le opere di George Orwell, L’uomo in rivolta di Albert Camus, La mente prigioniera di Czeslaw Milosz, Un mondo a parte di Gustaw Herling, Il dottor Zivago di Boris Pasternak, Commissariato degli archivi di Alain Jaubert, Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, Il dio che è fallito di Koestler, Silone, Wright, Gide, Spender, Fisher, Novecento il secolo del male di Alain Besançon, I fantasmi di Mosca di Enzo Bettiza, Il regime bolscevico di Richard Pipes, Togliatti 1937 di Renato Mieli, Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge, Autobiografia 1945-1963 di Emmanuel Le Roy Ladurie, Nemici del popolo di Nicolas Werth, L’utopia al potere di Mihail Geller e Aleksandr Nekric, Stalin di Boris Souvarine, La scheggia di Vladimir Zazubrin, Viaggio nella vertigine di Evgenia Semionovna Ginzburg, Lettere a Olga di Vaclav Havel, Cime abissali di Aleksandr Zinoviev, tutte le opere di Milan Kundera, Il tempo della malafede di Nicola Chiaromonte, la collezione completa della rivista «Tempo Presente», Intervista politico-filosofica a Lucio Colletti, Atlante ideologico di Alberto Ronchey, Storia delle democrazie popolari di François Feijto, La nuova classe di Milovan Gilas, Due anni di alleanza germano-sovietica di Angelo Tasca. Tutte le opere di Filippo Turati”.

Questo elenco, preparato da Pierluigi Battista e pubblicato sul Corriere della Sera del 24 gennaio 2021, viene riproposto da Roberto Pertici, che insegna Storia contemporanea all’Università di Bergamo, in apertura dell’ultimo suo libro È inutile avere ragione. La cultura “antitotalitaria” nell’Italia della prima Repubblica edito da Viella nel novembre 2021 e che, dopo un primo capitolo dove l’autore fa delle osservazioni introduttive che, sole, meritano l’acquisto del volume, ripropone sei saggi pubblicati tra il 2003 e il 2017. L’elenco di Battista rappresenta quello che è stato in Italia l’oblio culturale del fenomeno “comunismo” e a riprova, entrate in una libreria e provate a cercare due/tre titoli tra quelli citati qui sopra! Sarà molto difficile. Perché? Perché «queste opere (…), non hanno mai ottenuto una vera cittadinanza in Italia (…) non sono divenute parte integrante di quel “senso comune storiografico” con cui ragiona da noi il cosiddetto “pubblico colto” (ammesso che esista)». Giudizio senza appello, questo di Pertici?

Ma come è potuto succedere tutto questo?

Ho cercato di spiegarlo nel libro. La presenza nell’Italia di un forte e abile Partito comunista, che aveva svolto un ruolo importante nella Resistenza e nell’elaborazione della Costituzione, ma che al tempo stesso non ha mai interrotto il suo rapporto organico con l’URSS e col comunismo internazionale (almeno fino al 1981, cioè alla vigilia del crollo di quel mondo) ha impedito che l’anticomunismo democratico entrasse nella coscienza del paese. La cultura comunista (assecondata, si deve dire, da quella post-azionista e anche da quella dossettiana) ha presentato l’anticomunismo come l’anticamera del fascismo: ogni posizione anticomunista rischia oggettivamente (ecco l’aggettivo magico) di aprire la strada alla destra, questo il suo motivo ricorrente. E siccome, per quella cultura, destra e fascismo sono la stessa cosa (non esiste, cioè, una destra democratica), il cerchio si chiudeva e si chiude.

Si può affermare che l’Italia è una repubblica fondata sull’antifascismo?

Certo che si può affermare, ma si dovrebbe aggiungere dell’antifascismo democratico, perché all’interno del fronte antifascista era presente anche il comunismo staliniano: la società che gli stalinisti avevano in mente era, per molti aspetti, anche peggiore di quella fascista. Era inevitabile che la nuova Repubblica democratica si costruisse un pedigree: alcune forze (liberali, socialisti riformisti, repubblicani, ma anche De Gasperi e gli uomini della generazione popolare) proponevano di risalire anche alle tradizioni liberali e democratiche del Risorgimento, con ragione, aggiungo io. Ma hanno vinto coloro che volevano allontanare e negare il retroterra risorgimentale, sottolineando lo sbocco fascista dello Stato post-risorgimentale: comunisti, azionisti e dossettiani.

Anche a trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica questo (antifascismo) è ancora necessario?

È necessario come una componente fra le altre di una cultura democratica, che dovrebbe circolare nelle scuole e nell’opinione pubblica italiana: ma questa cultura è molto più vasta e molto più antica dell’antifascismo. Va dall’umanesimo cristiano di Erasmo al costituzionalismo sei-settecentesco di Locke e Montesquieu, al liberalismo ottocentesco di Tocqueville e di Cavour, al socialismo umanitario e riformista fra Otto e Novecento. E all’anticomunismo democratico di De Gasperi (in Italia), di Orwell, Camus, Aron a metà Novecento, fino alla cultura del dissenso dei paesi dell’est, da Solženicyn a molti degli autori citati da Battista. Ma i comunisti sono stati sempre estranei a tutta questa cultura: ammettere che essa avesse ragione, significava negare 70 anni di comunismo in Italia e nel mondo. E questo non se lo potevano permettere, non potevano permettersi di dire: scusate! Abbiamo sbagliato tutto fin dall’inizio. Ecco allora la centralità dell’antifascismo nella loro visione: l’unica stagione in cui potevano dire di “avere avuto ragione”. Ed ecco allora l’assolutizzazione del fascismo e la sua riproposizione come spettro immanente della politica italiana, contro cui mobilitarsi e rinnovare l’union sacrée dell’antifascismo militante.

Cosa intende per cultura “antitotalitaria”?

L’ho scritto nel libro: “Antitotalitaria” è stata (in Italia e non) quella cultura che ha sempre coniugato un radicato antifascismo con un altrettanto radicato anticomunismo.  Al suo interno era convinzione diffusa che l’esperienza fascista fosse morta per sempre e che il vero problema delle democrazie del dopoguerra consistesse nella lotta culturale e politica contro il mondo comunista, non solo là dove ormai era già “sistema”, ma anche nelle sue propaggini occidentali: bisognava, quindi, mutare spalla al proprio fucile.  In questo modo la pensavano più o meno i cattolici della generazione degasperiana, i socialisti democratici e riformisti, i cold war liberals di diverse origini e vari orientamenti.  Detto altrimenti: cattolici non integralisti, liberali non laicisti e socialisti non massimalisti. Il problema fondamentale di ogni cultura democratica novecentesca è stato quello di mantenere il giusto equilibrio fra il momento antifascista e quello anticomunista. Così la più consapevole cultura “antitotalitaria” del primo ventennio dopo la guerra cercò di evitare un anticomunismo che spingesse alla creazione di un fronte unico con l’estrema destra monarchica e post-fascista o con le forze sociali più conservatrici:  di differenziarsi quindi da un «anticomunismo negativo – come lo avrebbe definito Augusto Del Noce -  che pensa come ideale alla costituzione di un blocco generale delle forze anticomuniste, che inevitabilmente sarebbe un blocco di interessi anziché di idee» e che spesso riduceva il comunismo «a un fenomeno fronteggiabile con provvedimenti di polizia». Mentre per Del Noce e per quelli che la pensavano come lui, il comunismo costituiva una sfida di alto profilo, anche perché convogliava alcune delle tendenze di fondo della cultura contemporanea, e quindi esigeva una risposta adeguata.

La cultura di cui parlo in questo libro operava, in modo più o meno esplicito, una distinzione di grande rilievo e, a parer mio, degna di essere mantenuta: fra l’antifascismo “storico” (pre-1945) e quello “ideologico” (post-1945). Si richiamava costantemente al primo, pur non prendendolo in blocco, essendo presenti al suo interno anche tradizioni non compatibili con la democrazia. Ma era estranea al secondo, che concepiva il fascismo come un pericolo eterno della politica italiana, contro il quale era quindi necessaria una mobilitazione permanente: concezione presente in varie forze (comunisti, socialisti, post-azionisti, cattolici dossettiani) fin dall’immediato dopoguerra.  L’antifascismo come ideologia altro non era che una «formula» (così la pensavano gli “antitotalitari”) funzionale a determinati disegni politici, anche se non sempre convergenti: la legittimazione del partito comunista come cardine della democrazia italiana, la condanna di ogni anticomunismo, l’illegittimità politico-culturale di una qualsiasi formazione alla destra della DC, come  anche delle correnti anticomuniste all’interno di quel partito, e talora – nelle frange della “nuova sinistra” – la critica radicale della repubblica nata da una Resistenza abortita e tradita.

È veramente “inutile avere ragione” o è sempre meglio che essere vissuti nella menzogna?

È una bella domanda: è chiaro che è meglio essere dalla parte della ragione, pur senza riuscire a farla vincere, questa ragione, piuttosto che vivere nella menzogna. Ma la testimonianza personale non basta e gli eredi della cultura antitotalitaria si dovrebbero interrogare anche autocriticamente sulle ragioni della propria emarginazione: insomma le lamentele, le polemiche retrospettive e le recriminazioni non sono sufficienti. La logica del we few, we happy few è fallace, sia sul piano politico che su quello culturale. Quando si perde, la prima cosa da fare è riflettere sui propri errori, non incolpare i complotti degli altri, o magari il destino cinico e baro. Lo insegnava ai suoi un grande maestro di politica come Togliatti: proprio questo suo realismo, questa sua consapevole opera di pedagogia politica e di formazione di un gruppo dirigente che imparasse a ragionare come lui, sono stati una delle chiavi del successo comunista nella società e nella cultura dell’Italia della prima Repubblica.

 

 

La Repubblica Popolare Cinese, o meglio, i suoi governanti, pensano di poter dettare legge ovunque con gli stessi metodi che usano a casa loro. Ecco che si permettono di scrivere al sindaco di una città italiana, Brescia, per chiedere di annullare una mostra perché l’artista coinvolto è un dissidente Badiucao, pseudonimo dell’artista-attivista cinese noto per la sua arte di protesta, e pertanto non gradito. Ovviamente il Sindaco ha rimandato al mittente l’invito e la mostra si è tenuta regolarmente e si concluderà il 13 febbraio. Forse questa determinazione sarà anche legata al fatto che nell’Università di Brescia non è presente l’Istituto Confucio? Questa è un'istituzione per la diffusione all'estero della lingua e cultura cinese creata dall'Ufficio "Hanban" del Ministero dell'Istruzione della Repubblica Popolare Cinese. Il primo Istituto Confucio è stato aperto a Seul, in Corea del Sud, il 21 novembre 2004 e in Italia è presente in molti tra i più importanti atenei. Il primo nasce a Roma (2006) all’Università La Sapienza, è il secondo in Europa. Istituti voluti dall’Hanban, Ufficio Nazionale per l’insegnamento del cinese come lingua straniera, affiliato al Ministero dell’Istruzione Cinese, dal 2020 Hanban è stato sostituito dal Centro per l’educazione e la cooperazione linguistica, ente anche questo affiliato al Ministero dell’Istruzione. Istituiti che vengono ritenuti strumenti al servizio della propaganda del regime cinese tanto che la Svezia ha chiuso l’ultimo nel maggio dello scorso anno. La Svezia è stata, fra l’altro, la prima in Europa ad ospitare questa istituzione “culturale”. Istituto che lascia la sua impronta in ogni occasione e recentemente l’occasione è stata importante, 72 anni fa nasceva la Repubblica Popolare Cinese e bisognava festeggiare! A Pisa la Scuola Superiore Sant’Anna, scuola di eccellenza di livello internazionale, ha festeggiato assieme al locale Istituto Confucio questo compleanno con tanto di punto esclamativo. Ancora due anni e  il comunismo cinese raggiungerà l’età di quello sovietico e non sembra di vedere cenni di cedimento. Allora è bene festeggiare, non si sa mai! Anzi si sa, eccome. La capillare presenza della Cina, non solo dal punto di vista economico, specialmente nelle istituzioni accademiche e universitarie, lascia intendere che ancora per molti anni avremo a che fare con questo centro di influenza. Speriamo che la potenza anche commerciale cinese non provi ad influenzare le ricche terre bresciane che tanti rapporti hanno con il celeste impero.

Emanuele Samek Lodovici a 38 anni aveva vinto la cattedra di Filosofia morale ma è morto prematuramente il 5 maggio del 1981. È stato un filosofo che ha pienamente testimoniato la sua fede cattolica e che già intorno ai trent’anni aveva raggiunto una levatura molto considerevole, tanto da essere stimato moltissimo per esempio da Augusto del Noce. Era nato il 28 dicembre 1942 a Messina, ma poi è vissuto a Milano. Nel quarantesimo anniversario della morte ne parliamo con uno dei suoi figli, Giacomo Samek Lodovici, che è Docente di Storia delle dottrine morali e di Filosofia della storia all’Università Cattolica di Milano. Gli scritti di Emanuele, sia scientifici, sia divulgativi, sono scaricabili sul sito www.emanuelesameklodovici.it

Degli scritti di suo padre colpiscono alcune riflessioni sulla sofferenza e sulla perdita di alcune virtù tradizionali: la fortezza, la pazienza, il coraggio, la perseveranza, utili quando ci troviamo ad affrontare un disagio, una sofferenza fisica. Oggi il ricorso all’analgesico, all’anestesia è sempre più frequente. E quando le sofferenze sono interiori la persona più debole e indifesa ricorre alla droga, alla ricerca dell’oblio e di un paradiso effimero.

In effetti mio padre diceva che molti concetti e aspetti della tradizione filosofica dell’Occidente sono stati banditi o ridotti soltanto al loro livello più basso, quello quantitativo. Per esempio, la parola virtù, dal suo senso originario che è quello di habitus, ovvero un particolare modo con cui si possiede (habere) se stessi senza diventare posseduti dai propri desideri e impulsi, è stata spesso ridotta a significare l’efficacia, e la virtù della fortezza, una delle parole pilastro della tradizione greco-cristiana, che sta ad indicare la capacità di sopportare la fatica, il dolore, le avversità, la tristezza, la malattia e in ultima analisi anche la morte (propria o delle persone care), è stata ridotta alla forza. E si è sempre più persa la capacità di affrontare la sofferenza, trasformando se stessi in consumatori seriali di anestesie, non solo quelle farmacologiche, bensì anche quelle che menziona lei.

Un altro tema di grande attualità è quello legato alla malattia. Oggi che la medicina è sempre più tecnica e sempre meno ascolto, il malato, l’uomo sofferente rischia di perdere la sua centralità.

Svolgendo l’implicito del discorso di mio padre, il fatto è che i vari dualismi antropologici, che contrappongono nell’uomo lo spirito e il corpo, finendo per identificare l’uomo o solo con il corpo o solo con lo spirito, conducono ad un approccio medico nefasto, quello di non pochi medici che si rapportano ai loro pazienti non considerandoli come persone, bensì focalizzandosi solamente sui loro organi, parti di corpo, arti, ecc. («il femore della stanza 5», «il trapiantato della stanza 21», ecc.). Ma l’essere umano è una totalità e la sua condizione interiore può non di rado riverberarsi positivamente/negativamente sulle condizioni del corpo, come è già chiaro dall’effetto placebo. Bisogna dunque recuperare sia un approccio medico olistico, un approccio al paziente come essere umano da ascoltare come persona, sia in generale l’unità del sapere, su cui mio padre insisteva.

In cosa consiste l’unità del sapere?

Senza essere un laudator temporis acti, mio padre valorizzava del Medioevo la capacità di realizzare appunto l’unificazione dei saperi intorno ad un fine-scopo comune, cioè la pienezza-perfezione dell’uomo. Esse dovevano insegnare, o almeno non intralciare, l’arte di vivere moralmente bene (l’ars bene vivendi et moriendi), favorire o perlomeno non ostacolare la ricerca del bene, l’amore a Dio e al prossimo.

L’unificazione comportava, per esempio, l’impossibilità che una scienza diventasse anarchica e assumesse come fine il solo proprio sviluppo. Non era cioè in linea di principio possibile che la scienza potesse progettare la clonazione, o gli attuali aberranti interventi di manipolazione genetica, ecc., perché ogni disciplina si conformava ad alcuni fondamentali criteri, ricevuti dalla teologia, dall’antropologia e dall’etica.

Questa unificazione del sapere, che dipendeva dal fine comune delle discipline, è stata soppiantata nel Rinascimento da una separazione: l’organismo unitario dei saperi si decompone e le discipline si rendono autonome l’una dall’altra (basti pensare, per es., alla scissione tra morale e politica enunciata da Machiavelli e, più ancora, in seguito, da Montaigne), rinunciando alla precedente solidarietà reciproca che le caratterizzava; ad un’unificazione del sapere secondo un criterio gerarchico, si è poi successivamente sostituito il surrogato di un’unificazione enciclopedica e antigerarchica, quella illuminista, che organizza le conoscenze secondo il solo criterio alfabetico (cosicché – diceva mio padre – la parola «pantofola» viene prima della parola «Platone») e in cui manca una gerarchia, cosicché tutto è sullo stesso piano: come diceva mio padre, al centro non c’è più l’uomo bensì l’accumulazione stessa del sapere, e la moltiplicazione delle informazioni atrofizza la capacità di riflettere. Oggi con internet, che pur è uno strumento benemerito, questa mancanza di gerarchia nelle infinite informazioni si è accresciuta a dismisura.

In uno degli ultimi interventi affrontò un altro tema che ritorna spesso perché affascina e non trova risposte esaustive: l’origine delle forme e l’agire creativo della natura. Attraverso il pensiero di Plotino: “l’ordine non può derivare dal disordine” nasceva una riflessione sulla natura, la vita e come questa sia nata sulla Terra in modo per niente casuale, come un’artista “crea senza sapere come”.

Non è possibile entrare qui nel merito di tale complesso discorso, ma quel che se ne può soprattutto ricavare è questo: se la teoria scientifica dell’evoluzione è vera, e stabilirlo è compito degli scienziati, non dei filosofi, sta di fatto che l’evoluzione non può essere governata dal caso, dunque non esclude l’esistenza di Dio, bensì è compatibile con una concezione in cui la storia della vita sulla terra e della comparsa delle varie forme, ecc., è governata da un’Intelligenza.

Per inciso, e questa è una mia aggiunta, Darwin si dichiarava agnostico, ma non ateo e (anche se quasi nessuno lo dice) nella pagina finale della IIa edizione dell’Origine delle specie (il suo celeberrimo testo), in cui riflette retrospettivamente sulle considerazioni che ha svolto nel corso del suo libro, scrive: «vi è qualcosa di grandioso in queste considerazioni sulla vita e sulle varie facoltà di essa, che furono impresse dal Creatore». Egli stesso dunque concepiva la possibile conciliazione tra creazione ed evoluzione.

Suo padre ha molto riflettuto sul pensiero gnostico. Pensiero gnostico che è da relegare nella storia della filosofia o la mentalità gnostica trova ancora spazio nel nostro tempo?

Mio padre ha distinto una precisa espressione della gnosi nel II-III secolo e appunto una mentalità gnostica, che invece pervade la storia delle espressioni culturali, anche nel mondo moderno e contemporaneo. C’è insomma una metamorfosi della gnosi – da cui il titolo di una delle monografie che lui ha scritto – con la ripresentazione di una, o due, o tre delle seguenti tesi.

La prima: il mondo e la natura umana sono errati e negativi, bisogna rifarli o stravolgerli.

La seconda: esiste una conoscenza-gnosi (dal greco) redentrice, un sapere che salva da tale condizione umana nefasta, un sapere per ri-fare molto meglio la natura umana.

La terza: grazie al sapere salvifico è possibile estinguere ogni limite, ogni imperfezione, è possibile creare un mondo perfetto, creare l’uomo nuovo e perfetto e instaurare il paradiso, o quasi, in terra.

Quali sono le sue rifrazioni moderne e contemporanee?

Mio padre, come Vögelin, Mathieu, Pellicani e Del Noce, ha visto nel marxismo una simile rifrazione della gnosi.

Inoltre ha interpretato il femminismo libertario in chiave neo-gnostica. Infine, tra i primi ha visto nello gnosticismo in generale e nello gnosticismo libertario antico in particolare un’anticipazione di quella che oggi viene chiamata teoria gender (che attinge anche dai gender studies, ma non è identica ad essi).

Come si collegano femminismo radicale e teoria gender allo gnosticismo?

Lo gnosticismo rifiuta il limite e a sua volta il femminismo libertario nega l’esistenza di quel limite che è costituito da una specifica natura maschile/femminile che differenzia l’uomo e la donna, che pur hanno la stessa medesima incommensurabile dignità (anche per questo indifferentismo tale femminismo oggi è contestato da altre espressioni del femminismo). E  anche la teoria gender rifiuta la natura umana data e vuole costruire l’essere umano, addita a ciascuno la creazione del proprio gender, prescindendo dal sesso biologico dato alla nascita.

Quanto allo gnosticismo libertario del II secolo, esso affermava che lo stadio originario del genere umano è una condizione di perfetta uguaglianza e indistinzione: gli esseri umani non differiscono l’uno dall’altro, né per caratteristiche estrinseche (come la proprietà di certi beni), né per aspetti biologico-fisici o intellettivi. Ora, la contemporanea teoria del gender, in una delle sue espressioni, afferma che la nostra identità psicologica maschile o femminile non è legata al sesso con cui nasciamo biologicamente, bensì è inculcata dall’educazione e dalla cultura in cui ci troviamo a vivere, perciò ognuno di noi dovrebbe essere moralmente libero di scegliere continuamente se vivere e agire secondo la propria percezione di essere maschile, femminile, omosessuale, bisessuale, transgender, ecc., prescindendo dai suoi organi genitali femminili/maschili.

Queste erano le interpretazioni di mio padre. Io aggiungo che oggi la terza tesi gnostica è sempre più riaffermata dal cosiddetto transumanesimo, un movimento scientifico e culturale, che riceve finanziamenti di milioni di dollari, che si propone la ri-creazione della natura umana e la cui ambizione più radicale è il superamento della morte.

Un altro tema che stava a cuore a suo padre era quello del linguaggio

Sì, sottolineava il potere manipolatorio di certi termini. Faccio degli esempi: la parola «aborto», che di per sé evoca, anche in molti abortisti, qualcosa di sgradevole (anche qualora lo si consideri un diritto), viene rimossa e sostituita dall’asettico acronimo «ivg» (interruzione volontaria di gravidanza) che fa pensare all’atto abortivo in modo molto più asettico; similmente, il bambino che potrebbe nascere diventa «prodotto del concepimento» oppure «pre-embrione»; la pillola abortiva diventa «contraccezione di emergenza»; ancora, l’espressione «stato vegetativo» già influenza il modo di pensare al soggetto che non è responsivo, inducendoci a pensare che egli sia un vegetale; e l’espressione «utero in affitto» viene sostituita dall’espressione «gestazione per altri» oppure «maternità solidale»; e padre e madre vengono sostituiti da «genitore A e genitore B». Ma si potrebbe continuare a lungo con gli esempi.

Diceva anche che «chi non ha le parole non ha le cose»

Il punto è che ci sono diverse situazioni in cui un parlante è privo di parole. Sia quando il suo lessico è povero, sia quando le ideologie hanno modificato il significato delle parole (come nel caso della parola «fortezza» ridotta a «forza», della parola «amore» ridotta alla sola «attrazione», della parola «bene» ridotta a «sentirsi bene», ecc.), sia quando le ideologie hanno reso correnti certe parole che sono manipolatorie (come nei casi già citati di «ivg», «pre-embrione», ecc.)

Ora, se noi vogliamo esprimere una convinzione su dei beni/mali etici, antropologici, sociali, ecc., non riusciamo a farlo quando non abbiamo le parole per formularla. E non abbiamo le parole per formularla sia quando il nostro lessico è povero, per esempio se ci esprimiamo in una lingua straniera che non padroneggiamo, o se non padroneggiamo bene nemmeno la nostra lingua, sia quando il lessico corrente è impoverito e distorto volutamente dalle ideologie. Se non riusciamo a esprimere quella convinzione non riusciamo a promuovere i beni che ci stanno a cuore ed a contrastare i mali e le ingiustizie che ci indignano, addolorano, ecc. L’effetto della distorsione ideologica del linguaggio è di renderci, nella nostra lingua, come dei parlanti che si esprimono in una lingua straniera faticosamente e con un lessico minimale, dunque incapaci di poter far capire agli altri i beni/mali – e le ragioni-argomentazioni per cui sono tali – su cui si focalizza il nostro impegno civile. Insomma, «chi non ha le parole non ha le cose».

La II parte dell’ultimo libro di Vittorio Messori, “La luce e le tenebre. Riflessioni fra storia, ideologie e apologetica” (SugarcoEdizioni, 2021), affronta una serie innumerevoli di argomenti, di storie, avvenimenti, personaggi, protagonisti della cultura e della politica, e una serie di curiosità. In pratica è la parte (Appunti sul Politically Correct) dove vengono smascherati i miti, pregiudizi, luoghi comuni, le menzogne politicamente corrette delle ideologie del nostro tempo.

Comincia con le donne, anzi le femmine e il femminismo. Una caratteristica comune di tutte le ideologie moderne è quella di non considerare la realtà: “se i fatti reali contraddicono lo schema, tanto peggio per i fatti, lo schema non va modificato”.

Messori fa riferimento ad alcune donne leader, che hanno avuto successo nella politica. Alle proposte che sarebbe meglio essere governate da donne, Messori scopre che proprio le elettrici donne non votano le donne. E fa alcuni vistosi esempi. Peraltro, partendo dal presupposto che il numero delle donne elettrici è sempre statisticamente superiore a quello degli uomini, si dovrebbe dedurre che se il voto femminile convergesse compatto su candidate femmine, queste potrebbero dominare il mondo, stravincendo tutte le elezioni, almeno nei Paesi democratici. Tuttavia, non è così, perché proprio, le donne non hanno fiducia delle donne, visto che in maggioranza scelgono candidati maschi.

Affrontando i temi del politicamente corretto, un obiettivo è quello di modificare il linguaggio, si pensa che cambiando le parole, si cambia la realtà. Ecco che “storpi”, “paralitici”, o “dementi”, si trasformano in “diversamente dotati”, o in “differentemente abili”. Si cerca di cancellare quanto sia sgradito.

Anche in politica si usa quasi sempre la parola “nazismo”, mai si accosta l’altra parola imbarazzante per le sinistre, “socialismo”. Invece il termine completo è “nazionalsocialismo”. La parola socialismo, per Messori, non sta lì per caso. Hitler era un anticapitalista, anche se per ragioni tattiche veniva a patti con i grandi industriali. “Dire nazionalsocialismo, dunque, serve ad indicare con chiarezza l’unione delle due grandi ideologie che hanno devastato l’era contemporanea: non solo quella ‘di sinistra’, il socialismo, ma anche quella borghese, ‘di destra’, il nazionalismo”.

Sempre restando in tema, Messori, scopre che i simboli del Fascismo hanno una connotazione “democratica”. Chi sa che le prime camicie nere della storia furono un’invenzione di Mazzini, che li prescrisse alla sua “Giovane Italia”, come lutto per una Italia senza Stato. Infine, tutti gli altri simboli come il fascio con la scure, le daghe, gli archi, le corone di alloro, vengono direttamente dalla Rivoluzione francese, anzi dal giacobinismo. Tutta la retorica imperiale del fascismo proveniva dai massoni come Giosuè Carducci, e Giovanni Pascoli. Inoltre, tutto lo stile fascista, dal fez, le canzoni, i battaglioni degli Arditi, creati dopo Caporetto dai governi parlamentari e “democratici”, che avevano voluto la guerra, che condusse l’Italia alla “inutile strage”, senza che nessuno glielo chiedesse, fu in gran parte una richiesta di sinistra.

Altra curiosità storica è quella del fondatore della corrente nella Chiesa del Modernismo, Ernesto Buonaiuti, almeno nei primi tempi, fu un ammiratore e cantore convinto del nazionalsocialismo. Un mito da sfatare è quello di Giuseppe Verdi, le sue opere considerate risorgimentali, sono dedicate nientemeno che a Maria Adelaide d’Asburgo, e all’Arciduca Ranieri, vicerè dell’imperatore austriaco a Milano. Il nemico giurato di ogni “Risorgimento”.

La nota 50, tratta dell’Unicef, l’organizzazione delle Nazioni unite per l’infanzia, è una avvertenza al mondo cattolico. Attenzione pensate di fare una buona cosa aiutandola, ma il Vaticano da oltre vent’anni si rifiuta di contribuire al finanziamento dell’organizzazione. In pratica l’Unicef è diventata la maggiore promotrice della contraccezione e dell’aborto. Seguono le note riguardanti il clima e il catastrofismo dei Verdi.

Il mondo cattolico è stato catturato dall’ambientalismo, spesso più che ideologico che realista. Il verdismo secondo Messori è un partito come gli altri, con i suoi schemi ideologici, con i suoi interessi non sempre puliti. Attenzione a prendere per oro colato tutto quello che ci propinano i Tg e i Media in genere. Monsignor George Pell a suo tempo, parlava di “clima terroristico”, la cui isteria è pericolosamente vicina alla superstizione”. Questi “profeti di sventura”, stanno convincendo i governi a prendere misure che mettono a rischio lo sviluppo e finiranno per danneggiare tutti, specialmente le economie deboli.

Messori in questo allarmismo verde intravede anche una ricaduta economica, in particolare le grandi compagnie di assicurazioni, lucrano sui cambiamenti climatici. Protagonista è sempre il presunto il Global Warming, il “riscaldamento climatico”, che minaccia la vita della terra. Cita un grande storico del clima, Emmanuel Le Roy Ladurie, che ha redatto una “Storia del clima”, opera imponente, ignorata completamente. L’accademico francese sostiene come il clima, il caldo, il freddo, secco o piovoso, possono influire sugli eventi della Storia.

E proprio nella nota 55, dove Messori è abbastanza ironico sui catastrofisti verdi, i “talebani dell’ambientalismo”, che ogni tanto prevedono “inverni tropicali”, con mancanze di piogge tali da provocare la desertificazione di tutta la terra. Poi immancabilmente arrivano inverni freddi, anzi freddissimi.

Comunque sia l’ecologismo, come ogni “ismo”, è una ideologia. Se la realtà non conferma lo schema, creato a tavolino, tanto peggio per la realtà. La propaganda fanatica, ossessiva, dei “nuovi catari”, continua a martellare, anche se le bufale ambientaliste sono regolarmente smentite. Lo vediamo in ogni tg di Stato o di Mediaset, ci sono almeno due a volte anche tre servizi sull’ambiente.

Messori riporta esempi edificanti per noi, per smentire le teorie ambientaliste. Non posso dilungarmi. Ultima curiosità, il monotematico principe Carlo, erede al trono inglese, si è augurato pubblicamente un’epidemia che faccia sparire dalla terra almeno la metà degli abitanti. Non è che stia tifando per il Covid 19?

Sembra che per i fanatici del verde, che equiparano l’uomo e gli animali, il mammifero più pericoloso sia l’uomo.

Sempre per restare al tema ambientalista, Messori affronta la diatriba sull’inquinamento presunto dell’elettrosmog, delle antenne della Radio Vaticana.

Naturalmente sarò costretto a saltare qualche nota di questa V raccolta dei “Vivai” dello scrittore cattolico, che ricordo è l’unico che ha scritto due libri-intervista con due Papi (S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI).

Messori più di una volta affronta il tema degli intellettuali, dei politici, che si offrono per cambiare il mondo, per creare l’”uomo nuovo”. Diffidate di questa gente, denuncia Messori. I nostri guai cominciarono quando “degli intellettuali, nei salotti dei nobili o nel chiuso delle loro biblioteche, cominciarono a pensare e a dire che la società doveva essere ‘organizzata secondo ragione’. E’ stato sempre così a partire dall’illuminismo e poi dalla Rivoluzione francese. Ogni schema mentale di questi filosofi, metteva in conto non l’uomo concreto, come è, ma come dovrebbe essere per rispondere al loro schema ideologico prestabilito. Invece dobbiamo guardare e accettare l’imperfezione sociale degli uomini, cercando ovviamente di ridurla, a cominciare da noi stessi. Mettendo in conto che l’imperfezione sarà sempre con noi.

Messori invita a stare attenti allo “Stato etico”, dalle leggi “pedagogiche”, “dal ministro “paterno” che pensa a noi e alla nostra salute, dal partito o dall’ente pubblico che vogliono educarci alla virtù”. E’ un’avvertenza che soprattutto va rivolta ai tanti cattolici buonisti che, nella loro ingenuità credono che personaggi appartenenti allo Stato etico siano positivi e magari appoggiati. Stiamo attenti ad ogni Grande Fratello. Anche su questi temi ci sono diversi esempi. A cominciare dall’ipocrisia e dal cinismo dello Stato venditore di sigari e sigarette. Il monopolio del fumo, gelosamente difeso da corpi armati come la Guardia di Finanza. Insomma: “governi spacciatori e al contempo virtuosi predicatori”, che il fumo fa male.

Una difesa della salute a parole, ma quando si tratta di soldi e tutta un’altra musica.

Messori evidenzia troppe contraddizioni nello Stato etico. Interessante quelle legate al sistema sanitario, alle cure dei soggetti non virtuosi, come il tabagista dai polmoni cancerosi, dagli alcolisti, o dei malati di aids, l’elenco potrebbe continuare, individuando qualche responsabilità dell’infermo.

Ma a proposito di malattie, per Messori, rispetto alle vecchie malattie veneree, quello dell’Aids, è un morbo “nobile”, almeno quando è stato limitato agli omosessuali, categoria protetta dello Stato etico. Sugli omosessuali, Messori è categorico: “Basta una battuta su di loro e scatta la denuncia per un reato inventato da poco e perseguito con spietata durezza, la cosiddetta ‘omofobia’. Si può sbattere in mezzo alla strada un fumatore incallito ammalato tra gli applausi dei conformisti, ma guai “a negare le cure a un gay che, seguendo il piacere suo senza alcuna protezione, è divenuto sieropositivo”.

Salto qualche nota, al numero 71, troviamo la bella storia sul tempio spagnolo della “Sagrada Familia”, di Barcellona, ideata dal grande architetto Antoni Gaudì. Una costruzione non finita completamente, nel 2010 Papa Benedetto XVI, sottolineò il grande significato di questa lunga storia che dura da più di un secolo. Messori rivolto ai governanti catalani di oggi che sfruttano la sacra costruzione per fini turistici, ricorda che nel 1936 i rojos, i “rossi” (anarchici, comunisti, socialisti), di cui rivendicano orgogliosamente l’eredità, volevano bruciare la Sagrada Familia.

I rojos di allora dopo aver fucilato sul posto sette persone della confraternita, bruciarono la baracca dove Gaudì lavorava giorno e notte a produrre elaborati, schizzi, schemi per proseguire i lavori del tempio. Così andarono perse per sempre le carte, l’archivio dell’opera. Pertanto, il lavoro è stato ripreso ma per forza di cose, alla “cieca”.

Nelle successive note Messori critica alcuni luoghi comuni in materia religiosa, come il gran parlare dei “segni dei tempi”, della gran parte di pastorale dopo il Vaticano II, era diventato un luogo comune tra i cattolici “progressisti”. Chi ha vissuto quei tempi ricorda i “Cristiani per il socialismo”, che sapevano discernere i segni dei tempi, pertanto, i credenti autentici dovevano fiancheggiarli e benedirli. Poi in certe facoltà teologiche europee si elaborò la cosiddetta “teologia della liberazione”, di impronta marxista che fu esportata in America Latina.

La nota 80 (Maledictus homo…) Alla base della fede cristiana, c’è una massima fondamentale: “l’uomo, da solo, non può salvare l’uomo”. È una grande verità di una fede che ha un Dio che si è incarnato per portare all’uomo la salvezza.

Purtroppo, negli ultimi secoli dell’Occidente si è cercato la self-salvation, attraverso la politica, l’ideologia, affidandosi a profeti dell’”avvenire radioso”, a “uomini della provvidenza”, a “capi carismatici”. I risultati sono stati drammatici, fallimentari. Messori fa i nomi di alcuni di questi uomini che dovevano salvarci: Robespierre, Bonaparte, Lenin, Stalin, Hitler e via di questo passo.

Non mancano i riferimento a personaggi politici (si fa per dire) del nostro tempo. A cominciare dal molisano Di Pietro, il Grande Giustiziere, o il Robespierre molisano. E poi il Pannella Giacinto, nominatosi Marco, per arrivare al Grillo, un buon comico trasformatosi in grottesco demagogo. Di lui scrive Messori, “si rinnova per l’ennesima volta l’illusione che sia possibile organizzare gli uomini in un ‘movimento’ che sfugga alla gerarchia e alla disciplina del ‘partito’”. Nelle riflessioni sul movimento dei 5Stelle, Messori anticipa quello che ora sappiamo bene. Gli elettori votando i grillini pensano di colpire la casta ma hanno colpito sé stessi.

“Il ‘partito dei tutti puri, onesti, disinteressati’ non può esistere, se non nelle utopie degli ingenui o nei deliri di gnostici e catari”. Anche perché la società umana può organizzarsi legittimamente sotto altre forme di governo, diverse da quelle della democrazia parlamentare. Messori ci mette in guardia dai vari demagoghi e insiste sulla presunta purezza dei movimenti o delle ideologie. “Tutte le ideologie della modernità – giacobinismo, comunismo, fascismo, nazionalsocialismo, radicalismo – sono nate con bellicose intenzioni antipartitiche, con dichiarazioni ‘movimentistiche’ e sono diventate quelle organizzazioni totalitarie che sappiamo”. Avverrà la stessa cosa per il movimento di Grillo, nato per disfarsi dei partiti, diverrà partito lui stesso. Non vi è nulla di sorprendente, anche il Cristianesimo era un movimento, ma che poi si organizzato in una Chiesa gerarchica.

“E quando il Gallo cantò…” Dedicato a don Andrea Gallo, il prete rosso, quando intonava “Bella ciao”, si commuoveva. Il tipico ritardo clericale, qualcuno doveva avvertirlo che la bandiera rossa non c’era più, ammainata il 25 dicembre del 1991 dal pennone del Cremlino. Ma, forse, sarebbe stato opportuno ricordare a quel vecchio prete, che i partigiani “rossi” emiliani, ogni notte prelevavano un parroco dalla canonica e il mattino dopo veniva trovato massacrato in un fossato. Unica colpa: essere sacerdote.

Cambiando tema, Messori si chiede come mai i regnanti, quei pochi rimasti, costano molto meno dei presidenti delle repubbliche. Quello francese, 110 milioni, quello italiano, 153 milioni. Il bilancio della regina inglese è di 38 milioni, il re del Belgio, 14 milioni, Juan Carlos, addirittura di 8 milioni.

A chi rimprovera Messori di essere tiepido nei confronti delle aggressioni islamiste in Europa e quindi di non unirsi a chi propone una anacronistica crociata. Messori risponde che sarebbe controproducente, “non c’è bisogno di una chiamata alle armi contro il saraceno: il pericolo per lui non sta nelle armi ma nei costumi attuali, soprattutto dei giovani”.

Sul debito pubblico sono responsabili i cattolici buonisti quando si uniscono con le ideologie socialiste e comuniste. Mentre lo “stato sociale”, il welfare, quando a tutto deve provvedere lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune, alla fine, si crea una sorta di animale mostruoso, difficilmente gestibile.

Sull’immigrazione ci sono dei paradossi enormi, come quello della Liberia, il piccolo stato africano. Dagli Usa gli americani portarono degli schiavi neri riscattati, che appena i bianchi se ne sono andati, questi hanno riprodotto la situazione che avevano patito oltre Oceano. I neri americani ridussero in schiavitù i neri autoctoni. Agli esempi di “Miseria Rossa”, nei Paesi dove ha trionfato l’ideologia comunista, vedi Cuba di Fidel Castro. Si oppone la Spagna di Francisco Franco, nonostante il suo regime di quarant’anni, scomparso lui la Spagna è passata alla democrazia, senza nessun spargimento di sangue. Ma soprattutto, secondo Messori, “il regime ha creato le premesse per uno sviluppo inaudito che, in pochi anni ha trasformato la Spagna in un Paese ricco quale non era mai stato”. I sinistri fanno finta di niente ma la l’ascesa rapida e clamorosa della penisola Iberica era stata preparata negli ultimi vent’anni di governi di Franco. Qualcosa di simile è avvenuto in Cile dopo la dittatura di Augusto Pinochet.

In pratica, i regimi del “socialismo reale” non hanno lasciato che rovine, si è dovuto ricominciare da capo. “A differenza di quanto è avvenuto a Madrid – dove si erano poste le basi per un inedito benessere -, a Mosca, a Praga, a Varsavia, a Budapest, a Bucarest e ovunque altrove la bandiera rossa aveva dominato, la miseria che già c’era prima si è aggravata e l’educazione socialista data alle masse si è rovesciata in delinquenza e corruzione”.

Interessante per quanto riguarda l’economia, il caso unico della Svizzera. Un Paese interamente montuoso, senza risorse naturali, diviso in quattro lingue, diverse confessioni religiose, sembrerebbe destinato alla povertà, al sottosviluppo; invece, è divenuto uno dei luoghi di maggiore sviluppo.

Altra curiosità, il caso Algeria, la vera storia della cosiddetta guerra dove è stata coinvolta la Francia. Anche qui Messori sfata alcuni luoghi comuni. Algeri era diventata una capitale della pirateria e dei corsari che infestavano il Mediterraneo. Nelle piazze algerine vendevano a migliaia gli schiavi cristiani catturati nei raid nei villaggi sulle coste. Bisognava risolvere il problema alla radice. Tutti gli europei appoggiarono la Francia.

Il libro come ho già scritto è una miniera di informazioni su tanti argomenti. Mi rendo conto di dilungarmi, le mie sono recensioni anomale, l’ho sempre ribadito.

Un ultimo riferimento a Simone Beauvoir, la celebre femminista per eccellenza. Ebbene, qui Messori dimostra raccontando la storia di questa donna e del suo compagno, Jean-Paul Sartre, come le ideologie alla prova dei fatti, falliscono miseramente. Non posso raccontarvi tutta la storia di questi epigoni del sesso sfrenato, praticato a 360 gradi ogni giorno con partner diversi. Messori fa riferimento a un libro di 600 pagine che l’editore Gallimard pubblicò nel 1997, dopo la morte di Simone. Il libro contiene 304 lettere della Simone e scritte tutte a Nelson Algren, un noto romanziere americano, in una di queste lettere la femminista francese, lei che lavorava per “distruggere” il matrimonio, si spinge a scrivere, che desiderava di essere la sua moglie per sempre, c’è una frase molto significativa: “Sarò per te una obbediente sposa araba. Sarò buona, laverò i piatti, farò le pulizie, andrò a comprare le uova e il dolce al rum, non ti toccherò i capelli, le guance o le spalle senza la tua autorizzazione”. Sostanzialmente tutto il contrario, della vita pubblica che aveva voluto costruirsi con Sartre e delle sue idee del matrimonio, definito “un abominio”. La profetessa militante dell’amore libero ora vorrebbe stare col suo uomo tutto suo.

Ci sarebbero altre “perle” da raccontare. Per il momento mi fermo, prossimamente presenterò la III parte.

Devo confessare una verità: tra i tanti libri non letti, presenti nella mia biblioteca, non ho ben chiaro quali sono i criteri di scelta per la lettura di un testo e poi per l'eventuale recensione. D'altro canto può capitare di trovare un libro interessante nella solita outlet libraria di Milano e leggerlo subito. Così è stato per «Europa Imperiale. Storia e prospettive di un ordine sovranazionale», autore, Otto Von Habsburg, Edizioni Culturali Internazionali Genova [ECIG], (1990). Attenzione all'autore, si tratta del primo degli otto figli di Carlo, ultimo imperatore austroungarico, e di Zita di Borbone Parma. Mi riferisco all'ultimo arciduca ereditario d'Austria e Ungheria, che oltre ad essere deputato dal 1979 del Parlamento Europeo, è stato presidente dell'Unione paneuropa.

Naturalmente è tutto datato, per essere più precisi, il saggio è stato scritto nel 1986. E l'arciduca è scomparso nel 2011. Europa imperiale, è composto di 5 parti. Ho scelto di proporne i contenuti soltanto, la prima e l'ultima parte. Anche perché nelle altre, l'autore affronta argomenti riguardanti la politica e la storia europea e mondiale degli anni '70, '90. I difficili anni della cosiddetta “guerra fredda” nei Paesi dell'Europa Centrale sotto la dominazione comunista sovietica. E poi la politica dell'Europa occidentale, con riferimento a quella americana, uscita dalla seconda guerra mondiale.

Il saggio propone delle ottime osservazioni di Von Habsburg sulla storia, le caratteristiche e gli ingranaggi del Sacro Romano Impero, che nel bene e nel male era riuscito nella sua lunga storia, a pacificare regni, territori e negli ultimi anni a condizionare le spinte nazionalistiche. Quando scompare l'Impero, esplodono le ambizioni esasperate dei nazionalismi che hanno fatto scoppiare la carneficina della prima guerra mondiale. Probabilmente sarebbe riuscito anche ad evitarci le due sanguinarie rivoluzioni nazionalsocialista e quella bolscevica. Infatti, dopo il 1918, nel Centroeuropa sorse uno spazio vuoto, previsto dall'imperatore Carlo, che sarebbe stato occupato con la violenza, prima dalla Germania e poi dall'Unione Sovietica.

Certo oggi sembrerebbe completamente anacronistico occuparsi di Impero, di Monarchia, di Regno. D'altro canto di questi tempi, di aggressione e cancellazione del passato, da parte dei vari gruppi antagonisti europei e soprattutto americani, è arduo sostenere certe tesi politicamente scorrette. Anche se come ho evidenziato recensendo un interessante saggio di Raffaele Simone “Come la democrazia fallisce” (Garzanti, 2015) è del tutto evidente che l'istituzione democratica attraversa una grave crisi, ce ne stiamo accorgendo da oltre un anno come le nostre democrazie liberali, stanno gestendo l'esplosione pandemica. Sostanzialmente stanno sospendendo tutte le più elementari libertà personali.

L'idea di Impero, il principio di un ordine sovranazionale garantito da una monarchia universale, ha impresso il suo segno su tutta la storia dell'Occidente, da Roma fino alla fine dell'Impero Austro-Ungarico.

Quando è stato scritto questo saggio, nell'Unione europea, forse si sentiva il bisogno di ideali cosmopoliti  sovranazionali per una ricerca di unità e prosperità. Il libro non intende offrire argomenti risolutivi, tuttavia, scrive l'arciduca, «il nostro futuro non può essere raggiunto solo attraverso la politica partitica o la tecnologia. Esse sono importanti ma non decisivi[...]».

Il politico nonché arciduca Otto von Habsburg è consapevole che la politica se vuole programmare il futuro ha bisogno di conoscere la Storia. «Chi vuole far incontrare popoli diversi deve sapere ciò che li unisce e ciò che li divide».

Von Habsburgh si rende conto che argomentare su un tema come quello dell'”«Impero”, si espone spesso al rischio di incomprensioni e di attacchi politici ingiustificati». Un Impero non va concepito come un potere territoriale, peraltro, «non lo si può neppure limitare ad una sola nazione poiché il suo compito è proprio di agire come cerniera tra diversi popoli e stati».

Le osservazioni del politico austro-tedesco non intendono ricreare antiche e ormai scomparse forme politiche del passato. Tuttavia in questo periodo storico che si discute su progetti di unificazione europea, è una buona cosa, «riportare alla luce quei tratti sovranazionali e imperiali che dopo la Rivoluzione Francese sono stati completamente cancellati dagli accecanti colori nazionalisti».

Otto von Habsburg descrive sinteticamente i vari passaggi della storia del Sacro Romano Impero a partire da Carlo Magno. Trasmesso dai popoli dell'Oriente, attraverso i Romani, fino ai Franchi. Il modello, l'idea di impero, è un concetto cristiano-occidentale, si forma sotto la spinta della filosofia della storia di S. Agostino, un altro fattore decisivo fu il ruolo di San Benedetto, che ha salvato la cultura classica di Atene e di Roma.

A partire dalla notte di Natale dell'800, Carlo, l'imperatore, sovrano progenitore dell'Europa, «creò una tradizione e un'immagine imperiale che restarono valide fino al 1806 e, nei territori danubiani, addirittura fino al 1918».

Peraltro Von Habsburg è convinto che i problemi del popolo tedesco sono iniziati con la fine del Sacro Romano Impero, cioè nell'anno 1806. «Nonostante molte debolezze e carenze di costruzione, l'Impero aveva loro offerto per circa un millennio un tetto protettivo sotto al quale essi poterono vivere in maniera corrispondente alla loro essenza, alla loro tradizione e alla loro posizione geografica».

Per l'arciduca, la missione storica dei tedeschi fu fin dai tempi antichi sovranazionale e imperiale. La loro funzione, nonostante le guerre, era di equilibrare, di mettere in collegamento le diverse culture e di scambiare beni materiali e spirituali con altri popoli, come gli italiani, i francesi, gli slavi, i magiari, i baltici, i scandinavi.

D'altro canto i tedeschi agirono sempre come popolo imperiale, del resto, l'idea imperiale, si pone al di sopra delle nazioni e per questo motivo, non può mai puntare ad un predominio nazionalistico.

Il predominio nazionalistico dei nazisti, contraddiceva questa funzione storica. L'autore del saggio fa riferimento alla svolta nazionalista iniziata nel 1848, proseguita nel 1866, che minacciava l'esistenza, lo stato plurinazionale asburgico. E ci sono date importanti che hanno portato alla rovina gli Stati centrali europei, come la sconfitta di Sadowa nel 1866. Dopo questa sconfitta, il segretario di Stato vaticano Antonelli, esclamò, “Casca il mondo!”. «Con la vittoria del nazionalismo nell'area tedesca iniziò la decadenza d'Europa e il popolo imperiale tedesco non fu più fedele alla sua missione. La rinuncia tedesca alla grande idea dell'Occidente cristiano, l'”Orbis Europaeus Christianus”, non poté che agire in modo devastante su tutti i popoli vicini, perché distrusse la parte centrale del continente».

Pertanto, la cosiddetta inimicizia tra Austria e Prussia, fu un terribile errore storico. E comunque di questo sono responsabili sia Vienna che Berlino.

Il testo apre spiragli di storia eccezionale che hanno visto protagonisti re, imperatori, come la difesa dell'Europa dagli assalti turchi. Su questo tema da segnalare, una scheda su uno dei condottieri prototipo dell'Impero. Il grande stratega e politico, un vero europeo, il Principe Eugenio di Savoia. Il principe è l'esemplare prodotto delle caratteristiche sovranazionali dell'Impero. Rifiutato da Luigi XIV, l'imperatore Leopoldo I lo accolse nel suo esercito dandogli la possibilità di fare una carriera prestigiosa. Il suo battesimo di fuoco, iniziò a Kahlenberg, il 12 settembre 1683, quando l'esercito imperiale sotto la guida spirituale di padre Marco D'Aviano, sconfisse i turchi che assediavano Vienna. Da questo momento il principe savoiardo si distingue in tutte le battaglie contro il pericolo turco. Tra queste battaglie si ricorda, Zenta, poi quella di Superga contro i francesi, infine Belgrado.

Il principe Eugenio va ricordato non solo per le battaglie, ma anche come un grande mecenate dell'arte barocca. Un principe che pensava in grande, hanno scritto.

Il saggio “Europa Imperiale”, offre passaggi significativi dove si smascherano alcuni miti, nel capitolo (L'Impero e il Danubio), l'arciduca, ricorda che la monarchia danubiana non fu una artificiale prigione dei popoli, tenuta assieme dalla dinastia regnante, come viene descritta da certa storiografia internazionale.

Il compromesso nato nel 1867, dello Stato asburgico, chiamato Austria-Ungheria, «era una necessità strategica non solo per tutti i popoli minori che in essi trovavano rifugio, ma anche per l'intera Europa». Basta guardare la carta geografica (i Carpazi e i Sudeti), dove convivono popoli, che hanno svolto, peraltro blocco storico contro gli attacchi dei turchi, come i Magiari, Cechi, Slovacchi, Croati, tedeschi.

Attraverso la casa asburgica le zone danubiane divennero il nodo cruciale di molteplici influssi sovranazionali. Qui in questo territorio composto da molti popoli, gli imperatori realizzarono profonde riforme, che hanno prodotto grandiosi risultati.

Otto von Habsburg è convinto che la pluralità di popoli significa ricchezza per tutti.

«Questo non vale solo per la vita culturale, ma anche in politica. La storia ci mostra quali pericoli provengono da stati nazionali centralistici. Uno stato composto di molti popoli, nel quale esista un equilibrato rapporto tra le varie singole nazioni, è già per sua natura costretto a comportarsi pacificamente».

Il classico esempio che rafforza questa tesi, è la Svizzera. Essa è costituita, oltre che dai Romanci, anche dai Tedeschi, Francesi e Italiani e pertanto ricerca sempre di stare in pace con la Germania, la Francia e l'Italia.

Continuando la sua descrizione il figlio di Carlo I d'Austria, sottolinea la straordinaria eccezione del variopinto panorama dei popoli della monarchia asburgica. Elencando i vari popoli facenti parte, a partire dagli Austriaci, fino ai Bulgari o i Gorali. E ognuno ci teneva a differenziarsi per cultura e religione. Perfino i bosniaci, dove spiccava il gruppo musulmano, si comportavano da buoni sudditi nei confronti dei loro sovrani cattolici, inserendosi, sorprendentemente armonicamente nell'intero edificio della monarchie e dell'esercito.

 Comunque sia l'autore del libro sfata un altro mito, quello che l'Austria-Ungheria, l'impero sarebbe crollato lo stesso dall'interno. Gli storici seri hanno smentito tutto questo. «I popoli di quello stato, così frettolosamente dichiarato morto, combatterono tra il 1914 e il 1918 con grande valore per la sua conservazione[...]»

A mitigare e comporre le varie tensioni fra i popoli, poteva farlo per Habsburg, solo la corona sovranazionale, il che avvenne con differenti risultati. L'arciduca fa riferimento ad alcune riforme costituzionali che permisero ai singoli popoli di avere un crescente sviluppo nazionale. Si fanno presenti alcuni compromessi politici che regolavano la vita dei popoli sotto la corona asburgica, vita che successivamente sarà sconvolta dalla snaturale sottomissione egualitaria comunista. Il dominio comunista nel bacino del Danubio, in un primo tempo ha coperto con la violenza i problemi locali legati ai gruppi etnici. Il figlio di Carlo qui ricorda come suo padre, negli ultimi mesi di vita a Madeira, soffrisse molto per non aver potuto evitare la minaccia incombente nell'area danubiana.

Ricorda anche che suo padre per soddisfare le rivendicazione tedesche e magiare, aveva in progetto un'idea modernissima, trasformare lo stato asburgico in una federazione di liberi popoli. «Tale progetto avrebbe senz'altro reso possibile un futuro migliore ai popoli danubiani che non le idee folli di un Benes, di un Hitler o di un Stalin».

Tuttavia Habsburg è convinto che dalla storia dello stato plurinazionale asburgico nel cuore del nostro continente si possa imparare molto per l'Europa di domani.

L'ultima parte (Anima dell'Impero) sviluppa proprio questo aspetto come attraverso l'anima cristiana dell'Impero, che guardava ad Atene e Gerusalemme, ci possa essere un futuro migliore per l'Europa. Ma questo è un argomento di oggi, l'Europa da tempo ha rifiutato le radici cristiane e quindi è davanti ai nostri occhi lo stato in cui è ridotta.

 

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