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“Studio choc : ci sarebbe correlazione tra l’alta concentrazione di metalli pesanti nell’aria e nel suolo e l’infertilità maschile. Il nostro è uno studio pilota che abbiamo realizzato su tutto il territorio della provincia di Napoli”. Lo ha affermato il geochimico Domenico Cicchella dell’Università del Sannio, che è uno degli autori dello studio , gli altri sono Lucia Giacciosempre dell’Università del Sannio e Benedetto De VivoMichele De RosaGaetano Lombardi dell’Università Federico II di Napoli . Lo studio – pilota è stato pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Geochemical Exploration , validato dunque dalla comunità scientifica e per la prima volta è stato illustrato ,oggi 15 Ottobre a Cagliari , questa mattina durante la conferenza sulla Geologia Medica in corso sempre oggi all’Università di Cagliari, nell’ambito della  Settimana del Pianeta Terra.   “ L’inquinamento da metalli pesanti nelle aree urbane – ha affermato Cicchella - ha una forte influenza negativa sulla fertilità degli uomini. E’ quanto conclude il nostro studio”. E l’esperto spiega come si è arrivati a questa conclusione clamorosa  ed il perché

 

“Una equipe di ricercatori tra cui geochimici, medici e biologi – ha continuato il geochimico Cicchella - ha studiato le possibili relazioni esistenti tra alte concentrazioni di metalli pesanti nei suoli della Provincia di Napoli e la qualità del liquido seminale degli abitanti di sesso maschile. Sono stati esaminati 600 soggetti selezionati da un campione di 1.237 uomini che si erano rivolti al Laboratorio di Andrologia della "Federico II" per problemi legati alla fertilità. Attraverso l’uso di metodi geostatistici, i dati relativi alla qualità del liquido seminale sono stati confrontati con la distribuzione geochimica dei metalli pesanti nei suoli.

I risultati hanno dimostrato una forte correlazione tra le concentrazioni anomale di piombo e antimonio e la scarsa qualità del liquido seminale. Cioè gli uomini che presentano un liquido seminale di più scarsa qualità vivono perlopiù in aree contaminate da metalli pesanti. Una correlazione più debole è stata osservata anche con mercurio e zinco, mentre valori di concentrazione anomali di altri elementi (Al, As, Cd, Cr, Cu, Mn, Mo e Tl) non sembrano avere alcuna correlazione.

 

Negli ultimi anni, un significativo aumento nell'incidenza di infertilità maschile – ha concluso Cicchella -  è stato osservato e descritto dalla letteratura scientifica internazionale, sollevando dubbi circa le sue cause. Scienziati di molti Paesi avevano ipotizzato che l'esposizione all’inquinamento ambientale può contribuire ad un peggioramento della qualità del liquido seminale maschile. Diversi studi sono stati fatti circa gli effetti sulla fertilità maschile causati da esposizione ad alte dosi di metalli pesanti nei luoghi di lavoro, ma mancavano ricerche sugli effetti causati dall'esposizione continua e a basse dosi di metalli pesanti legata, ad esempio, all’inquinamento delle aree urbane”.

 

“Oggi abbiamo illustrato , per la prima volta – ha affermato Paolo Valera , Presidente dell’Associazione Geologia Medica Italia e Ricercatore del Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura dell’Università di Cagliari - i risultati fin qui raggiunti, grazie all’approccio multidisciplinare, nella ricerca dei fattori ambientali scatenanti patologie autoimmuni (SM e T1D) e dei Disturbi dello Spettro Autistico ed è stato presentato lo stato di avanzamento sulle conoscenze delle interazioni salute-ambiente nel campo della dermatologia. Inoltre i colleghi dell’INAIL di Milano e Cagliari hanno presentato alcuni casi di studio, focalizzati sull'esposizione al quarzo in ambiente lavorativo, mentre i colleghi di Napoli hanno illustrato i risultati di uno studio sulla relazione esistente tra alcuni fattori ambientali ed un sempre più allarmante calo della fertilità maschile”.

 

Lo studio è stato presentato, questa mattina, all’Università di Cagliari , durante la conferenza sulla Geologia Medica svoltasi nell’ambito della Settimana del Pianeta Terra .

Tra le molte facoltà positive che si associano alla cannabis, questa non era del tutto nota o quantomeno provata: l'"erba" potrebbe contribuire a combattere gli effetti negativi sul comportamento e quelli di natura psicologica dei disturbi post-traumatici da stress, secondo una ricerca condotta dai ricercatori Najshon Korem e Irit Akirav, del dipartimento di psicologia presso l'Università di Haifa (Nord) i cui risultati sono stati resi noti ieri 9 settembre."La somministrazione di cannabis sintetica (cannabinoidi) poco dopo un evento traumatico può impedire i sintomi tipici del disturbo da stress post-traumatico nei ratti, sia quelle causate da traumi come ricordi angoscianti ricorrenti ", è possibile leggere in una dichiarazione dell'Università."L'importanza dello studio è che contribuisce a comprendere la reazione del cervello che produce l'effetto positivo della cannabis su questa sindrome, che sostiene la necessità di studi clinici con gli esseri umani per esaminare il suo potenziale", affermano i ricercatori.Secondo l'Associazione medica di Israele, circa il nove % della popolazione israeliana sta soffrendo di disordine da stress post-traumatico, una percentuale che sta crescendo rapidamente tra i soldati, prigionieri di guerra, vittime di aggressioni e civili che vivono nelle zone di confine spesso colpiti dalla guerra mentre anche in Italia, aggiunge Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, seppur con le inevitabili differenze data la diversa drammaticità delle situazioni, sono diversi gli indici che denotano un aumento dei casi dovuti alla crisi economica che ha portato alla recessione un intero paese.Un fenomeno comune tra questi gruppi è che l'esposizione quasi continua agli eventi che ricordano il trauma iniziale, aggrava le loro condizioni di anni di vita.Akirav, che ha già fatto un certo numero di studi in questo campo, garantisce che l'uso di cannabis all'interno di una "finestra temporale" appropriata dopo un evento traumatico riduce i sintomi di PTSD, come dimostrato dai test con i topi.Nella sua ultima ricerca l'esperto si è concentrato sulle conseguenze degli eventi ripetitivi che ricordano il trauma iniziale, per sapere se la cannabis ha lo stesso effetto positivo.La cannabis è stata data ad un primo gruppo di topi che avevano ricevuto scosse elettriche e ad un secondo gruppo al posto della cannabis un antidepressivo composto da sertraline.L'inchiesta ha dimostrato che il primo gruppo non ha dimostrato di aver affrontato ricordi angoscianti ricorrenti, sintomi tipici del disturbo. "In altre parole, con la cannabis gli effetti del trauma ricorrente scompaiono," ha detto. Ed ha anche discusso circa la base neurobiologica dell'effetto della droga nel cervello.Secondo il comunicato, i topi esposti a traumi "hanno mostrato un aumento nelle espressioni di due recettori connessi con l'elaborazione delle emozioni cerebrali: il CB1 e il GR", una riflessione che è stata attenuata in coloro che avevano ricevuto la dose di cannabis."I risultati del nostro studio suggeriscono che la connettività nel circuito di paura del cervello cambia in conseguenza di un trauma, e che la somministrazione dei cannabinoidi impedisca che questo cambiamento si verifichi", hanno concluso gli scienziati.

A causa dello stress e della vita frenetica ricca di impegni, la testa si fa pesante, le palpebre si chiudono e la vista si annebbia. Sono i sintomi della sonnolenza ben noti a tutti. Un team di ricercatori della NASA ha smentito precedenti studi che sostenevano che il pisolino pomeridiano, la classica pennichella, non era salutare. Ora l'Ente Spaziale smentendo tutto ha riabilitato il ruolo della dormitina dopo il pranzo.Alcuni test svolti sui piloti della NASA hanno svelato che coloro che eseguivano un pisolino di almeno 20 minuti nel pomeriggio, vedevano la loro capacità di reazione aumentare di circa il 35%. Insomma, la pennichella aumenta la capacità mentale. E se ciò avviene con dei piloti, è facile immaginarsi come possa influire positivamente su chi svolge lavori di altro genere. Soprattutto in ufficio, in caso di sonno, meglio farsi una sana dormitina piuttosto che bersi un caffé cercando di tenere gli occhi aperti a tutti i costi. Se ne ricaveranno più benefici a livello di concentrazione. E quindi di produttività.Le stime sosterrebbero che con 10-20 minuti di pisolino, si rimane più concentrati. Se si allunga la dormitina a un'oretta, il cervello andrà meno a rilento. Con 90 minuti si esegue un ciclo completo di sonno, che porta a diminuire un possibile debito di sonno accumulato nella notte.Inoltre sempre secondo gli esperti dell'Ente Spaziale, andrebbe fatta dopo 6 o 7 ore dal risveglio mattutino.Per Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, non a caso la qualità del sonno è uno degli indicatori più importanti del nostro benessere ed equilibrio psicofisico. E’ importante che non trascuriamo la nostra salute e consideriamo la possibilità di trovare degli spazi per favorire ed incrementare il riposo. Jennifer Ackerman, autrice del libro "Sex Sleep Eat Drink Dream: A Day in the Life of Your Body" sottolinea l’importanza della  pennichella pomeridiana ricordando che questa non è solo parte della nostra “programmazione fisiologica”, ma è anche importante per la promozione della salute fisica e mentale complessiva. Ackerman afferma che un pennichella di 60 minuti migliora l'attenzione fino ad un massimo di 10 ore. Una ricerca ha rilevato che una pennichella di 26 minuti in volo (mentre l'aereo veniva pilotato da un copilota), ha migliorato le prestazioni del pilota e la sua vigilanza complessiva rispettivamente del 34% e 54%. Anche brevi pennichelle di 6 minuti sembrano innescare processi che possono migliorare il funzionamento della memoria al risveglio.La durata della pennichella e la scelta del momento più opportuno per effetturala dipendono comunque da alcune nostre caratteristiche personali.

I ricercatori di San Diego, negli Stati Uniti, presso la school of Medicine della University of California, hanno scoperto che capsaicina, un principio attivo presente nei peperoncini piccanti come quegli del Cile, producono l'attivazione permanente di un recettore per le cellule che rivestono l'intestino dei topi, generando una reazione che riduce il rischio di tumori del colon-retto.Il ricevitore o il canale ionico, chiamato TRPV1, fu scoperto originariamente in neuroni sensoriali, dove agisce come una sentinella per calore, acidità e sostanze chimiche del piccanteLo studio è stato pubblicato questo venerdì in 'Giornale di ricerca clinica'. Pertanto, TRPV1 è stato descritto come un recettore molecolare di dolore. I canali ionici TRPV1 e TRPV2 sono attivati da diversi stimoli come acidi, protoni extracellulari, alte temperature, tossine di piante e agonisti vanilloidi, così definiti per la presenza nella loro struttura di un nucleo vanillinico, come nella capsaicina ossia il principio attivo del peperoncino. Oltre alla capsaicina, molti altri composti naturali irritanti sono in grado di attivare i recettori vanilloidi. I ricercatori hanno notato che il meccanismo di transduzione attivato dalla capsaicina è identico a quello indotto dalle alte temperature: i canali TRPV1 si aprono e permettono a una corrente che depolarizza il neurone di penetrare e generare un segnale elettrico che si propaga fino al cervello. Quindi i recettori TRPV1 funzionano come ‘termometri molecolari’ in quanto si attivano quando lo stimolo termico oltrepassa i 43°C. Recenti studi hanno inoltre osservato che il ligando endocannabinoide anandamide agisce come agonista endogeno nei confronti del recettore vanilloide. Generalmente i vanilloidi esercitano un’azione bifasica sui nervi sensoriali, cioè dapprima vi è una eccitazione seguita da un durevole periodo refrattario. L’esposizione alla capsaicina porta prima una sensazione di bruciore e in seguito un periodo di analgesia, in cui il neurone non riesce a rispondere a stimoli nocicettivi di diversa natura. Il ruolo del recettore vanilloide nella sensazione dolorifica e l’osservazione che durante condizioni infiammatorie l’espressione di TRPV1 è aumentata hanno indotto la ricerca di nuovi antagonisti TRPV1 che potrebbero avere potenziale terapeutico negli stati di dolore cronico.Ma Raz e i suoi colleghi hanno trovato che TPRV1 è inoltre stimolato dalle cellule epiteliali intestinali, ove attivato dalla crescita del recettore del fattore epidermico (EGFR). EGFR è il recettore nella guida della proliferazione dell'intestino di cellule principali, il cui rivestimento epiteliale è sostituito circa ogni quattro-sei giorni. Petrus De Jong, uno degli autori principali dello studio ha dichiarato "Un livello base di attività EGFR è necessaria per mantenere la normale rotazione delle cellule nell'intestino" . "Tuttavia, se la segnalazione di EGFR è consentita senza restrizioni, aumenta il rischio di sviluppo di tumori sporadici".Gli scienziati hanno scoperto che TRPV1, una volta attivato da EGFR, avvia un feedback negativo diretto sulla EGFR, riducendo quest'ultima per ridurre il rischio di una indesiderata crescita e sviluppo del tumore intestinale. "Questi risultati hanno mostrato che l'epitelio TRPV1 normalmente funziona come un soppressore dei tumori nell'intestino," "L'associazione diretta tra la funzione di TRPV1 e cancro colorettale umano deve essere affrontata in studi futuri,", afferma l'esperto. Questo studio suggerisce che un potenziale rimedio potrebbe essere la capsaicina piccante, che agisce come un irritante nei mammiferi, generando una sensazione di bruciore a contatto con il tessuto.La capsaicina è già ampiamente usata come analgesico e grazie alle sue proprietà di intorpidimento dei nervi è utilizzata come irritante nei gas lacrimogeni meno pericolosi. È inoltre l'ingrediente attivo degli spray al pepe.I ricercatori hanno alimentato con la capsaicina topi geneticamente inclini a sviluppare tumori multipli nel tratto gastrointestinale. Il trattamento ha comportato una riduzione dell'onere di tumore ed allungando la vita dei topi più del 30 per cento, un trattamento che è risultato ancora più efficace se combinato con celecoxib, un farmaco antinfiammatorio non steroideo COX-2 già approvato per l'uso in alcune forme di artrite e dolori. Per Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, una scoperta importante, che apre la strada a nuovi studi e, si spera, a nuove terapie.

Da oggi, prevenzione cardiovascolare efficace a misura di spending review con il farmaco a base di Omega-3 equivalente di Ibsa. I preziosi oli estratti dal pesce, forse più conosciuti come integratori, sono da tempo al centro dell’interesse del mondo scientifico per i loro effetti documentati da una serie di osservazioni epidemiologiche e cliniche.

Che le azioni protettive degli acidi grassi polinsaturi siano valide e ben riconosciute lo dimostra il fatto che l’AIFA - Agenzia Italiana del Farmaco, attraverso le note 13 e 94, ha disposto la somministrazione gratuita, da parte del SSN, dei farmaci a base di Omega-3 in caso di ipertrigliceridemia familiare, iperlipemia familiare combinata, ipertrigliceridemia con insufficienza renale moderata e grave e in prevenzione secondaria entro un anno dall’infarto del miocardio. In tali casi, il rapporto costo/beneficio dei farmaci a base di Omega-3 risulta ampiamente positivo.

“Va sottolineata, prosegue Roberto Volpe, lipidologo e ricercatore del CNR di Roma, l’importanza di intervenire sul controllo del quadro lipidico: l’aumento dei trigliceridi rappresenta, infatti, una problematica molto comune nella pratica clinica, essendo l’alterazione del metabolismo lipidico tipica non solo dell’ipertrigliceridemia pura e dell’iperlipemia combinata (quest’ultima caratterizzata anche da elevati livelli ematici di colesterolo), ma anche della sindrome metabolica, del diabete mellito di tipo 2 e dell’obesità, tutte patologie molto frequenti e gravate da un’alta incidenza di eventi cardiovascolari. I dati clinici hanno evidenziato un ruolo protettivo nei confronti delle malattie cardiovascolari da parte degli acidi grassi Omega-3, sostanze di estrazione naturale definite essenziali, in quanto il nostro organismo non è in grado di produrle e che, pertanto, devono essere assunte con la dieta o attraverso una specifica integrazione. Gli omega-3 esplicano i loro benefici clinici attraverso molteplici meccanismi protettivi: riducono i trigliceridi, prevengono/riducono l’ostruzione delle arterie (azioni cosiddette antiaterogene e antitrombotiche) e prevengono le aritmie cardiache.”

“Gli Omega-3, chiarisce Alessandro Mugelli, Ordinario di Farmacologia, Direttore Dipartimento NEUROFARBA di Firenze, si trovano in commercio a diverse concentrazioni: gli integratori hanno una concentrazione di acidi grassi polinsaturi inferiore a quella garantita dai farmaci, dove la concentrazione di Omega-3 è superiore all’85%. È importante utilizzare i farmaci a base di Omega-3 perché i positivi risultati degli studi clinici condotti sono stati ottenuti con concentrazioni superiori all’85%. Inoltre, i farmaci rispondono alle buone regole di fabbricazione e ai controlli qualità della materia prima. Nel nuovo farmaco, grazie ad un innovativo processo di produzione, non sono presenti conservanti e il principio attivo proviene da pesce azzurro di specie non a rischio di estinzione e poco soggette all’accumulo di sostanze nocive come il mercurio. Per estrarre e purificare l’olio di pesce non vengono usati solventi organici ed è garantita un’efficace rimozione dei potenziali contaminanti. Per dimostrare la bioequivalenza è stato necessario condurre studi di farmacocinetica che sono molto complessi per molecole come queste che si legano alle membrane cellulari di vari tipi cellulari. Il fatto che le concentrazioni ematiche dipendano dalla quantità di acidi grassi poliinsaturi che si assumono con la dieta rende gli studi di bioequivalenza estremamente complessi ed è quindi un grande merito averli eseguiti.”

Un altro elemento rilevante, a parità di qualità e bioequivalenza, sono i costi: infatti gli Omega-3 di marca hanno un prezzo superiore di oltre il 30% rispetto al generico IBSA, aspetto importante per un’ampia azione di prevenzione cardiovascolare, sia se a carico del SSN sia se sostenuta dai singoli cittadini.

“Lo studio GISSI Prevenzione, aggiunge Luigi Tavazzi, Direttore Scientifico di GVM Care & Research e membro del comitato scientifico del GISSI, Gruppo Italiano per lo Studio della Sopravvivenza nell'Infarto Miocardico, ha valutato la prevenzione dell’infarto cardiaco testando l’efficacia degli Omega-3. I risultati sono positivi e convincenti. La mortalità veniva ridotta in modo significativo soprattutto la morte improvvisa  (ridotta di circa 50%), che rappresenta un rischio connaturato nei pazienti con malattia coronarica. Un’evidenza forte, perché fondata su una casistica molto numerosa, 11.324 pazienti, e un lungo periodo di osservazione che portò all’inclusione del farmaco tra i rimedi raccomandati dalle linee guida della Società Europea di Cardiologia. Inoltre, gli Omega-3 sono stati valutati attraverso uno studio, il più vasto mai condotto a livello internazionale, per la terapia dello scompenso cardiaco. Questa sindrome è in crescita costante negli ultimi decenni, in parallelo con l’aumento dell’età media e il cumularsi di comorbidità negli anziani e costituisce una delle spese più cospicue che la sanità pubblica debba affrontare. Il GISSI-HF (HF sta per heart failure, scompenso cardiaco) ha arruolando 6.975 pazienti e anche in questo caso i risultati sono stati incoraggianti: l’uso degli Omega-3 ha ridotto l’incidenza degli eventi cardiovascolari mortali e le ospedalizzazioni portando all’inclusione del farmaco nelle linee guida della Società europea di cardiologia”, conclude Tavazzi.

“Gli acidi grassi Omega-3, aggiunge Aldo Pietro Maggioni, Centro Studi ANMCO e membro del comitato scientifico del GISSI, presentano molteplici meccanismi protettivi per il rischio cardiovascolare; il pesce e capsule di olio di pesce rappresentano le fonti principali di Omega-3: modificare in misura limitata le nostre abitudini alimentari introducendo almeno un secondo piatto settimanale a base di pesce e/o la somministrazione di capsule di olio di pesce può influire positivamente sul metabolismo lipidico, riducendo la trigliceridemia, e proteggendo dalla morte improvvisa nei mesi che seguono un infarto miocardico. Nel frattempo la disponibilità di farmaci specifici, tra i quali gli Omega 3, possono essere impiegati con sicurezza per le indicazioni previste dalla nostra agenzia del farmaco”, conclude lo specialista.

“Negli ultimi 10 anni, afferma Michele Gulizia, Presidente ANMCO, Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri, il rischio cardiovascolare globale si è ridotto del 6% negli uomini e del 15% nelle donne, ma sono circa 30 milioni gli italiani che presentano molti fattori di rischio cardiovascolare associati, rappresentati principalmente da: cattiva alimentazione, ipercolesterolemia e/o ipertrigliceridemia, ipertensione arteriosa, diabete mellito, abitudine tabagica, sedentarietà, sovrappeso o franca obesità. Se alcuni fattori di rischio come la familiarità o il genere non sono modificabili, tutti quelli in precedenza menzionati lo sono. In questi ultimi 50 anni i cardiologi italiani dell’ANMCO hanno aggredito tenacemente questi fattori di rischio modificabili riuscendo, grazie anche all’innovazione tecnologica e alla progressiva introduzione di farmaci ad alta protezione cardiovascolare (tra cui gli omega-3), a ridurre l’impatto della mortalità sulla cardiopatia ischemica acuta, salvando la vita ad oltre 750 mila pazienti. L’impegno di tutti noi cardiologi nei prossimi anni sarà di convincere ulteriormente i medici di famiglia e i pazienti sulla validità della prevenzione fatta attraverso il rispetto delle Carte del Rischio Cardiovascolare, realizzate in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, nella consapevolezza che il nostro comune e maggiore impegno permetterà un efficace cambiamento dello stile di vita sia tra gli individui a elevato rischio che nella popolazione generale”.

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