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Sono tante le pubblicazioni sulla grande guerra, ma sono pochi quelli che descrivono le conseguenze del duro ambiente della guerra che ebbe sulla psiche dei soldati. Qualcosa l'ho letto nel libro di Aldo Cazzullo, “La guerra dei nostri nonni”, che tra l'altro cita uno studio di Annacarla Valeriano, un “martirologio straziante, con un titolo tratto dalle annotazioni cliniche dell’epoca:Ammalò di testa’”. (Donzelli editore). Ma anche in “Sangue dei terroni” di Lorenzo Del Boca, in “Plotone di esecuzione” di Monticone e Forcella. Un intero libro che ha indagato su questo argomento è del psicologo e psicoterapeuta, Roberto Marchesini, “Il Paese più straziato. Disturbi psichici dei soldati italiani della Prima Guerra Mondiale”, pubblicato da D'Ettoris Editori (2010). Quella di Marchesini è una ricerca impressionante, sviluppata utilizzando diari, corrispondenze e materiale clinico inedito proveniente da un ospedale psichiatrico attivo il Mombello di Milano.

Interessante la prefazione al libro di Oscar Sanguinetti, è una breve sintesi che ci fa entrare nella specificità della Grande Guerra.

Infatti Sanguinetti ci tiene a far percepire il carattere dirompente della Prima guerra: un conflitto che si basa non più sui duelli, sul corpo a corpo. E' la prima guerra che si poggia sull'arma da fuoco, che colpisce a distanza, in maniera anonima, uccidendo più di un uomo alla volta. L'arma aerea e i missili possono portare la morte a distanza, sul territorio del nemico e può colpire anche i civili.

Sembrerebbe ozioso parlare della Prima guerra mondiale, ma per Sanguinetti, la guerra “moderna” comincia proprio lì. Fanno la loro comparsa le armi di «sterminio di massa», come i gas asfissianti, i reticolati, le mine, i carri corazzati, gli aeroplani da bombardamento, i sommergibili, i lanciafiamme, tutte armi per infliggere danni di proporzioni spaventose all'esercito avversario.

«I combattenti sono formate da masse umane tanto numerose, quanto anonime e grigie. I soldati, per lo più contadini, sono veri e propri automi in uniforme – non più in divisa [...]». Soldati sottoposti a ufficiali infiammati da idee nazionaliste, che mantengono verso la truppa quel distacco tra il ceto borghese e le masse dei contadini. Sanguinetti evidenzia l'imbarbarimento della guerra, pertanto le ecatombi che si sono registrate sui vari fronti, furono il prodotto non solo delle nuove armi, ma anche il risultato della miopia e del cinismo degli alti comandi. E non è un caso che i primi genocidi del XX secolo, quello armeno e quello dei cristiani iracheni, maturino nel clima e nel corso di quegli anni.

Pertanto secondo Sanguinetti, non bisogna meravigliarsi che una guerra così inumana «si ripercuota in maniera devastante sulla psiche del fante o dell'artigliere – per lo più poveri contadini, mai allontanatisi dal loro villaggio -, uscito vivo dai massacri indiscriminati della prima linea o scampato alla spietata disciplina punitiva delle trincee».

Soltanto la Chiesa cattolica coglierà la drammaticità della guerra. Già Pio X, nel 1914, aveva profetizzato che stava per scoppiare un “guerrone”, e poi Benedetto XV, l'ha definita una “inutile strage”, una «orrenda carneficina che disonora l'Europa». Soltanto un potente di allora, darà ascolto al papa, è il giovane e fervento cattolico imperatore di Austria-Ungheria Carlo I di Asburgo, ma si trattava di un santo...

Il lavoro di Marchesini viene presentato da Ermanno Pavesi, psichiatra, dove mette in evidenza i danni causati dalla guerra sui nostri soldati. Anche lui fa riferimento alle descrizioni di Emilio Lussu e Erich Maria Remarque. «L'opera dell'autore rende giustizia a tanti combattenti la cui sofferenza psichica dovuta a condizioni di vita estremamente difficili non è stata sempre apprezzata nel giusto modo».

Il dramma della prima guerra mondiale per Pavesi non era dovuto soltanto alla concezione ottimistica del Progresso, ma era anche conseguenza «della crisi della cultura e della visione del mondo allora dominanti, soprattutto nella cultura tedesca».

Pavesi si sofferma sulla concezione della razza da parte dell'elite culturale tedesca. I tedeschi erano convinti che il primato ora spetterebbe alla «quinta sotto-razza, quella germanica». Pavesi individua un certo ambiente culturale, un miscuglio di teorie teosofiche, unite alle concezioni darwinistiche, che ritengono necessari i grandi eventi come cataclismi, per passare da una fase all'altra della Storia. Da questo punto di vista sencondo questi ambienti anche le guerre sarebbero necessarie per l'evoluzione dell'umanità. «Le guerre hanno lo scopo di fare tabula rasa per uno sviluppo superiore e per il progresso della cultura. Dal punto di vista della vita le guerre e ogni lotta per l'esistenza perdono il loro aspetto orrendo, poiché le anime umane che perdono le loro spoglie mortali sul campo di battaglia cercano e raggiungono un'organizzazione superiore e più perfetta dopo una fase di riposo, di ristabilimento e di approfondimento».

Pertanto per l'evoluzione dell'umanità, la guerra è un mezzo legittimo, che assume anche i caratteri millenaristici, soprattutto per il popolo tedesco avrà la possibilità di diventare una potenza mondiale.

«Nella prima fase della guerra prevale la convinzione dell'ineluttabilità della vittoria; i primi insuccessi e le morti dei propri soldati vengono esaltati come sacrificio individuale, mentre gli errori crescenti della guerra vengono giustificati in senso darwinistico, come eliminazione del meno adatto per fare spazio a chi è più adatto».

Nell'introduzione Marchesini spiega perchè ha scritto “Il Paese più straziato”. L'ispirazione glie l'ha data suo nonno, “Cavaliere di Vittorio Veneto”.

Nel primo capitolo ha riassunto le vicende della Grande Guerra, dando particolare rilievo alle cause che la scatenarono e che sono, ancora oggi, oggetto di controversie da parte degli storici. Marchesini fa riferimento al cambio di alleanza dell'Italia, alle offerte dei territori che già avevano avanzato l'Austria per la neutralità del nostro Paese. E poi invece l'improvvisa propaganda a favore della guerra dei vari gruppi politici, che si distinsero tra interventisti e contrari. La decisiva funzione della Massoneria nel convincere il governo italiano a dichiarare guerra all'Austria, al fine di distruggere l'Impero Asburgico. «Alla monarchia di diritto divino la massoneria volle sostituire una 'repubblica universale democratica'; al concetto di patria quello di 'nazione'». L'Impero Asburgico, ormai in decadenza, ma rappresentava sempre il Sacro Romano Impero, fondato da Carlo Magno, baluardo del cattolicesimo in un'Europa dominata dall'anticattolicesimo.

Peraltro l'Impero Asburgico era una contraddizione esplicita della dottrina degli Stati nazionali. Sotto l'ombrello asburgico vivevano, certo non senza tensioni, tutt'altro che popoli “oppressi”. «Una volta distrutto l'Impero la pacifica convivenza di questi popoli non diverrà che un'utopia».

Chi era il soldato italiano? A questa domanda Marchesini risponde aiutandosi con una tabella pubblicata dal Corriere della Sera del 4 febbraio 1916. L'Italia all'epoca della guerra, era il Paese più povero e meno popoloso. Alimentazione frugale e montante analfabetismo. A parte i pochi militari di carriera, gli ufficiali, provenienti dal ceto borghese e universitario, si registrava una gran massa di contadini, proveniente da tutte le regioni d'Italia.

La Grande Guerra fu soprattutto “la guerra delle trincee”. «L'evoluzione tecnica aveva reso terribilmente micidiali gli scontri tra gli eserciti [...]». Naturalmente la vita prolungata nelle trincee oltre a procurare effetti materiali, produce nell'organismo disagi fi natura psichica. Esaurimenti nervosi, specialmente tra gli ufficiali, sotto forma di depressione.

Nel secondo capitolo l'autore dello studio traccia un ritratto del soldato italiano che combatté in quegli anni, facendo uso di dati statistici riferiti all'intera popolazione nazionale e di descrizioni coeve. Presenti sono i disturbi della percezione, distinti in due categorie: le distorsioni e le falsificazioni percettive. Ci possono essere vari tipi di distorsioni, Marchesini ricorda quelle acustiche, alterate dall'abitudine al fragore delle esplosioni. Poi ci sono le falsificazioni percettive come le allucinazioni.

«Gli ospedali militari erano pieni di soldati che presentavano lo stesso corteo di sintomi: confusione, intorpidimento, stordimento, pallore, sguardo spento; i loro sonni erano agitati, spesso assumevano atteggiamenti di difesa, fuggivano improvvisamente, si nascondevano ad ogni minimo rumore; in grave deficit di coscienza, a volte sembravano fissare una scena nello spazio, e partecipare ad essa; compivano movimenti catatonici, dondolavano per ore, potevano passare giornate con semplici oggetti d'uso comune (bottoni, stringhe); potevano assumere atteggiamenti infantili o animaleschi; soffrivano di allucinazioni visive e uditive».

Marchesini individua disturbi dell'attenzione, della memoria, della vigilanza, della coscienza.

L'alterazione dello stato di coscienza, ha come effetto la diminuzione di tutte le funzioni cognitive ad essa collegate. Questo si riscontra nella vita quotidiana di trincea, al momento dell'assalto.

Marchesini inoltre rileva alterazioni della coscienza dell'io, «numerosi soldati hanno dichiarato di essersi considerati, nei momenti più difficili della vita di trincea, come già morti; oppure di percepirsi come staccati dal proprio corpo». Era evidente la depersonalizzazione e la derealizzazione. Altri disturbi evidenziati erano quelli del pensiero,deliri, disturbi dell'intelligenza, della psicomotricità,dell'affettività e dei sentimenti, del rapporto con il corpo, di comportamento. Diffuso l'autolesionismo e soprattutto l'alcoolismo.

Nel terzo capitolo Marchesini ha cercato di descrivere l'ambiente di guerra, evidenziando la parte che ebbe nello scatenare i vari disturbi psichici. Qui l'autore fa riferimento al clima culturale nel quale si muoveva la psichiatria negli anni della guerra. Sostanzialmente ci si affidava alla filosofia positivista, in Italia in particolare a Enrico Ferri e Cesare Lombroso. «L'elité culturale italiana, affascinata dalle teorie positiviste, contava di educare le masse tramite gli strumenti della scuola e dell'esercito». Soprattutto l'esercito era considerato una “scuola delle nazioni”, «luogo dove la gioventù poteva essere selezionata e educata in vista del bene biologico futuro della nazione».

La preoccupazione maggiore dei medici era di «isolare l'anomalo, il degenerato, per preservare l'esercito dai disordini e insubordinazioni e l'intera società dal crimine». Ecco che sono comparse le schedature dei soldati.

Nel quarto capitolo si analizza il trattamento dei soldati negli ospedali pischiatrici militari, in particolare quello di Mombello, nei pressi di Milano.

Infine il libro riporta un'appendice del direttore del manicomio Provinciale di Mombello, Maggiore dott. Prof. Giuseppe Antonini.

 

Siamo abituati scrive Roberta nel suo libro, a pensare al trascorrere degli anni, dei mesi, dei giorni, delle ore senza renderci conto che, in realtà, è proprio quell'istante, quel secondo impercettibile fra tanti, a cambiare la nostra vita per sempre. "Questione di istanti" racconta la storia di Isabel. È un percorso di crescita a ostacoli, forse né più né meno di quello di tanta altra gente, che Isabel racconta con tutta la luminosità e la generosità che la contraddistingue e proprio su questo che Roberta Giaretta  ha deciso di parlare con il Corriere del Sud in esclusiva del suo nuovo e bellissimo libro :   "Questione di istanti"

Parlami di te,  come sei diventata scrittrice

La mia passione per la scrittura nasce fin da piccina..adoravo scrivere testi, il diario personale...e oltre alla scrittura adoravo dipingere...sono diventata "scrittrice per caso", perché questo libro nasce da uno scritto fatto per me...per "buttar fuori", forse per liberarmi di un fardello che avevo dentro da anni, poi per caso  mi trovo a conoscere un editor e parlo di questo mio scritto, dicendole :Te lo invio...ma senza alcuna aspettativa o visione del futuro...La mia editor trova interessante questo libro di così poche pagine ma così denso di contenuti importanti...e decide di presentarlo a una casa editrice...78 Edizioni che lo pubblica...e in quel momento...la sorpresa è stata entusiasmante! Nasceva Isabel...il mio personaggio... e il suo messaggio poteva veicolare ovunque...

Sei laureata Scienze della Comunicazione, come nasce la tua idea
la storia di Isabel ?


Isabel nasce da una canzone che io ascoltavo nel periodo nero (dopo la separazione da mio marito),mio figlio aveva 3 anni e ascoltavo spesso Bijork...una particolare ed eccentrica cantante islandese,adoravo la sua canzone "My name is Isabel"...che mi accompagnava tutto il giorno nella mia mente.

Cosa sarebbe quell’istante per te ?

Quell'istante per me è il secondo impercettibile che ti cambia la vita senza che tu te ne accorga subito.
Soltanto dopo qualche tempo realizzi la potenza di quell'istante, l'impatto sulla tua vita, la svolta che esso ha dato.

Quel secondo impercettibile fra tanti, che può cambiare la nostra vita per sempre,
ti e successo ?  


Certo, molte volte ...Isabel è Roberta, racconto la mia storia in realtà.

Parlami del tuo libro con due parole

Il mio libro nasce da dentro...dentro il cuore...viene scritto in soli 3 giorni a mano...poi
successivamente viene riportato a pc...Roberta lo scrive ripercorrendo la sua vita...istante dopo istante e rivivendo anche con dolore alcuni avvenimenti poco felici.
Sembra un percorso ad ostacoli in alcuni momenti...ma lei li supera...a testa alta,
cadendo e rialzandosi. Lo scritto ha una "mission": supportare le persone nei loro momenti bui...dar loro la speranza che si può riuscire a rialzarsi, a ricreare un nuovo sè...non voglio insegnare nulla ma se possibile far sì che magari qualche persona si possa identificare in Isabel e trovare come Isabel la forza di cambiare vita, combattere, vivere...forse molto più forte di prima. Del resto il dolore ...spesso rafforza.

È in stampa, per i tipi di Progetto Cultura a Roma, Appesa a un filo, di Silvana Palazzo, poetessa e saggista direttrice della rivista Redazione Unical presso l'ateneo calabrese dove ha coordinato le attività del Centro di ricerca e documentazione sul fenomeno mafioso e criminale.
Un lavoro "sul campo", sia didattico che di ricerca, che, in questa nuova pubblicazione, fa da evidente background ai temi trattati.
Si tratta infatti di una raccolta poetica "di genere" concepita durante i giorni del lockdown, in un tempo "frantumato, fatto a pezzi". Ed infatti vi aleggia il tentativo di spiegare il perché di quanto avvenuto e che ci ha costretti alla solitudine. Pensiero e riflessione sono ancora una volta l'anima dei versi dell'Autrice di fronte ad un evento devastante per cui anche la psiche sente la necessità di ricorrere alla parola. 
La poesia può far volare lontano ma nello stesso tempo non fa dimenticare che l'uomo ha delle colpe di quanto accaduto. Può diventare denuncia di responsabilità ma anche narrare tragedie individuali domestiche collettive.
Sono versi in bianco e nero intinti di tenerezza quelli della Palazzo, che qua e là nel volume, si rivolgono a figure femminili, a donne che hanno subito violenza i cui nomi sono Olga, Gloria, Maria Rosaria, Sestina, Jessica, Rose, Pamela, Mary, possono essere delle celebrità come Marilyn o la povera moglie di Althusser, giovani ragazze strette dalla morsa parentelare come Sarah od anche vittime della fatalità come Isabelle.
La scrittura si dibatte fra l'anelito alla valorizzazione della donna con la speranza di realizzare un mondo al femminile che sia di pari dignità e opportunità con quello maschile e le resistenze che a ciò si frappongono sin dagli albori del genere umano.
Un velo di pietà ricopre idealmente le figure nude martoriate laddove si fa riferimento al flagello del femminicidio, mattanza proseguita persino durante il lockdown.
La guerra dei sessi è continuata, alimentata da chi non riconosce alla donna un ruolo pieno nel contesto familiare sociale culturale.
Se intelligenza vuol dire capacità di adattamento alle situazioni che si presentano durante la nostra vita allora la scarsa adattabilità, la ridotta disponibilità di alcuni soggetti maschili a riconoscere innovazioni nella scala sociale favorevoli alle donne ne denota quantomeno rigidità mentale e assenza di volontà nel rinunciare alle posizioni di potere acquisite.
Nei casi estremi si arriva, dalla violenza, fino alla follia della soppressione fisica, all'omicidio, che viene visto come un cruento atto di debolezza.
Bisognerebbe parlare di più delle vittime e la Palazzo lo fa con la poesia, interrogandosi su valori veri come quello del rispetto della integrità e della vita di soggetti storicamente deboli come le donne.
I suoi versi offrono spunti esistenziali, appesi al filo del ricordo di fatti concreti e persone, di emozioni e impressioni, pensieri sospesi che cercano il perché il male a volte debba avere il sopravvento in questa nostra vita vissuta "come le foglie morte d'autunno".

Ci sono libri speciali che solitamente vanno letti d'estate, durante le vacanze, sia al mare che in montagna. Infatti ho appena finito di leggere e studiare (solitamente sottolineo i miei libri, aggiungendo considerazioni) l'ottimo libro di Rino Cammilleri, “Doveroso elogio degli italiani”, Rizzoli super BUR (2001). E' un elogio, un'apologia del Paese Italia, degli italiani, o meglio di quegli italiani che hanno fatto la Storia.

Il libro di Cammilleri è un profluvio di nomi, più o meno conosciuti, di uomini e donne, che per le loro gesta, scoperte sono entrati nel guinnes dei primati. Quello di Cammilleri è un libro in controtendenza che viene presentato da Franco Cardini, un fiorentino fazioso e fegatoso, uno che non ama tanto il cosiddetto Risorgimento, e che potrebbe essere definito “antitaliano”. Considerazioni peraltro che potrebbero valere anche per lo stesso Cammilleri, basterebbe leggere la sua sintesi storica per gli studenti, “Fregati dalla scuola”, (Effedieffe). Comunque sia scrive Cardini: «con un'ostinazione e una genialità analitica in tutto degna delle tradizioni della sua terra, il siciliano Rino Cammilleri – poliedrica personalità di studioso, romanziere, cantautore e polemista – percorre enumera non solo le ragioni di un nuovo Primato degli Italiani, ma anche quelle per le quali dovremmo una buona volta davvero spogliarci d'uno dei tratti più sciocchi del nostro provincialismo, quello che ci fa sistematicamente denigrar noi stessi nella misura in cui esaltiamo e ammiriamo gli altri».

Certo nel pamphlet di Cammilleri possiamo trovare forzature e provocazioni, dove non tutto è convincente e condivisibile. Tuttavia una buona idea potrebbe essere quella di farlo leggere nelle scuole, almeno utilizzarlo come sana provocazione, visto che spesso con rassegnazione non si fa altro sostenere o pensare che siamo “inferiori” a tutti gli altri popoli. Anche se per Cardini,“le nazioni pure non esistono. Tutte le tradizioni e le identità sono imperfette e meticciate”. E tuttavia guardando all'Italia, possiamo scrivere: “la nostra comune ricchezza, la nostra risorsa straordinaria, sta proprio sta proprio nella nostra infinita varietà”.

Certamente un libro così non poteva che scriverlo uno che ama la polemica, che con i suoi libri ha la pretesa di riscrivere la Storia. Ed è proprio la Storia che viene indagata nelle pagine del “Doveroso elogio degli italiani”, non solo quella che riguarda l'Italia. «Siamo i soli al mondo a praticare il vizio dell'autodenigrazione, - scrive Cammilleri -, senza mai sostituirlo con la virtù dell'autocritica». Da questa indagine emerge che gli italiani, in assoluto, sono i veri protagonisti in tutti i settori, pertanto le frasi come è “inutile, siamo in Italia” o “all'italiana” per indicare qualcosa fatta male, inefficiente, corrotta, non ha senso.

Nell'introduzione si precisa che il testo non vuole cadere nell'eccesso opposto di uno sciovinismo fuori luogo, si intende indagare sul popolo italiano guardando i fatti, i documenti, lasciando da parte le teorie.

Comunque sia, lo scopo del libro, «sta nel cercare di far recuperare un certo orgoglio delle proprie radici, ottimo tonico per i momenti di sfiducia. Senza questo recupero non si potrà guardare al presente e al futuro, né si avrà voglia di rimboccarsi le maniche per risolvere i problemi dell'ora presente». Il lettore di questo libro percepirà tranquillamente che il nostro popolo è da tanto tempo molto migliore dei suoi capi. E qui si aprirebbe un delicato discorso sull'attuale classe dirigente, priva delle più elementari risorse.

Allora si chiede Cammilleri, c'è qualcosa di intrinsecamente negativo nel Dna degli italiani? Dai risultati che emergono in questo libro, non è proprio così, anzi.

Da quello che abbiamo letto si può tranquillamente sostenere che senza gli italiani, il mondo non sarebbe lo stesso, forse potrebbe essere ancora all'età della pietra. E' una affermazione forte? Sovranista? Facciamo qualche esempio. Tra le più importanti invenzioni italiane, per rimanere all'epoca greca-romana, Cammilleri fa riferimento alla dentiera, inventata dagli etruschi, il teorema di Pitagora e il principio di Archimede. E poi ai bagni termali, e all'uso del calcestruzzo a Napoli. Il calendario “giuliano”, che poi sarà sostituito da quello gregoriano (ancora valido) nel 1582 dal papa Gregorio XIII. I romani inventano tante cose, che sarebbe lungo elencare.

Nel IV secolo dopo Cristo, la Chiesa introduce il Natale, nell'XI secolo a Bologna nasce la prima università, in Toscana si utilizza la forchetta. Guido d'Arezzo idea la moderna notazione musicale. Nel XIII secolo compaiono in Italia le prime bombarde e le prime armi da fuoco. Nasce il calcio fiorentino. A Pisa compaiono i primi occhiali. Nel XIV secolo Filippo Brunelleschi e poi Leon Battista Alberti elaborano e codificano le regole della prospettiva. Il toscano Bernardo Buontalenti inventa il gelato. Giovanni Boccaccio crea la novella.

Nel XV secolo a Venezia compare il primo anello di fidanzamento con diamante. A Genova la prima banca moderna. Nel XVI secolo a Venezia nascono i pantaloni. Gaspare Tagliacozzo esegue il primo trapianto di pelle. Gerolamo Fracastoro individua per primo le malattie infettive.

Nel XVII° secolo Galileo inventa il cannocchiale astronomico e crea il metodo scientifico moderno. Evangelista Torricelli, il barometro. Santorio Santorio, il termometro. Nel XVIII° secolo, Bartolomeo Cristofari costruisce il pianoforte. Il XIX° secolo c'è una una miriade di invenzioni, dove si ha l'imbarazzo di scegliere. Per esempio Angelo Secchi scopre le protuberanze solari. Scipione Riva Rocci inventa lo sfigmanometro. Luigi Negrelli progetta il canale di Suez. Carlo Lorenzini (“Collodi”), scrive Pinocchio, il libro più tradotto dopo la Bibbia. E poi il XX° secolo, uno per tutto Guglielo Marconi, la radio. Enrico Forlanini l'aliscafo. La Milano-Laghi è la prima autostrada del mondo.

I diciotto capitoli del pamphlet che possono essere letti singolarmente, hanno «la sola ambizione di indurre gli italiani a spogliarsi del vizio dell'autodenigrazione per sostituirlo con la virtù dell'autocritica». Certo potrà apparire anacronistico oggi far riferimento alla virtù dell'autocritica, tuttavia dobbiamo provare a ribaltare un certo modo di pensare.

Cammilleri è categorico nelle sue tesi sugli italiani e soprattutto sul nostro Paese. Abbiamo «il sospetto che forse abitiamo in una terra baciata dalla Provvidenza, che l'essere nati qui e non altrove ci faccia in qualche modo speciali». A questo proposito quando insegnavo, ai ragazzini più maturi, cercavo di spiegare che noi italiani siamo fortunati di essere nati nel Paese più importante del pianeta. Tra i tanti motivi spiegavo che abbiamo una grande Storia, basta osservare i nostri reperti archeologici, la nostra arte, i nostri monumenti. Per convincerli delle mie affermazioni, disegnavo il grafico a torta alla lavagna, dove evidenziavo che l'Italia possedeva oltre il 60% del patrimonio artistico mondiale. Inoltre vivevamo in un Paese che dal punto di vista ambientale e climatico, è forse il migliore. Non abbiamo un clima eccessivamente caldo o freddo. Altro fattore importante per il nostro Paese è quello di avere quell'uomo vestito di bianco, il Papa, il vicario di Cristo, quello che ha cambiato il mondo. Pertanto concludevo che forse per tutto questo sarebbe opportuno ringraziare la Provvidenza che ci ha fatto nascere in Italia.

Naturalmente sostenendo queste tesi non significa rinfocolare un nazionalismo becero, da cui ci sentiamo lontani (nella storia recente questa ideologia ha causato montagne di morti come nella 1 e nella 2 guerra mondiale).

Ritornando al libro, Cammilleri per scriverlo si è avvalso di Italian first, un libro di un uomo di affari italiano, Arturo Barone. E' un testo dove si elenca i primati italiani ad uso degli inglesi. Il libro è una miniera di informazioni utilissime, utilizzate da Cammilleri.

Il testo non ha voluto fare un elenco asettico dei primati italiani, ma li ha inseriti nella Storia del nostro Paese, sfatando il più possibile la“leggenda nera” di alcuni passaggi storici importanti. Infatti ci sono diversi interventi di riscrittura della Storia, raccontando semplicemente la Verità. Del resto era Jaques Cretineau-Joly che aveva detto, “l'unica carità concessa alla Storia è la Verità”. E allora attenzione ai nostri sussidiari, che sembrano pari pari come se li avesse scritti Voltaire: «una bella cosa finchè c'erano i romani, poi la lunghissima parentesi dei 'secoli bui' medievali, lo sprazzo del Rinascimento, la decadenza senza rimedio. Solo nell'Ottocento, grazie all'aiuto di Francia e Inghilterra, 's'è desta'. Ma per destarsi del tutto ha dovuto prendere a cannonate il papa». Pertanto l'Italia dopo notevoli sforzi era diventata scrive Cammilleri WASP (white, anglo-saxon and protestant), cioè era entrata nel club dei paesi “civili”, “avanzati”, poi è arrivato il fascismo e l'ha ripiombata nel Dio-patria-Famiglia.

Certamente non si può non affrontare il tema della Chiesa, dei Papi che vivono a Roma e del loro rapporto con il potere temporale. Di tutti i Papi anche quelli più discussi come Alessandro VI, il Borgia. Ma poi ce ne sono altri, magari non troppo noti, che hanno fatto grande la Chiesa. Categoricamente Cammilleri scrive, «dall'Italia viene la maggior parte dei santi, dei teologi, dei fondatori di ordini religiosi, è in Italia la Chiesa[...]». Quindi si può scrivere che «il numero dei santi italiani è triplo di quelli francesi, quattro volte maggiore di quelli tedeschi e cinque di quelli inglesi». Cammilleri se ne intende di santi, per decenni ha curato una rubrica quotidiana sui Santi su Il Giornale. Oltre a scrivere diversi libri sui santi.

Se queste sono le premesse, si ricava che gli italiani sono davvero brava gente. Da aggiungere che parecchi «Santi italiani non si limitarono ad essere brave persone ma crearono opere notevoli a beneficio dell'umanità tutta. Pensiamo, ad esempio, a un san Girolamo Emiliani, fondatore di orfanotrofi, a un san Camillo de' Lellis, inventore degli ospedali moderni, a un san Giovanni Bosco, che se fosse ancora vivo non ci sarebbero gli ultras negli stadi, tossicodipendenti e stragi del sabato sera».

Senza tediare troppo il lettore, Cammilleri cerca di sfatare la leggenda, la favola, troppe volte ripetuta da certi storici: l'Italia ha tanti problemi perchè non ha avuto la Riforma luterana, la Rivoluzione francese, «eventi senza i quali siamo condannati ad essere sottosviluppati rispetto alle nazioni nordiche».

Il capitolo VII e l'VIII elogiano in particolare Roma e l'Italia. Rispondono al “Chi siamo?” Da quando siamo italiani? Dal 1870 è un'altra storia, significa che inizia con il trionfo del liberalismo? E' «un'operazione che ricorda l''anno zero' di tutti i totalitarismi. Anche i giacobini, i sovietici, i nazisti e i fascisti datavano la loro intronizzazione». Ma questa è una riduzione che ci umilia diceva giustamente Galasso. No siamo italiani da molto tempo, e «anche nelle epoche di maggior frammentazione, Medioevo e Rinascimento, non cessammo di sentirci italiani:Dante, Petrarca, Machiavelli e Guicciardini stanno lì a dimostrarlo (anche se furono preceduti, proprio nel loro campo, da san Benedetto e san Francesco, i primi a usare ufficialmente l'italiano “volgare”)».

Grazie ai monaci, a san Benedetto che abbiamo la cultura, lo studio dei libri. I monaci «inventarono ciò di cui non possiamo fare a meno: la razionalizzazione del tempo, gli orari fissi, la puntualità, la ragioneria, le tecniche di conservazione del cibo, l'erboristeria medicinale». Già nell'XI° secolo, scrive Cammilleri «le città dell'Italia settentrionale avevano superato l'Europa d'oltralpe sia in termini culturali sia come progresso materiale». Ma poi con i soli Dante e Boccaccio avremmo avuto il massimo della cultura. Infine le università italiane, erano universali, accoglievano tutti, «credo e nazionalità non rappresentavano in Italia un ostacolo». Camilleri ricorda che il massimo esponente della cultura scozzese, Thomas Dempster, cercò una cattedra a Pisa.

Ma proviamo a immaginare cosa sarebbe oggi il mondo se gli italiani non ci fossero mai stati.

«Uno si sveglia la mattina? Se ha una radiosveglia, si ricordi di Marconi. Beve il caffè? Cela va sans dire: Napoli ne è la capitale. Legge il giornale? La 'gazzetta' è nata a Venezia. Prende l'auto per andare al lavoro? Il motore a scoppio l'ha inventato l'abate Bersanti [...]». Di questo esercizio c'è più di una pagina, fino all'invenzione della forchetta.

Bisogna rivedere tante cose secondo Cammilleri,anche quelle questioni più scabrose, vedi burocrazia, criminalità, le questione sessuale. Il libro di Cammilleri offre una miriade di notizie curiose e interessanti per noi italiani. E se gli italiani non hanno il primato per qualcosa, sono subito secondi, come per la ferrovia Napoli-Portici. Tuttavia «non c'è disciplina o arte in cui gli italiani non abbiano detto la loro prima degli altri. Anche le più moderne, come l'antropologia, l'etnologia o la filosofia della storia, che hanno il napoletano (ancora un meridionale) Giambattista Vico come papà». Addirittura Cammilleri può scrivere che se qualcosa non l'abbiamo inventato, senza di noi sarebbe rimasto un semplice divertimento, passatempo.

Naturalmente sulla cucina non abbiamo rivali, almeno questo lo sanno tutti. E poi altra categorica tesi: in Italia si vive meglio. Sono in tanti nel passato e nel presente a scegliere il nostro Paese.

Senza gli italiani la vita non sarebbe la stessa, né per lunghezza né per qualità. Mi sto riferendo alla scienza, alla matematica, la disciplina più esatta che esista (cosa che fa a botte col luogo comune che vuole l'italiano pressappochista e superficiale). Inoltre Cammilleri fa notare che il nostro Paese non ha prodotto ideologie (i cosiddetti ismi). «Di questo ringraziamo Iddio, perchè i vari Rousseau, Hegel, Marx hanno prodotto tali mari di lacrime e sangue che ancora oggi c'è chi si chiede se gli ismi abbiano arrecato un effettivo progresso o se era meglio occuparsi d'altro». Secondo Cammilleri, gli italiani come ha mostrato nel libro amano la creatività, le cose belle e pratiche. Insomma, gli italiani, «le utopie le lasciano volentieri agli altri».

Concludiamo facendo riferimento al più grande elogio dell'Italia che possiamo leggere. Si tratta della grande preghiera per l'Italia del 18 marzo 1994 di Giovanni Paolo II. Qui il papa polacco ricorda il ruolo singolare del paese in cui viviamo. «Non ci stupirà abbastanza delle disposizioni della divina Provvidenza, che volle condurre Pietro direttamente da Gerusalemme, attraverso Antiochia, qui a Roma […] Oggi non possiamo fare a meno di ringraziare Dio per questo patrimonio di fede e di cultura, che è stato posto alle basi della storia d'Italia […] Ci rendiamo conto con chiarezza del fatto che la divina Provvidenza per mezzo di Pietro ha legato in modo particolare la storia dell'Italia con la storia della Chiesa, come per mezzo di Paolo l'ha congiunta anche con la storia dell'evangelizzazione del mondo intero».

San Giovanni Paolo II esortava a non smettere di ricordare quanto questo popolo cristiano italiano, «ha rappresentato attraverso i secoli per la Chiesa e per il mondo. Questo popolo, con la sua tradizione mediterranea, e con le sue ascendenze greco-romane, questo popolo protagonista di eventi di carattere decisivo per la storia umana, sta davanti a noi».

Un volume di Amedeo Furfaro sulla regione edito da The Writer.

È stato appena dato alle stampe da The Writer un volume di Amedeo Furfaro dedicato ad una serie di "teche" tutte calabresi.
"Quali Calabrie. Storie di ieri" è il titolo dell'originale reportage giornalistico a tappe nel passato recente e nel novecento calabrese, di vicende ma anche di risonanze, scenari, immagini che possano meglio delineare l'Idea di Calabria come si è configurata nel tempo, nell'immaginario collettivo, al di fuori degli stereotipi che spesso si è cercato di cucirle addosso.
Il taglio è quello del taccuino personale, dell'agenda che una volta compilata rende meglio il profilo di quell'Idea di Calabria che l''Autore ha maturato nella propria esperienza di operatore culturale di vasti interessi seppure con specifica propensione al campo della musica e dello spettacolo.
In questo sguardo all'interno del ventre popolare borghese ed aristocratico di una terra nobile e selvaggia che il " progresso" ha modificato radicalmente, l'Autore non si attarda su ricami nostalgici. Il suo resoconto è semmai animato, come nel precedente lavoro "Quante Calabrie" (CJC) dal proposito di fornire un quadro che metta in luce, della regione, varie facce che ne sappiano descrivere in modo eloquente la bellezza e la ricchezza antropologica, storica, ambientale e culturale, spaziando dai profili etnici a quelli letterari da quelli professionali agli intellettuali.
Un quadro che è quello che egli stesso ha conosciuto e, in diversi casi, immortalato in alcuni safari fotografici sul territorio in questione alla ricerca di volti luoghi oggetti. 
Il lavoro è una maniera di raccontare la Calabria ritraendo protagonisti noti e anonimi, cose ed manufatti d'arte, architetture e paesaggi, bellezze naturali e storiche, narrando alcune storie di ieri che sono tracce di un passato che un libro può contribuire a far rivivere.

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