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Il caso Ablyazov

La relazione del capo della Polizia, Alessandro Pansa, sul caso Ablyazov è sul tavolo del ministro dell'Interno, Angelino Alfano. Nella relazione Pansa ricostruisce le fasi e i passaggi burocratici della vicenda che ha portato all'espulsione dall'Italia della moglie e della figlia del dissidente kazako.

"Non faccio valutazioni, dico solo da ex ministro dell'Interno che casi del genere erano gestiti dalla struttura con il coinvolgimento di tutti, anche ovviamente del ministro". Così il segretario della Lega, Roberto Maroni, ha risposto a chi gli chiedeva se ritenga che il ministro Alfano debba dimettersi per la gestione del caso Ablyazov.

La Farnesina "valuterà i termini delle iniziative da assumere presso le aurotità kazake", in particolare per capire "come l'ambasciatore abbia potuto accedere agli uffici del Viminale. Sicuramente non si è rivolto a noi". Lo ha detto il viceministro degli Esteri Lapo Pistelli in Commissione Esteri della Camera.
Il caso di Muktar Ablyazov e di sua moglie Alma Shalabayeva coinvolge numerosi personaggi e uffici ai più alti livelli, a ognuno dei quali fa capo un tassello di questa complicata vicenda.

Ecco chi sono:

GIUSEPPE PROCACCINI
- Capo di Gabinetto del Viminale. Il 28 maggio riceve l'ambasciatore kazako Andrian Yelemessov e il suo primo consigliere: al centro della riunione Ablyazov, dissidente kazako oppositore del regime, già capo di un'importante banca kazaka, è accusato di truffa e ricercato dal Kazakistan e anche da Mosca, come risulta dalla sua scheda inserita nel sito dell'Interpol. Muktar sarebbe a Casal Palocco. Procaccini spiega ai kazaki che la competenza è della polizia e li invia al Dipartimento pubblica sicurezza.

ALESSANDRO VALERI- Capo della segreteria del Dipartimento della pubblica sicurezza. Incontra i referenti kazaki e informa la Questura.

FRANCESCO CIRILLO- Capo della Criminalpol. Viene a sua volta chiamato in causa visto che l'Interpol dipende dalla Criminalpol e su Ablyazov pende un mandato di cattura internazionale.

FULVIO DELLA ROCCA E RENATO CORTESE- Rispettivamente Questore di Roma e capo della Squadra Mobile. Incontrano i diplomatici di Astana e scatta il blitz nella villetta di Casal Palocco: Ablyazov non c'è, ci sono sua moglie Alma e la figlia.

MAURIZIO IMPROTA - Capo ufficio immigrazione della questura di Roma. Il 30 maggio, dopo il blitz, arriva sul suo tavolo la pratica sull'espulsione di Alma. Partono gli accertamenti sui documenti della donna, che ha consegnato un passaporto diplomatico della Repubblica Centroafricana; falso, secondo la polizia. L'ufficio contatta la Farnesina per sapere se la donna avesse o no copertura diplomatica. Ma al ministero giunge una richiesta che cita la donna col suo cognome da nubile, non con quello del marito, e quindi gli Esteri non la collegano con il dissidente kazako e per lei non scattano misure di protezione.

GIUSEPPE PECORARO - Prefetto di Roma, ha firmato il provvedimento di espulsione.

ALESSANDRO PANSA- Capo della polizia, nominato il 31 maggio, il giorno dell'espulsione di Alma (precedentemente, per oltre un mese, dopo la morte Manganelli, aveva guidato la polizia, come vicario, Alessandro Marangoni). Pansa sta predisponendo una relazione sul caso Shalabayeva e sulla mancata informativa al governo.

I MAGISTRATI- Il procedimento di espulsione e il passaggio nel Cie di Ponte Galeria di Alma sono stati seguiti anche dall'autorità giudiziaria: Procura della Repubblica del Tribunale dei minorenni perché coinvolta una minore, la figlia di Alma; il Giudice di Pace; la Procura della Repubblica presso il Tribunale e il Tribunale del riesame.

L'irruzione in casa a mezzanotte. Le offese e le botte. secondo la ricostruzione del agenzia Ansa : La paura di essere uccisa. La partenza per Astana dopo tre giorni da incubo. Tutto in un racconto di 18 pagine che Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhta Ablyazov espulsa lo scorso 31 maggio dall'Italia, ha consegnato al Financial Times, che lo ha poi tradotto e pubblicato. Il memoriale è datato 22 giugno, è dettagliato, crudo, scritto in prima persona. Una ricostruzione che la Questura di Roma smentisce. "La signora Alma Shalabayeva - si legge in una nota diffusa in serata - non ha subito alcun tipo di maltrattamento nel corso dell'operazione di polizia giudiziaria del 29 maggio". Il caso, che da giorni vede il governo italiano nella bufera, rischia così di alimentare ulteriormente l'eco internazionale. In casa, oltre ad Alma e alla figlioletta Alua, c'erano Venera - sorella maggiore di Alma - il marito Bolat e la loro figlia e una coppia di ucraini che si occupava della villa di Casal Palocco e viveva in una dependance. L'irruzione avviene a mezzanotte, tra il 28 e il 29 maggio. A entrare in casa sono "30-35" persone, una "ventina" sono invece appostate all'esterno.

"Erano vestiti di nero. secondo sempre la ricostruzione di M.Esposito sul ansa ...Alcuni di loro avevano catene d'oro al collo, molti avevano la barba, uno una capigliatura punk con una cresta", racconta la donna nel lungo documento. "Non avevano nessun segno esterno da cui si potesse capire che erano poliziotti e militari. Ma tutti avevano delle pistole e parlavano tra loro in italiano", spiega ancora Alma che sottolinea più volte come nessuno parlasse o comprendesse bene l'inglese. L'atteggiamento, tuttavia, sembrava quello dei "gangster". Alma, consapevole di essere la moglie del leader dell'opposizione kazako e ancora ignara dell'identità di chi ha fatto irruzione, non rivela la sua identità. All'inizio dice di essere russa, ma ciò non accontenta i suoi interlocutori. "Continuavano a gridarmi in italiano. Non capivo esattamente cosa dicessero. L'unica cosa che ho potuto distinguere in questa serie di offese fu 'Puttana russa'", scrive la kazaka secondo la quale "sembrava che cercassero qualcosa o qualcuno. Avevo una sola sensazione in quel momento: erano venuti ad ucciderci senza un processo, un'indagine, senza che nessuno lo avrebbe mai saputo". Lo shock è forte anche perché il cognato Bolat ad un certo punto viene portato in una stanza da dove esce con "un occhio rosso e gonfio, un labbro rotto, una ferita al naso. Disse che lo avevano pestato". A tutti viene intimato di consegnare i documenti. Alma non mostra il suo passaporto kazako ma "un passaporto diplomatico" rilasciato dalla Repubblica Centrafricana nell'aprile 2010.

Nel frattempo i tre kazaki chiedono insistentemente di un avvocato e un interprete, ma non ottengono nulla. La casa viene perquisita superficialmente ma nella macchina fotografica di Alma vengono trovate foto che la ritraggono con Ablyazov. Dopo circa tre ore Alma e Venera vengono portate via, prima in una stazione di polizia "nel centro di Roma" poi in un ufficio immigrazione "nel Sud-Est" della capitale. Lì Alma rimane circa 15 ore, senza bere o mangiare. Stremata e rassicurata dal fatto che stava avendo a che fare con la polizia italiana, decide di confessare la sua storia. A un gruppo di 12 persone e a quello che sembra il dirigente dell'ufficio racconta che il Kazakistan "è governato da un dittatore da più di 20 anni al potere e di come Nazarbayev elimina i leader dell'opposizione". Spera in un cambio di atteggiamento, ma così non è. La donna viene portata al Cie di Ponte Galeria, dove può parlare con un avvocato e un interprete. In qualche modo, mettono in contatto la donna con l'ambasciata del Kazakistan a Roma. "Ma io non potevo contare sull'aiuto dell'ambasciata", recita il suo memoriale. Il 31 maggio pomeriggio Alma viene portata a Ciampino, le fanno firmare dei documenti e, insieme alla figlia, viene condotta su un "lussuoso" jet privato ad Astana. Le dicono che il suo passaporto centrafricano è "contraffatto". Lei nega, fino all'ultimo chiede "asilo politico". "E' troppo tardi", le rispondono e - scrive la donna - la sensazione è che tutti eseguissero dei compiti già dettagliatamente assegnati "dall'alto

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