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Mercoledì, 15 Maggio 2024

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il fondamentalismo dell'origine dell'isis

Da qualche mese la Sugarcoedizione di Milano distribuisce un interessante testo del professore Massimo Introvigne, “Il fondamentalismo dalle origini all’Isis”, un’opera interessante dove si sostiene che la domanda di religione ancora presente è in gran parte una domanda di conservatorismo.“In una situazione normale, il tipo di religione che ha più successo è quello conservatore; il fondamentalismo ha una presenza più ridotta, l'ultra-fondamentalismo molto ridotta”. Ma ahimè, i tempi non sono normali, e quindi il fantasma del “fondamentalismo” è emerso dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991. Viene studiato sia dalla sociologia delle religioni, sia dalla geopolitica. Introvigne noto sociologo, fondatore del Cesnur(Centro Studi sulle Nuove Religioni) in questo testo lo studia con ampia documentazione, proponendo i casi della Palestina, della Turchia, dell’Algeria, fino all’emigrazione musulmana in Europa, da bin Laden al Califfato dell’Isis.

Lo studio si divide in due parti. Nella prima, si chiede se sia possibile proporre una teoria del “fondamentalismo” dal punto di vista della sociologia delle religioni, in particolare da quella detta dell’economia religiosa. Nella seconda, propone un’applicazione della griglia teorica e metodologica al cosiddetto “fondamentalismo” islamico. Introvigne volutamente virgoletta la parola “fondamentalismo”, proprio perché non è una “categoria univoca o scontata”, spesso, nello studio, viene messa ripetutamente in discussione.

Lo studio del professore torinese si muove nell’ambiente metodologico della teoria dell’economia religiosa del grande sociologo americano Rodney Stark, illustrata da Introvigne nel testo, “Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente” (Stark e Introvigne, 2003).

Che cosa sostiene questa teoria, nella prima tesi, che i “movimenti religiosi hanno molto spesso cause e motivazioni religiose”. Invece il marxismo, la psicanalisi, la scuola di Francoforte, hanno convinto generazioni di studiosi che “i fenomeni che si presentano come religiosi sono spesso solo la maschera di fattori materiali”. Infatti Friedrich Engels, il più stretto collaboratore di Marx, spiegava che “ogni religione non è altro che il riflesso fantastico nella testa degli uomini di potenze esterne che dominano la loro esistenza quotidiana, come le condizioni economiche e i mezzi di produzione”. Così, per anni si è sostenuto che “la Prima Crociata è la conseguenza di un surplus demografico all’interno della nobiltà europea – nel senso che bisognava trovare qualcosa da fare per i figli dei cadetti in soprannumero delle famiglie nobili -, che le eresie medievali e la Riforma rappresentano una lotta di classe della borghesia urbana contro la nobiltà rurale, e che i ‘Grandi Risvegli’ che contraddistinguono la storia del protestantesimo inglese e americano sono forme primitive di rivolta contro la moderna economia di mercato”.

Anche se ormai gli storici hanno smantellato queste costruzioni ideologiche, tuttavia, per Introvigne, “ogni volta che un fenomeno sembra religioso, un riflesso condizionato, che deriva in gran parte dal marxismo, spinge molti a chiedersi: di quale struttura economica reale la ‘sovrastruttura’ apparentemente religiosa è la maschera o il prodotto?”. Questa prima tesi diventa pertinente dopo che sono stati congelati i conflitti regionali durante la Guerra Fredda, quando il tutto era ridotto alla domanda: “Stai con i sovietici o con gli americani?”

Infatti dopo il 1989 sono riemersi scontri locali che “la Guerra Fredda aveva nascosto, ma non risolto”, scrive Introvigne. Così le tesi di Juergensmeyer o dello stesso Samuel Huntington, sono attendibili, perchè sostengono che questi conflitti locali molto spesso hanno un’importante componente religiosa, anche se non sono completamente privi da componenti nazionali, etniche, politiche, economiche. Per Introvigne l’insegnamento che si può trarre dal libro “Lo scontro di civiltà” (The Clash of Civilizations and Remaking of World Order (1996), spesso più criticato che letto, “è che gli elementi che fanno riferimento alle nozioni di civiltà e di cultura – quindi anche di religione – sono riemersi in tutta la loro ineludibile pregnanza dopo la fine della Guerra fredda[…]”.

La seconda tesi dell’economia religiosa è quella che “iprocessi di modernizzazione non determinano necessariamente il venir meno della presenza della religione, ma sono compatibili, a determinate condizioni, con la tenuta e perfino con la crescita delle credenze e delle appartenenze religiose”.

La terza tesi della religious economy, sia in Europa che negli Stati Uniti, ha raccolto minori consensi rispetto alla seconda, anzi appare “scandalosa” e “politicamente scorretta”. Sempre che si verificano determinate condizioni, la religione, che tiene o cresce nelle società moderne e postmoderne non è, come si potrebbe a prima vista credere, la religione ‘progressista’ che cerca di adattarsi alla modernità, ma è al contrario la religione ‘conservatrice’, che con diversi elementi della modernità è in evidente contrasto”. Infatti esiste una tesi di una certa sociologia delle religioni negli Usa, che sostiene che “le Chiese e le comunità ‘conservatrici’ vincono e quelle ‘progressiste’ perdono”.

Sulla questione del fondamentalismo, Introvigne ammette il termine lascia molto spazio alla confusione, “un tema fra i più scivolosi e inafferrabili, per di pù inquinato da un uso ‘politico’ e polemico del termine”. Introvigne a questo proposito introduce anche la nozione di “ultra-fondamentalismo” con riferimento a gruppi di tipo estremista e radicale, alcuni dei quali ricorrono alla violenza e al terrorismo”.

La seconda parte del volume si occupa di come la teoria starkianadell’economia religiosa, si applica all’Islam contemporaneo. Pertanto, secondo Introvigne, “anche nel mercato religioso intra-islamico, a mano a mano che avanzano i processi di modernizzazione è possibile che si verifichi il fenomeno imprevisto o almeno non previsto – e certo imprevedibile da parte dei teorici della secolarizzazione – secondo cui movimenti conservatori‘vincono’ e tentativi progressisti ‘perdono’. Anche se il professore torinese nel testo, più volte, si chiede se l’espressione “fondamentalismo” sia idonea e rende ragione dell’ampio e variegato arco di organizzazioni islamiche, e se sia giusto riunirle sotto una sola etichetta. A questo punto Introvigne propone tre diversi tipi di realtà nel mondo islamico: i conservatori, i fondamentalisti in senso stretto, e gli ultra-fondamentalisti. Anche per il mondo islamico, per Introvignevale la “la teoria dell’economia religiosa prevede maggiore successo, in condizioni normali, delle organizzazioni conservatrici rispetto a quelle fondamentaliste e una presenza relativamente limitata dei movimenti ultra-fondamentalisti”. Il sociologo italiano sa che l’impressione che si ha del mondo islamico sia diversa: “occorre chiedersi se le cose stanno davvero così, e in caso affermativo perché”. Il quinto e ultimo capitolo, il libro si occupa della nicchia ‘ultra-fondamentalista’ o radicale all’interno dell’islam. E qui il professore con documenti e conoscenze alla mano si occupa di una miriade di personaggi e di organizzazioni ultra-fondamentaliste e terroristiche che non lascia nessuno escluso. Per la verità il testo costituisce una specie di aggiornamento e ampliamento del volume pubblicato nel 2004 da Piemme, “Fondamentalismi. I diversi volti dell’intransigenza religiosa”. E’ chiaro che la parte relativa all’ultra-fondamentalismo islamico e al terrorismo è stata ampiamente riscritta, con particolare riferimento all’Isis e al Califfato nelle terre siriane e irakene.

 

 

lega Santa MiL

Certamente la Storia non si fa con i “se” o con i “ma”, però di fronte alla grande e mitica resistenza dei cavalieri di Malta del 1565 contro la marea ottomana, “un ‘se’, a volte, può servire per dimostrare come anche un piccolo avvenimento periferico avrebbe potuto modificare o addirittura capovolgere il corso della grande storia. Infatti, se quei settecento coraggiosi cavalieri crociati non fossero inaspettatamente riusciti a tenere testa ai quarantamila turchi che li assediavano, la caduta di Malta avrebbe aperto all’Islam le porte dell’Europa cristiana e probabilmente Solimano il Magnifico sarebbe riuscito a cogliere la mitica ‘mela rossa’”.

In questo momento nonostante qualche vittoria cristiana, la situazione politica nel Mediterraneo era favorevole all’espansionismo turco. A Costantinopoli, l’intento di conquistare l’Europa cristiana era sempre presente, il Gran visir Sokolli, nell’occasione della campagna militare contro l’isola di Cipro, incitava ad una fatwa: “è doveroso per un principe musulmano, riconquistare tutte le terre che facevano parte della dar al-Islam. Per lo storico Arrigo Petacco non è tanto chiaro se in quel momento la sublime Porta volesse poi conquistare anche la Spagna, la Sicilia, la Calabria e la Puglia, che facevano parte dell’Islam. Tuttavia secondo lo storico Alberto Leoni, “è logico presumere che se quella grande battaglia navale (Lepanto) fosse stata vinta dai musulmani, il progetto espansionistico reclamato dalla fatwa del gran mufti si sarebbe realizzato con le conseguenze che possiamo immaginare”.Considerazioni da rivolgere a quelli che denigrano la Chiesa di quei tempi che benediceva le armi e la guerre sante, come ha fatto il papa di allora Pio V, il vincitore morale di Lepanto.

L’assedio di Cipro e l’epica resistenza di Marcantonio Bragadin a Famagosta.

I primi obiettivi dei turchi sbarcati a Cipro erano le due fiorenti cittadine di Nicosia e Famagosta, in mano ai veneziani fin dalle crociate. La prima città resistette per sette settimane, poi il governatore Niccolò Dandolo trattò la resa fidandosi della favorevoli condizioni offerte da Mustafà. “Ma questi, violando ogni impegno, appena entrato in città la trasformò in un mattatoio. Oltre ventimila persone furono uccise, mentre migliaia di ragazzi e di fanciulle furono avviate verso gli harem e i mercati degli schiavi”. Saccheggiata Nicosia, il 15 settembre i turchi, inalberando sulle picche le teste di dandolo e dei suoi ufficiali, si presentarono davanti alle porte di Famagosta e quindi ai suoi difensori, che questa volta si opposero eroicamente, guidati dal veneziano Marcantonio Bragadin. Famagosta resistette all’assedio per oltre un anno, tutti gli assalti dei turchi furono respinti. “Gli eroici difensori, benchè stremati e affamati (dopo aver divorato le cavalcature, si nutrivano ora dell’erba strappata dai muri), continuarono a combattere fra i cumuli di macerie prodotti dai grossi proiettili sparati dai basilischi”. Bragadin dopo l’ultimo assalto cercò di giocarsi la carta della diplomazia, sperando che arrivassero i soccorsi in tempo. Intanto il generale turco aveva perso in questi assalti circa cinquantamila uomini e quindi pressato dal sultano, pose fine alla sanguinosa campagna militare. I reduci veneziani anche questa volta furono imbrogliati, ad uno ad uno furono fatti a pezzi, fra gli schiamazzi e lo sguardo divertito di Mustafà. A Bragadin i turchi gli riservarono una sorte atroce, un martirio a tempo, prima di essere scuoiato vivo, ha dovuto subire una serie di crudeli torture, dopo, “per volere del feroce comandante turco la pelle dello sventurato venne riempita di paglia e appesa al pennone di una nave”.Infine i macabri trofei di Bragadin e i suoi ufficiali furono portati e mostrati al sultano a Costantinopoli.

La rivolta dei Moriscos.

Un altro episodio da rilevare in quel periodo è la rivolta nel 1568 dei Moriscos, i musulmani del sud della Spagna, prima spinti a ribellarsi, poi abbandonati da Costantinopoli, così Filippo II poté mandare il giovane fratello don Giovanni a reprimere la rivolta. La dura lotta finì nel 1570 con la scomparsa per sempre dei musulmani nella penisola iberica. La guerra contro i mori, “fu particolarmente sporca”, tuttavia, “mai sono esistite guerre ‘pulite’”,scrive Leoni.

Intanto don Giovanni, dalla brutaleguerra è uscito “incorrotto, riuscendo a conservare i propri ideali cavallereschi”. Ma nello stesso tempo ha intuito, “[…]che un esercito cristiano efficiente avrebbe dovuto serbare una moralità collettiva irreprensibile”.

lepanto don giovanni

I grandi protagonisti di Lepanto.

Questi furono i fatti più importanti prima della grande impresa di Lepanto. Adesso è opportuno interessarsi dei protagonisti che portarono al decisivo scontro sul mare vicino alle coste greche. Parto dal giovane condottiero a cui è stato affidato il comando militare della flotta cristiana, don Giovanni d’Austria, figlio dell’imperatore Carlo V e di Barbara Blomberg, conosciuta dall’imperatore a Ratisbona, dopo una vittoria contro i turchi di Solimano. Il giovane figlio di Carlo prese il nome di Geronimo, per tanti anni visse presso la corte spagnola e fu affidato a un intimo amico dell’imperatore. Nel frattempo Carlo V aveva abdicato lasciando il suo vasto impero al figlio Filippo II. Intanto il giovane fu ben educato religiosamente, culturalmente e soprattutto dal punto di vista militare. Dalla madre adottiva, ereditò una particolare devozione alla Madonna e l’amore per le epopee cavalleresche, in particolare alla leggendaria storia di ElCidCampeador, il campione cristiano della lotta contro i mori infedeli. Una volta riconosciuto come fratello da Filippo II, il giovane prende il nome di don Giovanni d’Austria e diventa “infante di Spagna”.

L’altro protagonista è il Papa Pio V, “il papa giusto al momento giusto”, scrive Arrigo Petacco, nel libro “La Croce e la Mezzaluna”, Mondadori (2005).

“Mai come in quel momento la Chiesa romana aveva avuto bisogno della guida di un uomo come lui, risoluto, intransigente, animato da una fede profonda e deciso a farla trionfare contro tutto e contro tutti purificandola di ogni incrostazione”. Antonio Michele Ghisleri poi Pio V faceva parte dei frati predicatori, domenicani mendicanti. Possedeva due sole tonache bianche, giusto per il cambio, si cibava di uova e verdure. Si sentiva di aver ricevuto dallo Spirito Santo una missione purificatrice, così “immerse Roma e l’intera curia in un bagno di austerità”. Per fare questo ha scelto la maniera forte per ripulire il Vaticano. In quegli anni, a Roma, scrive Petacco:“tutti avvertivano quasi fisicamente la minaccia incombente sia dell’islam, sia della Riforma luterana e Pio V era ossessionato da entrambe le prospettive”. “Mamma li turchi”, era il grido d’allarme che si levava lungo le coste al frequente apparire dei vascelli barbareschi, ed echeggiava anche tra i saloni del Vaticano. Pio V da cardinale era stato catturato dai turchi, ma si era salvato, perché la sua bisunta tonaca domenicana, la sua vecchiaia e la sua ascetica magrezza, gli davano l’aspetto di un derelitto “invendibile”, così i corsari lo ignorarono e presero invece un suo nipote.

Pio V fonda la Lega Santa.

La costituzione della Lega, non fu una cosa facile, fu lunga e laboriosa, continue le picche e ripicche dei contraenti, Pio V con la sua autorità, ha dovuto minacciare di scomunica per in durre i principi cristiani a costituirla. “Venezia e Spagna, le due uniche potenze mediterranee, erano comunque più che sufficienti per organizzare una flotta imponente. Tuttavia avevano aderito alla lega, oltre ovviamente allo Stato Vaticano, anche i Cavalieri di Malta, Genova, Firenze e il duca di Savoia”. Il 25 maggio 1571, fu proclamato nella sala del Concistoro, di fronte a un raggiante Pio V il “patto mediterraneo”, la cosiddetta Lega Santa. Fu deciso di affidare il comando al ventiseienne don Giovanni d’Austria. Oltre alla clausole politiche e militari, il trattato conteneva anche precise disposizioni religiose dettate dallo stesso Pio V, affinchè“quella guerra, la quale si intraprendeva per zelo dell’onore di Dio, fosse amministrata santamente”. Si vietava di far salire sulle navi, giovinetti e soprattutto donne. “Il papa aveva reclutato molti frati – scrive Petacco – affidando loro il compito di seguire la flotta: i gesuiti sulle navi spagnole, i francescani e i domenicani su quelle genovesi, savoiarde e veneziane e i cappuccini su quelle pontificie”. Per il concentramento delle navi fu scelto il porto di Messina. In questa guerra era importante il fattore morale scrive Leoni. “Per questo, dunque, era così importante che tutti gli appartenenti alla flotta cristiana coltivassero la propria fede nella preghiera e nella pietà reciproca”. Pertanto, “Don Giovanni, diede ordine di impiccare i bestemmiatori e coloro che scatenavano risse, in modo da avere decine di migliaia di uomini animati da un solo ideale”.

Finalmente il 16 settembre 1571, la flotta cristiana al completo si mosse da Messina, composta da 207 navi, i soldati di fanteria e gli archibugieri sui bordi erano complessivamente 28.000. I marinai erano 13.000 e i rematori 43.000. In tutto 84.000 uomini, considerando gli spazi delle navi dovevano essere stipati come sardine. “Una folla immensa assistette all’evento e deve essere stato uno spettacolo impressionante vedere l’interminabile corteo di galee che a vele spiegate scorreva lungo lo Stretto, mentre il nunzio papale, monsignor Odescalchi, impartiva la benedizione apostolica ai partenti da un brigantino”.Per chi è vissuto o vive sullo Stretto può comprendere meglio lo scenario evocato dallo scrittore ligure.

Più o meno negli stessi giorni Alì Pascià, l’ammiraglio turco era giunto nella baia di Lepanto, sulla riva settentrionale di Patrasso. Complessivamente la flotta turca era composta da 222 galee e da 60 galeotte. I soldati erano 34.000, i marinai 13.000 e i rematori 41.000. Da notare scrive Petacco, “che sia nell’una che nell’altra flotta i rematori rappresentavano all’incirca la metà del personale di bordo”. Il 7 ottobre dopo la Messa mattutina, la flotta ottomana apparve all’orizzonte, don Giovanni compì l’ultima ispezione allo schieramento su una veloce fregata, reggendo il crocifisso e incitando alla battaglia, poi salendo sulla nave ammiraglia la Real, “fece spiegare lo stendardo papale, color rosso e oro, sul quale erano ricamate le parole del primo inno di battaglia cristiano:’In hoc signovinces’. I turchi furono sconfitti nonostante avessero più mezzi più uomini. Arrigo Petacco descrive dettagliatamentetutti i risvolti della battaglia navale, le varie “armi segrete” dei condottieri dal genovese Gianandrea Doria, al veneziano Sebastiano Venier e poi di quelli turchi, da Occhialì, ad Alì Pascià. Una battaglia straordinaria, definita da Miguel Cervantes, la “la mayorjornadaquevieronlossiglos”.

Alle quattro del pomeriggio di quella domenica del 7 ottobre la Lega Santa, risulta vincitrice. In un conflitto che metteva a confronto due civiltà: “Erano bastate appena cinque ore per cambiare il destino del mondo”. Papa Pio V celebrò un solenne Te Deum di ringraziamento e dispose che il 7 ottobre diventasse un giorno festivo dedicato alla Beata Vergine della Vittoria. Successivamente, trasformata nella festa della Beata Vergine del Rosario.

Concludo il mio intervento con le parole del compianto Marco Tangheroni esimio professore di Storia Medievale, nonché cofondatore di Alleanza Cattolica, “Certamente, la vittoria era stata ottenuta grazie a «la intelligentissima prudentia de i nostri generali, la bravura e destrezza de i capitani in mandare ad effetto, il valore de’ gentiluomini e soldati nell’essequire». Ma, più ancora, a ben altre forze, secondo la bella espressione del senato veneto: «Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosariivictores nos fecit»«non il valore, non le armi, non i condottieri ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori». Del resto, la vittoria di Lepanto era avvenuta nel giorno in cui le confraternite del Rosario facevano tradizionalmente particolari devozioni “. (Marco Tangheroni, La battaglia di Lepanto, n.80, Cristianità, 1981).

Non si riesce a comprendere l’insistenza dei soliti presunti “amici”di facebook, schierati sul fronte di un presunto neotradizionalismo, che continuano a dare una falsa interpretazione del pontificato di Papa Francesco, facendolo apparire come un progressista o addirittura un comunista. Si può sospettare che sono in malafede oppure che non hanno letto quello che il Papa dice e scrive.Oppure leggono le tesi edulcorate dei media, ma questoper loro, che si sentono eruditi dovrebbe essere disonorevole .

Uno che legge attentamente e integralmente tutti i discorsi del Papa è il professore Massimo Introvigne, vice reggente nazionale diAlleanza Cattolica, peraltro preso di mira sempre dai soliti frequentatori “amici” di facebook che non apprezzano le sue letture documentate. Possiamo trovare delle complete sintesi dei discorsi di Papa Francesco, curate daIntrovigne, sulla rivista Cristianità . Il numero 375 di gennaio-febbraio della rivista sembra di essere un vero e proprio dossier monografico per comprendere il poderoso magistero di papa Francesco. In trentadue pagine, Introvigne dà conto dei discorsi effettuati da papa Francesco a Strasburgo al Parlamento Europeo, in Turchia, nello Sri Lanka e nelle Filippine. Oltre a questi viaggi, la rivista pubblica un interessante articolo di uno studiosofinlandese, OskariJuurikkala, dal titolo redazionale, “Povertà virtuosa e libertà cristiana: un apprezzamento di Papa Francesco da un’ottica pro-mercato”.

Al Consiglio d’Europa, a Strasburgo, il papa ha rivolto il più lungo discorso del suo pontificato, riconducendo l’attuale grave crisi delle istituzioni europee al “rifiuto di riconoscere le radici cristiane e di aprirsi al trascendentale”. In pratica l’Europa ha abbandonato da tempo la nozione di verità, per affidarsi al relativismo e al soggettivismo, promossi da ‘imperi invisibili’ dei poteri forti, nemici della vita, della famiglia e della libertà religiosa”.

Papa Francesco si sofferma sugli effetti della crisi economica che portano alla “solitudine con conseguenze drammatiche(…)Da più parti si ricava un’impressione generale di stanchezza, e d’invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vivace”. I grandi ideali che hanno ispirato l’Europa, “hanno perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici delle sue istituzioni”. Dopo aver ben descritto il significato dell’affresco di Raffaello Sanzio, “La Scuola di Atene”, Papa Francesco ribadisce quello che insegnava Benedetto XVI: “Un’Europa che non è più capace di aprirsi alla dimensione trascendente della vita è un’Europa che lentamente rischia di perdere la propria anima”.

L’Europa per papa Francesco non deve aver paura del cristianesimo e del contributo della Chiesa, piuttosto è un arricchimento. Il papa è convinto che solo “un’Europa che sia in grado di fare tesoro delle proprie radici religiose, sapendone cogliere la ricchezza e le potenzialità, possa essere anche più facilmente immune dai tanti estremismi che dilagano nel mondo odierno, anche per il grande vuoto ideale a cui assistiamo nel cosiddetto Occidente, perché è proprio l’oblio di Dio, e non la sua glorificazione, a generare la violenza”. Il Pontefice ha ricordato anche il vergognoso silenzio sulle persecuzioni dei cristiani in diverse parti del mondo: “(…)Comunità e persone che si trovano ad essere oggetto di barbare violenze: cacciate dalle proprie case e patrie; vendute come schiave; uccise, decapitate, crocifisse e bruciate vive, sotto il silenzio vergognoso e complice di tanti”.

Papa Francesco anche a Strasburgo ritorna a parlare di famiglia, e si scaglia contro gli imperi sconosciuti che non la amano. L’ecologia ambientale rimane monca se trascura “l’ecologia umana”. Parla anche di accoglienza, ma l’Europa ha il dovere di “proporre con chiarezza la propria identità culturale e mettere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l’accoglienza dei migranti”. Nessuna vera accoglienza è possibile senza una chiara affermazione dell’identità, che deve essere custodita e fatta crescere, dai parlamentari di Straburgo. E’ veramente splendido il rapporto tra radici e verità che fa papa Francesco che esorto con forza l’’Europa a riscoprire quella tensione ideale che ha animato e reso grande la Storia europea.

In Turchia il papa ha ricordato l’ecumenismo del sangue e della sofferenza, e l’urgenza della riconciliazione fra cattolici e ortodossi. Alle autorità turche che il futuro pacifico della Turchia passa da una riconciliazione, non da uno scontro, fra le sue eredità laica e islamica. Il papa ha ricordato inoltre, che la Turchia, ha pure una eredità cristiana, più antica dell’islam. Peraltro, la Turchia“(…)è cara ad ogni cristiano per aver dato i natali a san Paolo, che qui fondò diverse comunità cristiane; per aver ospitato i primi sette Concili della Chiesa e per la presenza vicino ad Efeso, di quella che una venerata tradizione considera la ‘casa di Maria’”.

Il papa ha parlato di vero dialogo in un Paese troppo importante per l’intero Medio Oriente, in preda a continui conflitti fratricidi. Senza entrare direttamente nella questione del conflitto con il cosiddetto Califfato, il Pontefice ha voluto, “(…) ribadire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto, sempre però nel rispetto del diritto internazionale” e tenendo conto che “non si può affidare la risoluzione del problema alla sola risposta militare”. Certo quest’ultima, “è parte della soluzione del problema, - scrive Introvigne - che richiede anche una risposta sul terreno delle idee, visto che il Califfato recluta miliziani in tutto il mondo, Europa compresa, con il sapiente uso della propaganda, cui si deve trovare modo di rispondere culturalmente e non solo con iniziative di polizia”. Pertanto secondo il professore torinese la prospettiva realistica del problema, richiede un dialogo con “l’islam non fondamentalista, che va invitato a denunciare con chiarezza e senza ambiguità il Califfato e il terrorismo”.

Del resto Papa Francesco incontrando numerosi leader musulmani ha ribadito che la situazione in Medio Oriente è veramente tragica, specialmente in Iraq e Siria(…) Tutti soffrono(…)soprattutto a causa di un gruppo estremista e fondamentalista”. Il Papa rivolgendosi ai capi religiosi, ha detto che proprio noi, “abbiamo l’obbligo di denunciare tutte le violazioni della dignità e dei diritti umani (…) la violenza che cerca giustificazione religiosa - ricorda il Papa – merita la più forte condanna, perché l’Onnipotente è Dio della vita e della pace. Da tutti coloro che sostengono di adorarlo, il mondo attende che siano uomini e donne di pace, capaci di vivere come fratelli e sorelle, nonostante le differenze etniche, religiose, culturali o ideologiche”.

In pratica papa Francesco invita i musulmani di non aver paura nell’isolare i fondamentalisti e denunciare i terroristi, ma anche ai cristiani che qui sono una comunità piccola, chiede di non “fare resistenza allo Spirito Santo”.

 

 

la croce e la mezzaluna 2

Ogni anno il 7 ottobre, in occasione dell’anniversario della battaglia di Lepanto e quindi della festa della Madonna del Rosario(ottobre 1571), il mio pensiero va dritto a quegli anni intensi di veementi scontri armati tra cristiani e musulmani. Per più di un secolo il mondo cristiano di allora fu costretto a prendere le armi per difendersi dall’avanzata inarrestabile dell’impero turco. Fu uno scontro di civiltà, simile a quello che stiamo vivendo ai nostri giorni dopo l’11 settembre 2001? Certo se stiamo al libro, più criticato che letto, di Samuel Huntington, “Lo scontro di civiltà”, la risposta è si. Se invece ascoltiamo certo mondo progressista, pacifista sempre e comunque, allora siamo in un mondo felice e senza scontri, e se eventualmente c’è qualche conflitto, la colpa è sempre del mondo occidentale.

Casualmente, ieri dopo la veglia delle sentinelle in piedi in piazza XXV Aprile a Milano, sono entrato nella chiesa di S. Maria Incoronata, in tempo per ascoltare un frammento dell’omelia di un prete che biasimava il comportamento della Chiesa del passato, quando benediceva le armi e le guerre…Poi secondo il prete, per fortuna è arrivato il solito Vaticano II, un concilio, che è stato per la prima volta, celebrato per combattere nessuno, e così tutto si è rimesso a posto. Quindi stando al prete meneghino, il comportamento della Chiesa del 1500 era sbagliato, assolutamente da condannare.

Vediamo di fare una panoramica di quegli scontri, di quelle battaglie, di assedi e scontri perlopiù avvenuti sul mare, sulle coste del mare Mediterraneo. Prima di arrivare allo scontro finale di Lepanto, ci sono stati una serie di piccole e grandi scontri tra il mondo cattolico e quello ottomano che sono proseguitiper più di un secolo, tra la fine del 1400 e il 1500. Naturalmente come per ogni episodio storico passato, noi contemporanei, dobbiamo fare lo sforzo di immergersi in quel tempo, per capire i pensieri di quegli uomini e donne di quei secoli. E’ quello che hanno forse capito e raccontato nei loro libri, Arrigo Petacco e Alberto Leoni. Sono i libri a cui farò riferimento nel mio studio, per forza di cose, sintetico, che spero possa essere utile per voi lettori.

Dunque, i testi di riferimento sono, “La croce e la mezzaluna. Lepanto 7 ottobre 1571: quando la Cristianità respinse l’Islam”, A. Mondadori (2005), “L’ultima crociata. Quando gli ottomani arrivarono alle porte dell’Europa”, A. Mondadori (2008), scritti entrambe dallo storico, Arrigo Petacco e infine il testo di Alberto Leoni, “La Croce e la mezzaluna”, con un sottotitolo abbastanza lungo: “Le guerre tra le nazioni cristiane e l’Islam. Una storia militare dalle conquiste arabe del VII secolo al terzo millennio”, pubblicato dalle Edizioni Ares (2009): Già questo sottotitolo, dà atto dell’argomento che sto affrontando.

1453 cade Costantinopoli.

L’evento tanto temuto, ma da nessuno ritenuto possibile, era dunque accaduto. Scrive Petacco. “L’islam, che da tempo dilagava a macchia d’olio lungo le sponde del mediterraneo, aveva infine sommerso anche l’ultimo presidio cristiano del Vicino oriente”. La conquista ottomana della “seconda Roma” determinò una svolta fondamentale nella storia, L’Europa orientale rimarrà per secoli soggetta all’islam e quindi separata dalla civiltà cristiana occidentale. Un avvenimento storico che colpì la fantasia degli europei per la sua drammaticità, ma nessuno però ha colto le“decisive implicazioni politiche”. Da circa due secoli, la ricca Costantinopoli, ridotta ormai a una sorta di isola in un mare diventato sempre più musulmano, sembrava “fatalisticamente rassegnata a godersi le delizie di uno splendido tramonto”. L’islam ormai era dilagato lungo le coste africane fino a raggiungere la Sicilia e risalito i Balcani sfiorando Udine e la stessa Vienna, Petacco la tratteggia come “una gigantesca tenaglia”. Costantinopoli era ridotta alle sole fortificazioni murarie. Fu MehmedII ad assediare Costantinopoli e conquistarla, mentre l’imperatore Costantino XI, nell’ultima disperata battaglia, morì combattendo, soldato fra i soldati. I soldati turchi per tre giorni saccheggiarono la città: “le strade e le piazze erano lastricate di cadaveri orrendamente mutilati. Il sangue era ovunque. Neanche i monasteri furono risparmiati e i loro inquilini, maschi e femmine, violentati e uccisi, Molte monache per non cadere nelle mani dei vincitori, cercarono la morte gettandosi in mare o lanciandosi dalle finestre”. Nulla di nuovo, in queste occasioni, la storia si ripete sempre.

Il fronte aperto nel Mediterraneo.

I turchi in passato non avevano mai avuto tanta confidenza con il mare, avevano sempre preferito combattere essenzialmente sulla terra ferma. “La situazione cambiò in modo determinante con la conquista, da parte della Sublime Porta, delle coste nord-africane”, scrive Alberto Leoni. Si apriva un nuovo teatro di guerra, “che vide pirati e corsari musulmani ripetere le gesta dei vari Mugehid dell’XI secolo”. Mehmed ora disponendo di cantieri navali efficienti, di migliaia di schiavi da mettere ai remi e di validi comandanti (quasi tutti cristiani rinnegati) che di vele e di rotte si intendevano, “allargò gli orizzonti e la conquista del Mediterraneo diventò un’esigenza prioritaria per la realizzazione del suo grandioso disegno”. “Un solo Dio in cielo, un solo re sulla terra”, sarà l’obiettivo suo e di tutti i suoi successori, per un paio di secoli, sarà questa l’idea di jihad sul mare.

La pirateria barbaresca e il saccheggio delle coste mediterranee.

“La guerra nel Mediterraneo - scrive Leoni - doveva conoscere uno sviluppo vertiginoso con l’avvento di uno dei più geniali e crudeli ammiragli della storia: Kair ad Din, il famoso Barbarossa, figlio di un rinnegato greco di Mitilene, che esercitava la pirateria nell’Egeo[…]” Barbarossa e suo fratello Orudje, intravidero le enormi possibilità di guadagno nelle scorrerie lungo le coste italiane e, nel 1516, riuscirono a prendere il controllo di Algeri facendone strangolare il locale sceicco”. Ma tra i pirati e corsari, non c’era solo Barbarossa, ma anche altri, come Assan Agà, di origine sarda, Sinam il Giudeo, Aidino delle Smirne, denominato Cacciadiavoli. Siamo nel 1534, Barbarossa a capo di una potente flotta ottomana, va alla conquista della penisola italiana saccheggiando le coste siciliane e calabresi. Intanto l’imperatore Carlo V cercò di rispondere con un’altra potente flotta al comando di Adrea Doria, si cercò di conquistare Tunisi in mano al Barbarossa, una lotta disperata. Leoni racconta dei diecimila prigionieri cristiani, ammassati nei sotterranei della guarnigione di Tunisi, Barbarossa che si trovava in difficoltà per l’assedio cristiano, voleva trucidarli tutti in massa, ma i suoi ammiragli si opposero, temendo di perdere gran parte del proprio patrimonio. Infatti occorre aprire una parentesi, “le prede umane erano infatti il bottino più ambito dai pirati barbareschi perché, in un modo o nell’altro, avrebbero fruttato denaro. Scrive Petacco. Gli harem degli emiri si contendevano le donne giovani e belle, mentre i cantieri navali, i mercanti e i proprietari di terreni o di cave avevano tutti bisogno di braccia da lavoro a buon mercato. Ma ad averne più bisogno di tutti erano gli armatori per i quali gli schiavi costituivano l’indispensabile forza motrice delle galee”. I cristiani caduti in schiavitù, popolavano a migliaia i cosiddette “bagni”, una sorta di lager (i cortili) del Nord-Africa.

Intanto a Tunisi durante l’assedio, accade un imprevisto, come in un romanzo d’avventura, i prigionieri con a capo un cavaliere di Malta, il piemontese Paolo Simeoni, rinchiuso con gli altri sventurati era riuscito a liberarsi dalle catene, liberando tutti gli altri, “si pose a capo di quella turba di disperati assetati di vendetta. Al pari di una marea umana, i galeotti trucidarono i propri carcerieri, uscirono dalle prigioni e attaccarono alle spalle la guarnigione annientandola completamente”.

Le truppe pontificie e spagnole poterono entrare nella città e Barbarossa e Sinam si salvarono per un capello. Ma basto poco tempo per tornare pienamente operativi, seminando rovine e stragi in tutto il Tirreno.

Ma Barbarossa non era solo un volgare tagliagole, ma un capo carismatico e intelligente, coadiuvato da giovani luogotenenti che faranno parlare di sé come AmuratDragut, i calabresi Occhialìe Carascosa, il siciliano baroneScipione Cicala e tanti altri rinnegati destinati a compiere una brillante carriera sotto l’insegna della mezzaluna. Infatti, scrive Petacco, “se leggiamo con attenzione le testimonianze sulle incursioni dei barbareschi nelle località costiere italiane, scopriamo che non sono quasi mai avvenute a casaccio, ma suggerite e pianificate da una ‘mente’ militare. Le loro azioni risultano spesso precedute da un’attenta raccolta di informazioni (confessioni estorte ai prigionieri o delazioni dei rinnegati) e quindi messe a punto come una moderna operazione di commando”.

Infatti in quegli anni la caccia agli infedeli (i giaurri) “era l’attività più redditizia di questi scorridori dei mari, i quali rientravano alle rispettive basi con le fuste stracariche di umanità dolente. Il famoso corsaro Dragut, per esempio, si vantava di avere rastrellato più di seimila schiavi in una sola scorreria contro la ‘lunga terra’”.

Certo dopo aver letto questi libri, si fa fatica comprendere le considerazioni di quelli come Pierangelo Buttafuoco che scelgono l’islam, pensando di essere nella tradizione del nostro Paese, anche se forse, per il giornalista siciliano, rappresenta una specie di vezzo intellettuale, come scrive il blog Qelsi.it.

Per il momento mi fermo, nel prossimo intervento racconterò meglio il dramma di quei poveri cristiani strappati alle loro case e ai loro cari, dalle coste italiane.

la roccia n. 5

Mi è già capitato altre volte, a settembre quando inizia la scuola, la mia piacevole e faticosa attività di giornalista freelance subisce qualche contraccolpo, si presentano varie tentazioni, prima fra tutte quella di lasciar perdere, con la solita frase che risuona nell’orecchio: “chi te lo fa fare”. Quest’anno però l’arrivo del nuovo numero de “La Roccia”, e la sua veloce lettura, mi ha trasformato, in un certo senso rinvigorito, ricaricato, per continuare quell’umile opera di testimonianza missionaria a cui ciascun credente è chiamato a fare, ognuno secondo i propri talenti.

Ricomincio a scrivere presentando questa rivista, nata a gennaio di quest’anno, edita dalla casa editrice Shalomsrl. Esce ogni due mesi, nata per “seguire il Papa sempre”, infatti in ogni copertina primeggia una immagine di papa Francesco, ma soprattutto è una rivista per dare una spinta alla Nuova Evangelizzazione. E’ diretta da Marco Invernizzi, che oltre ad essere un esponente di punta di Alleanza Cattolica, è collaboratore dagli anni 90 della battagliera Radio Maria.

Ma c’era bisogno di un’altra rivista cattolica? Certamente si, se intende seguire, come ha scritto nel 1° numero il direttore Invernizzi, il Magistero non di un Papa, ma del Papa, cercando di incarnarlo nelle scelte di apostolato, nei criteri e nelle valutazioni che sono all’origine delle nostre azioni. Questo comporta di seguire, di leggere i suoi interventi, encicliche, discorsi, omelie e catechesi. Mi pare che “La Roccia”, sta adempiendo nel migliore dei modi questo compito.

Nella storia della Chiesa, soprattutto degli ultimi due secoli, dopo l’esplosione delle ideologie, il laico cattolico ha avuto spesso bisogno di una bussola, di un punto di riferimento, di un giornale, di libri per poter difendersi meglio dagli attacchi più o meno violenti delle ideologie che via via si sono presentati nella storia. La storia del movimento cattolico italiano è piena di iniziative culturali, penso a don Davide Albertario a don Giacomo Margotti, che alla fine dell’Ottocento hanno fondato battagliere pubblicazioni, ma anche a don Giacomo Alberionecon la sua vasta opera della famiglia Paolina. Pertanto anche nel nostro tempo servono riviste, pubblicazioni per “evangelizzare la cultura” come auspicava il beato Paolo VI.

La Roccia, è arrivata alla quinta uscita, nell’ultimo numero di settembre-ottobre oltre al consueto editoriale del direttore si possono leggere interessanti e documentati articoli di sicura dottrina, scritti in maniera agevole da collaboratori attenti e preparati.

Il bimestrale è un ottimo strumento per i laici cattoliciper essere “testimoni di una Chiesa che ‘esce da se stessa’. Papa Francesco seguendo il costante Magistero dei suoi predecessori, “ha sempre insistito nei sui interventi per promuovere una Chiesa missionaria, - scrive Invernizzi nell’editoriale - orientata a evangelizzare le periferie, non soltanto quelle geografiche dove vivono i poveri della terra, ma anche quelle esistenziali, frutto del peccato, del dolore, dell’ignoranza e dell’assenza della fede, dell’ingiustizia”. Invernizzi, biasima i frequenti brontolii, le polemiche, gli scontri fra scuole diverse, di queste settimane e mesi che circolano nel mondo cattolico.Tuttavia “è come se, davanti a un mondo di evangelizzare e ricostruire, ci si perdesse nelle miserie umane, che pure ci sono e ci sono sempre state, anche perché non ogni diversità di opinione è un’eresia e la Chiesa, felicemente, non è una caserma”. Pertanto secondo il direttore della rivista ai cattolici di oggi manca quello “zelo apostolico, - di cui parlò il cardinale Bergoglio -, il desiderio di evangelizzare a 360 gradi, senza pregiudizi ideologici. Dobbiamo parlare a chiunque, non soltanto a quelli che sono più in sintonia con la nostra impostazione culturale”.Invernizzi ritorna sulla grande importanza della manifestazione per la famiglia del 20 giugno a Roma. Qui “finalmente il laicato cattolico in autonomia, e senza il permesso previo di alcun vescovo ‘vescovo pilota’ hanno promosso una grande manifestazione pubblica per affermare la bellezza della famiglia…”.

A proposito della manifestazione, il nuovo numero evidenzia l’intervista al promotore dell’iniziativa, il neurochirurgo bresciano professor Massimo Gandolfini, presidente nazionale del Comitato “Difendiamo i Nostri Figli”. Un evento organizzato in soli 18 giorni, senza sovvenzioni o sponsor, senza nessuna collaborazione dei mass-media che non hanno voluto diffondere la notizia dell’evento e soprattutto senza nessun bisogno di “vescovi pilota”. Si perché i laici come sancì il Vaticano II, hanno un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione della società e poi ancora ribadito da san Giovanni Paolo II con la Christifideles laici, infine per ultimo il santo padre Francesco. Certo i laici si devono muovere in autonomia, ma che non significa “distacco” dai pastori, hanno sempre bisogno della “chiarezza dottrinale magisteriale, strumento indispensabile perché si formino ‘coscienze rette’ e non autoreferenziali, ove si può dire tutto e il contrario di tutto”.

Il professore Gandolfini risponde a quelli che hanno criticato l’importante evento, a quelli che hanno detto che non c’è bisogno della piazza, che è meglio la testimonianza personale e che non bisogna contrapporsi al Governo alzando muri. O a quelli che sostengono che è più importante il lavoro culturale-formativo. Per Gandolfini, sono tutte polemiche artificiose, perché già molte associazioni, i promotori stessi, questo lavoro l’hanno sempre fatto. Per esempio Alleanza Cattolicache fa parte del Comitato organizzatore, nei suoi oltre quarant’anni di attività si è mossa sempre nell’ambito culturale e sociale. Poi per quanto riguarda l’alzare i muri e urlare, non siamo noi a farlo, piuttosto è la militanza omosessualista a farlo che ha reagito come sempre in maniera scomposta alle nostre prese di posizione contro l’ideologia del gender e il ddlCirinnà.

Segnalo altri interessanti interventi presenti nella rivista, in particolare quello dell’economista Ettore Gotti Tedeschi, già presidente dello Ior, conosciuto per avere contribuito in modo importante a diffondere l’idea che l’inverno demografico, cioè il fatto che in Italia dagli anni ’70 nascano sempre meno bambini, non sia una delle tante problematiche che affliggono il Bel Paese, ma sia la questione che ha originato la crisi economica che stiamo vivendo e dalla quale non si riesce a uscire, volendo negarne le vere origini.

Nelle prime pagine de La Roccia troviamo due interventi sull’imminente Sinodo sulla Famiglia. Lo sottoscrivono Andrea Morigi e Massimo Introvigne. Il primo segnala che continuano le pressioni dei mezzi di comunicazione per creare l’idea di un “Sinodo parallelo”, diverso da quello reale. Così come avvenne per il Concilio Vaticano II, per Morigi, “si vuole proporre un Sinodo diverso da quello dei documenti: il primo progressista, aperto, rivoluzionario, contrapposto al secondo, oscurantista e retrogrado”. Mentre Introvigne, vede una vera e propria “intossicazione” dei documenti, dei testi del Sinodo, da parte dei mass-media. Si assiste a una “forzatura dei testi, facendogli affermare quello che si desidera, a prescindere dal reale contenuto. Oppure tacendo quanto vi è scritto chiaramente”. Ci sono titoli sparati in prima pagina su come il Sinodo si appresterebbe a rivoluzionare la dottrina della Chiesa in tema di famiglia, ammettendo il divorzio e aprendo perfino alle unioni omosessuali. Del resto avviene la stessa cosa ai vari documenti della Chiesa, “ci sono addirittura pontificati presentati secondo una classificazione maliziosa”, scrive Introvigne.Quel che è grave che anche molti cattolici bevono con entusiasmo questa alterazione della verità.

Infine la rivista ci regala altri e ben scritti articoli, che certamente aiutano chi vuole essere un vero apostolo della nuova evangelizzazione.

 

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