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Copertina del libro

 

In quest'“Anno della Fede” sono apparse nelle librerie religiose, ma anche laiche, diverse pubblicazioni che si propongono di ri-spiegare (o riassumere sinteticamente) le verità fondamentali della religione cristiana per il grande pubblico, che rappresenta poi la maggioranza di chi non frequenta la Messa domenicale e le principali feste di precetto (come si chiamavano un tempo) dell'anno liturgico. Il testo che raccoglie l'ultimo ciclo di conversazioni radiofoniche tra padre Livio Fanzaga, il direttore della popolare “Radio Maria” e il giornalista collaboratore de Il Timone, Saverio Gaeta, appena uscito dalla casa editrice milanese Sugarco, per l'estrema chiarezza e sistematicità dei contenuti, non disgiunta tuttavia dal rigore che la materia stessa richiede, si presenta da questo punto di vista come una delle più riuscite operazioni dell'anno (cfr. P. Livio Fanzaga – Saverio Gaeta, Il Cristianesimo non é facile ma é felice, Sugarco, Milano 2012, Pp. 147, Euro 15,50). Il singolare titolo è dato, come spiega in avvio il religioso scolopio (appartenente cioé all'isituto religioso dei “Chierici regolari poveri della Madre di Dio delle scuole pie”, fondato da San Giuseppe Calasanzio (1557-1648)), da una celebre affermazione di Papa Paolo VI (1897-1978) che governò la Chiesa nel quindicennio (1963-1978) forse più turbolento della seconda metà del Novecento. Eppure è stato proprio lui “uno dei Pontefici che maggiormente hanno parlato della gioia che é connessa alla vita cristiana e che é fondamentale nella 'Buona Notizia' proposta dal Nuovo Testamento” (p. 7). Oggi più che mai si tratta di un punto nodale, soprattutto perchè l'uomo contemporaneo, sedotto dalle varie mode della modernità, fatica sempre di più a vedere oltre il proprio quotidiano. Apparentemente tutti dicono di volere la felicità ma non sempre sono poi disposti ad andare oltre le luci effimere del mondo: “La nostra vita é una ricerca della felicità. Se l'uomo anela alle piccole gioie della vita, tutte limitate ed esposte alla fragilità della condizione umana, resta sempre sullo sfondo una inappagata fame di felicità” (p. 8). Diversa é invece la lezione immortale dei grandi Santi che restano, anche in tempi di relativismo culturale dominante, figure ammirate dalle persone di più diversa estrazione: “San Francesco [riassunse la fame di felicità] nella locuzione 'perfetta letizia', invitando tutti i suoi frati a ricercarla: quella gioia non illusoria, capace di resistere alle insidie del tempo e del male. E sant'Agostino aveva spiegato che «il nostro cuore é inquieto finché non riposa in Te». L'amore perfetto deriva unicamente da Dio, che é Amore, e ci é stato donato da Gesù Cristo” (p. 8). Fatta questa premessa, ne segue che la decisione fondamentale 'per Dio', impostando cioé la vita su di Lui e i suoi insegnamenti é la prima cosa da fare per mettersi sulla strada della vera e autentica felicità. La vita cristiana – tratteggiata negli otto capitoli che compongono l'opera – emerge così come l'unica risposta plausibile alla vocazione all'infinito che risiede nel cuore di ogni uomo.

Come sempre, padre Fanzaga, non utilizza mezze misure: “Non c'è altro modo per realizzare pienamente la propria esistenza, se non scommettendo ogni istante della nostra vita sulla persona di Cristo. Si tratta, in sostanza, dell'esperienza dell'amore pieno e definitivo verso Dio Trinità, che prende avvio nel momento in cui ci si scopre amati da lui. Una sola scintilla dell'amore di Dio, se tocca il nostro cuore, é capace di accendere una fiamma così viva e così forte che nessuna tempesta riscirà mai a spegnerla” (pp. 8-9). E' questo il tema del capitolo d'esordio (“La vita cristiana vocazione all'inifinito”, pp. 7-23) in cui viene lumeggiato il carattere personalistico della fede cristiana (che è essenziamente una relazione personale con la Persona di Gesù Cristo) e la consapevolezza di fondo che anima il fedele per cui “amare Dio é il fine della vita” (p. 9). Il secondo capitolo, invece (“Il Decalogo del vero amore”, pp. 25-42) illustra sinteticamente il valore e il senso dei Dieci Comandamenti che tracciano il cammino morale della vita non solo cristiana ma anche propriamente umana: “All'uomo del nostro tempo occorre far comprendere che il Decalogo é certamente una formulazione scritta che Dio ci ha donato attraverso la rivelazione. Ma, ancor prima, la legge morale che i dieci comandamenti esprimono é in realtà già inscritta nella coscienza di ogni uomo. E anche chi appartiene ad altre religioni percepisce in qualche modo l'attualità di queste dieci parole. Il punto fondamentale é far sì che tutte le persone sentano veri nel loro cuore i dieci comandamenti, percepiscano che senza il Decalogo non ci si può veramente realizzare” (p. 27). Viene quindi completamente ribaltata l'ottica comune, alquanto diffusa, secondo cui i comandamenti impedirebbero la felicità: al contrario è solo nel loro rispetto che ci si può veramente realizzare, come le stesse vite dei Santi esemplificano. Poi, “dal punto di vista pastorale occorre aiutare a comprendere che i dieci comandamenti, oltre che un progetto personale, sono anche un progetto comunitario, che investe la convivenza sociale. Senza i comandamenti, la nostra diventerebbe una società dove si avvera l'immagine dell'homo homini lupus (l'uomo è lupo all'uomo)” (p. 27) del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679). L'esistenza sulla terra, così, assume i tratti del pellegrinaggio, giacchè qui siamo solo di passaggio, e del combattimento senza sosta fra il bene e il male che andrà avanti fino alla fine del mondo, prima del ritorno glorioso di Cristo (si veda il terzo capitolo, “Bene e male si confrontano”, pp. 43-67). In questa battaglia, però, è bene sottolinearlo, la Chiesa non ci lascia soli: ci offre infatti anzitutto i Sacramenti e la Parola di Dio che danno al fedele cristiano la forza per andare avanti nelle numerose prove e traversie che non mancheranno (è il tema del quarto capitolo, “L'Eucaristia e la Parola di Dio”, pp. 69-82).

Centrale è poi la preghiera che da sempre è il vero carattere distintivo del cristiano: se anche si sono ricevuti i Sacramenti dell'iniziazione alla vita cristiana (Battesimo, Comunione, Cresima), infatti, senza preghiera è molto probabile – anzi, quasi certo – che prima o poi si farà naufragio nella fede. Il motivo va ricercato appunto nel fatto che – essendo per ognuno l'esistenza terrena una battaglia per la salvezza eterna dell'anima – l'appartenenza a Cristo e la sua sequela vanno confermate ogni giorno. Se non lo si fa, e non si vive al contempo una vita di Grazia, la capitolazione alle mode del mondo e alle sue ideologie è solamente questione di tempo. A tutto questo sono dedicati non a caso i due capitoli forse più importanti del libro, ovvero il quinto e il sesto (intitolati rispettivamente “Il significato dell'orazione”, pp. 83-94, e “Le preghiere e le devozioni”, pp. 95-113). Gli ultimi due invece (“Testimoni dinanzi al mondo”, pp. 115-129 e “Il cammino verso l'eternità”, pp. 131-147) rispondono alle obiezioni più comuni che vedono oggi il Cristianesimo come imputato. A quanti ad esempio accusano la religione cristiana di essere superata padre Fanzaga obietta a sua volta: “che cosa [costoro] offrono in cambio? Forse una visione più profonda e più felice della vita?No, danno semplicemente spazio ai vecchi vizi dell'umanità. Lo chiamano superamento del Cristianesimo, ma in realtà è il ritorno del Paganesimo. Chiamano modernità l'attività più antica dell'uomo: quella di peccare. Chiamano emancipazione la seduzione dell'antico serpente. La religione del mondo d'oggi non è forse il culto del denaro, del sesso, del divertimento, del potere, dell'apparire?Non é forse vero che, oggi come ieri, non pochi uomini per un pugno di denaro sono pronti a commettere qualsiasi delitto?Mentono, ingannano, rubano, stuprano, uccidono, come gli uomini di tutti i tempi. E' vero, anche i cristiani cedono al male, ma loro sanno che é male e che senza conversione periranno. L'inganno nel quale si rischia di cadere é di pensare che occorra disfarsi della fede per realizzarsi nella vita. Il superamento del Cristianesimo viene presentato come un passo decisivo in avanti. In realtà é solo il ritorno dei vecchi idoli pagani, simbolo dei vizi che rendono schiavo l'uomo” (p. 128).

La copertina del saggio

 

Il pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), ancorchè tuttora poco noto al grande pubblico in Italia, è stato uno dei più eminenti esponenti della dottrina detta 'controrivoluzionaria' del secolo passato. Se solo si accostano onestamente le sue pagine, non si può negare che molte (se non quasi tutte) delle sue analisi e diagnosi sulla decadenza morale e spirituale della società occidentale si siano poi puntualmente avverate. Grazie al lavoro di Guido Vignelli, che del pensiero controrivoluzionario in Italia da decenni è uno dei più preparati studiosi (si veda anche la sua recente traduzione di un'opera-chiave della produzione di Joseph de Maistre (1753-1821), le Considerazioni sulla Francia, Editoriale Il Giglio, Napoli 2010) è finalmente disponibile in una nuova e più aggiornata traduzione un saggio - oggi come allora politicamente scorrettissimo - di Corrêa de Oliveira che ebbe notevole eco negli anni Sessanta, quando uscì per la prima volta, Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo (cfr. P. Corrêa de Oliveira, Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo. Note sulla guerra psicologica contro i cattolici. Con postfazione di Guido Vignelli, Editoriale Il Giglio, Napoli 2012, Pp. 128, Euro 15,00). Per l'occasione la “Presentazione” (pp. 5-7) è firmata da S.A.I.R. Dom Bertrand de Orléand e Bragança, Principe Imperiale del Brasile e pronipote di Teresa Cristina di Borbone- Due Sicilie (1822-1889) che conobbe e frequentò a lungo il pensatore brasiliano tanto da finire con l'impegnarsi “totalmente nella lotta contro-rivoluzionaria” (p. 6). Anch'egli sottolinea il valore letteralmente antiveggente dell'opera giacché “scritta nel 1965, essa contiene insegnamenti perfettamente attuali” (ibidem) cosicchè oggi “nello scrutare le cause profonde di quell'immane processo rivoluzionario che ha rovesciato istituzioni millenarie, colpendo anche la Santa Chiesa cattolica e minacciando di estinguere ogni traccia di civiltà cristiana, non possiamo non riflettere sul fatto che, al cuore, troviamo il venir meno dello spirito militante in coloro che avrebbero dovuto invece difendere la Tradizione” (ibidem). La questione di fondo, per i cattolici e quanti si richiamano al primato del buon senso e della legge naturale sulle mode e le tendenze effimere, è che “sostituendo l'apologetica col dialogo, la militanza con l'ecumenismo acritico, la lotta con l'accomodamento, i difensori della Tradizione – sia spirituale che temporale – sono stati progressivamente corrosi dal virus del relativismo, nemico mortale di ogni principio religioso e politico. E le conseguenze sono lì, davanti ai nostri occhi” (ibidem).

Si tratta quindi di affrontare finalmente il relativismo, e i suoi numerosi figli e figliastri, come un vizio in radice intellettuale e spirituale e, in quanto tale, da sradicare. La successiva “Introduzione” all'opera (pp. 9-13) spiega a grandi linee come questo processo ha avuto luogo nel linguaggio, dove l'allora propaganda comunista (oggi relativista) ha distorto numerosi vocaboli con l'obiettivo di fuorviare la percezione dei singoli, e della società, verso di essi. Le parole sono diventate così “una specie di talismano” (p. 9) in grado di esercitare sulle persone un effetto psicologico specifico che non ha tardato a manifestarsi in tutta la sua nocività. Tra queste la più formidabile è stata senz'altro il termine 'dialogo', “parola, questa, di un significato multiforme ed enigmatico” (p. 11) che - complice una massiccia propaganda pubblica e massmediatica trasversale - si è progressivamente affermata come una sorta di nuovo idolo da adorare, e adottare, producendo al tempo stesso in chi la utilizzava un sensibile mutamento delle proprie idee e tendenze morali e intellettuali: un vero e proprio disarmo interiore, insomma, che ha finito per dare luogo al famoso 'trasbordo ideologico inavvertito' di cui al titolo.

L'autore lo illustra in dettaglio nei quattro capitoli che compongono il saggio: nel primo (“La nuova tattica comunista: azione persuasiva del subconscio”, pp. 15-23) Corrêa de Oliveira si sofferma sul carattere “essenzialmente innaturale” (p. 17) del comunismo che lo ha reso nei secoli così inviso a ogni comunità, occidentale e non, a ogni latitudine del globo. La sola ed unica 'grandezza' (sottolineando qui accuratamente e abbondantemente il senso eufemistico delle virgolette) dell'ideologia marxista è stata infatti la carica di violenza su ampia scala che essa è stata in grado di innnescare o anche solo di minacciare con effetti-deterrente non sempre auspicabili: “se infatti il comunismo è nulla in quanto forza costruttiva, è qualcosa in quanto forza distruttiva” (p. 19) come le pagine più recenti della storia contemporanea (e persino la cronaca attuale, si pensi soltanto a quanto avviene quotidianamente nei regimi cinese, nordcoreano o vietnamita) hanno dimostrato. Qui l'autore aggiunge una postilla decisiva - sempre ribadita dal Magistero pontificio - un tempo peraltro generalmente più condivisa di oggi e cioè che il legame tra comunismo e liberalismo è più stretto e, staremmo per dire, 'fisiologico' di quanto solitamente si pensi da parte dell'uomo-medio della strada. In effetti, le due ideologie (e che, proprio in quanto tali, evidentemente, rifiutano alla base i dati di realtà) superficialmente in opposizione, hanno ben più di un punto in comune. D'altra parte, storicamente, fu proprio il liberalismo “che trionfò con la Rivoluzione Francese [a spargere] nell'Occidente i germi del comunismo” (p. 21) e contribuendo così all'accelerazione del moto rivoluzionario nel suo insieme. Né è un caso che sui principi non negoziabili le due correnti oggi convergano ampiamente e anzi teorizzino finalmente la loro distruzione con le stesse identiche motivazioni (l'insindacabilità dell'autodeterminazione nel caso dell'aborto, l'adattamento ai tempi che cambiano nel caso delle coppie di fatto, l'antiproibizionismo come valore assoluto nel caso della droga, etc.). Il secondo capitolo (“Il trasbordo ideologico inavvertito”, pp. 25-32) illustra invece la tecnica della persuasione tipica che dà luogo al trasbordo ideologico. Questo in buona sostanza consiste “nell'agire sullo spirito altrui, portandolo a cambiare ideologia senza che se ne accorga” (p. 28) e, al contempo, emarginare dal dibattito pubblico tutti coloro che si ostinano a promuovere un pensiero forte etichettandoli come fanatici, estremisti e persino pericolosi per l'ordine sociale. Strumentale a tale processo è la diffusione in modo esponenziale delle parole-talismano che - mutate ad hoc dalla propaganda relativista - finiscono per cambiare il senso stesso della realtà (si veda il terzo capitolo, “La parola-talismano, espediente del trasbordo ideologico inavvertito”, pp. 33-39). La parola 'dialogo' da questo punto di vista rappresenta forse il successo più evidente della guerra psicologica conro i cattolici e del relativo processo di manipolazione del reale: se oggi si vuole avere una qualche chance d'influire sull'opinione pubblica occorre previamente fare ammissione di volontà di dialogo e ascolto, su qualsiasi argomento e indipendentemente dall'interlocutore. Una persona che invece, poniamo, non volesse dare pubblicità (anche solo ascoltando) alla diffusione delle droghe semplicemente perchè non c'è niente da discutere, verrebbe additato subito come un 'bigotto' e un 'talebano', persino in ambienti – tendenzialmente – a lui più prossimi dal punto di vista culturale. Ma anche se si ostinasse (pure dopo un paziente confronto) a ripudiare ragionevolmente senza se e senza ma ogni sollecitazione avversa verrebbe comunque visto come un nemico dell'ordine sociale proprio perchè non negozia sui princìpi (si veda in dettaglio il capitolo quarto, “un esempio di parola-talismano: 'dialogo'”, pp. 41-59). E pensare che la pace, in realtà, sarebbe proprio “[quella] tranquillità dell'ordine” (citando il celebre De Civitate Dei Sant'Agostino) che riposa solo sulla verità e sul bene.

La citazione di Sant'Agostino, peraltro, non è casuale: l'autore infatti – polemizzando anche con un certo accomodamento al mondo che ha investito la Chiesa dall'interno negli ultimi decenni – vuole riscoprire il repertorio della buona e sana polemica che fa parte a pieno titolo della Tradizione della Chiesa e delle opere migliori di non pochi tra Santi e Dottori tra cui San Gerolamo (347-420), San Bernardo (1090-1153), San Francesco di Sales (1567-1622). Non solo, ma anche nell'ultimo tumultuoso secolo non sono state certo poche le personalità che hanno contestato la cultura dominante da questo punto di vista esponendosi in prima persona. Nella postfazione alla nuova edizione (“Il mito del dialogo relativista. Una strategia di conquista che continua”, pp. 95-123) Vignelli cita i nomi significativi di Thomas Molnar (1921-2010), Augusto Del Noce (1910-1989), Jean Ousset (1914-1994), Etienne Gilson (1884-1978), nonché – con riferimento diretto alla Chiesa – la predicazione e gli scritti di Cornelio Fabro (1911-1995), Dario Composta (1917-2002), Giuseppe Siri (1906-1989), Enrico Zoffoli (1915-1996). Negli stessi anni di Corrêa de Oliveira, ad esempio, Augusto Del Noce, ugualmente inascoltato, in Italia, lanciava lo stesso grido d'allarme: [egli] “obiettò che i dialoganti occidentali, specie quelli cattolici, erano dominati da un complesso di colpa sul passato (medioevale), da un complesso d'inferiorità sul presente (moderno), da illusioni pacifiste sul futuro, nonché dal rispetto umano verso i 'fratelli separati' e i 'compagni di strada' e dalla ossessione di evitare divisioni e conflitti nella illusione di essere così accettati da tutti” (p. 98). Se questo è vero e se, come scriveva ancora il pensatore brasiliano, il “moderatismo” è il grande eccesso del nostro secolo, per uscire dalla crisi non resta allora che ri-scoprire a pieno titolo, decisamente e con convinzione, l'apologetica, la controversia e la polemica “come mezzi necessari all'evangelizzazione e all'apostolato” (p. 122) e quindi a una visione della vita cristiana alta ed esigente quale militia, impegno e sacrificio recuperando lo spirito d'intransigenza, di missione e di militanza che ha fatto per secoli della Civiltà cristiana una società ineguagliata nella storia dell'umanità.

Le insorgenze.olschki

 

Massimo Viglione, ricercatore dell’Istituto di Storia dell’Europa mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche e docente all’Università Europea di Roma, studioso dell’Insorgenza, cioè delle resistenze in Italia alla Rivoluzione francese e all’invasione napoleonica, ha pubblicato Le insorgenze controrivoluzionarie nella storiografia italiana. Dibattito scientifico e scontro ideologico (1799-2012) (Leo Olschki, Firenze 2013, pp. 132, € 13,60), con cui intende «fornire una presentazione generale dell’intero sviluppo bisecolare della storiografia» (p. V) su questo tema.

La considerazione di fondo di Viglione è che, a distanza di duecento anni dalle ultime insorgenze, il fenomeno comincia a essere più conosciuto, sia a livello storiografico sia presso il grande pubblico, anche se la maggior parte degli italiani non «immagina minimamente ciò che avvenne» (p. VIII).

Per comprendere come sia stato possibile ignorare avvenimenti qualitativamente e quantitativamente significativi della storia della Penisola, Viglione analizza le cause remote e prossime di questo occultamento, l’atteggiamento della storiografia dominante, le principali correnti interpretative e gli argomenti più rilevanti.

Nel primo capitolo, su La storiografia anteriore al bicentenario (pp. 1-56), sono prese in considerazione quattro fasi storiografiche fondamentali — il periodo risorgimentale, quello nazionalistico fino al fascismo, la storiografia filogiacobina del secondo dopoguerra e il grande dibattito per il bicentenario — e tre differenti interpretazioni, legate ad altrettante visioni di fondo: quella nazionalista, quella socioeconomica, o «classista», e quella definita «religiosa e “identitaria”» (p. 2).

A quest’ultima è dedicato il secondo capitolo, L’importante rinascita degli studi in occasione del bicentenario (pp. 57-112) del cosiddetto Triennio Giacobino (1796-1799) e dei connessi moti popolari antirepubblicani e antifrancesi. La nuova corrente storiografica, cui ha dato un apporto fondamentale l’ISIN, l’Istituto Storico dell’Insorgenza, fondato a Milano nel 1995, ha visto negli insorgenti dei combattenti «in difesa della fede cattolica, dei sovrani e della loro civiltà (oltre che dei loro averi, delle loro donne, opere d’arte e terre depredate dai francesi» (p. 58). Ciò ha prodotto da un lato una reazione irritata, e talvolta scomposta, di quanti — nel mondo accademico e in quello dell’informazione — sono legati alla storiografia egemone; dall’altro lato un approfondimento della ricerca sulle insorgenze da parte di molti studiosi, che si sta rivelando ricca di riflessioni e spunti di grande interesse, mostrando che è possibile un nuovo approccio al tema, più sereno e intellettualmente onesto.

Nel capitolo terzo, contenente Cenni conclusivi (pp. 113-122), Viglione riassume la storia della storiografia italiana sulle insorgenze controrivoluzionarie: «al silenzio generale dei decenni risorgimentali ha fatto seguito l’interpretazione nazionalista prima e nazionalista e sociale poi, i cui autori hanno avuto il demerito di adattare gli insorgenti alle esigenze politiche culturali dei loro giorni, ma anche il merito di aver iniziato a raccontare e interpretare gli eventi» (p. 113). Il silenzio e la mistificazione sono tornati nel secondo dopoguerra per motivi ideologici, ma il bicentenario prima della Rivoluzione francese e poi dell’Insorgenza ha stimolato una rinnovata, e più consistente, produzione storiografica. L’auspicio è che nel tempo «si possa costruire, nell’arricchimento vicendevole, una mai omogenea ma comunque generalmente condivisa presentazione della più grande e coinvolgente vicenda della storia degli italiani degli ultimi secoli» (p. 122).

 

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