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La morte della libertà di espressione in Occidente

L'associazione “NONNI 2.0”, ha scritto una sorta di “lettera aperta”(“La libertà, il potere e il pesce rosso”) ideale ai nipoti ed ai loro giovani amici, per metterli in guardia circa il pericolo che il “pensiero unico” minacci la loro libertà di pensiero (articolo 21 della Costituzione) e la libertà di esprimere la loro opinioni. La lettera è nata dal Convegno “Libertà in gabbia” del 18 gennaio scorso presso il Rosetum di Milano

Tale documento, purtroppo, si basa su dati di fatto molto solidi e oramai acquisiti. Si sta usando impropriamente la parola “odio” per squalificare in partenza chi la pensa in modo diverso. Si legge in quella lettera:“Oggi un fenomeno assai diffuso insidia in particolare la libertà di opinione e di azione: si tratta del ‘pensiero unico’. Su un numero crescente di questioni fondamentali il dibattito e il dialogo sono chiusi. La cultura dominante e quindi il grosso dei media impongono come ‘normale’ una certa tesi dalla quale non è ‘politicamente corretto’ dissentire”.

Si possono fare diversi esempi a partire dai temi della vita. Con l’accusa di “omofobia” (parola dal significato incomprensibile) si cerca di mettere a tacere chiunque voglia esprimere, anche nel modo più corretto, il proprio pensiero sui temi sessuali relativi alla omosessualità. La stessa cosa vale per il reato di “islamofobia”: in Francia già vengono condannate penalmente persone che osano dare giudizi negativi su certi comportamenti di elementi islamici.

In un articolo su LaNuovaBQ.it, Peppino Zola, vice presidente dell'associazione “Nonni 2.0”, citando un recente articolo dell’ottima agenzia Asianews.it si legge questo impressionante titolo: “La libertà d’espressione sta morendo, sotto i colpi dell’Inquisizione islamista”.

L’articolo del 27 gennaio scorso è di Kamel Abderrahmani, si legge:“Nel mondo musulmano, la libertà di espressione sta morendo. Nessuno può esprimersi in modo libero, se ciò che pensa va oltre la struttura del pensiero unico e maggioritario. Quando si parla di religione, la pressione si moltiplica, aumenta ed il dibattito è quasi impossibile. In altre parole, mettere la museruola alla voce del pensiero critico sulla religione è un’azione che rientra nella ‘jihad giudiziaria’”. A queste parole, +Zola commenta: «queste parole dovrebbero, innanzi tutto, far riflettere tutte quelle anime belle che guardano con indifferenza all’influenza sempre maggiore che la cultura islamista ha nei Paesi occidentali, Italia compresa. Quel titolo e quelle parole, però, mi hanno fatto considerare che anche in Italia ed in tutta Europa, per certi versi, stiamo andando nella direzione “dell’Inquisizione islamica”. Non siamo ancora arrivati alla “jihad giudiziaria”, anche se qualcuno vorrebbe instaurarla, ma certamente alla jihad culturale già ci siamo». (Peppino Zola “La nuova Inquisizione del "politicamente corretto"”, 8/2/2020 La Nuova Bussola Quotidiana).

Nel 2015 per ricordare l'eccidio islamista della redazione parigina di “Charlie Habdo”, che ha causato l'uccisione di otto fra giornalisti e vignettisti, Giulio Meotti, valente giornalista de Il Foglio, ha scritto un ottimo pamplhet, “Hanno ucciso Charlie Hebdo”, dall'eloquente sottotitolo: “Il terrorismo e la resa dell'Occidente: la libertà d'espressione è finita”, pubblicato dalle edizioni Lindau di Torino.

Il libro ricorda le altre stragi di matrice terroristica islamica come quella del 13 novembre 2015, dove un commando di kamikaze fa strage nei locali notturni della capitale francese, causando 129 morti. Il libro di Meotti è importante leggerlo perchè ripercorre la storia dei casi più clamorosi di estrema intolleranza e aggressione islamista nei confronti di intellettuali, giornalisti o registi occidentali che si sono resi colpevoli di aver offeso la religione islamica. Si comincia con i “versi satanici” di Salman Rushdie, che gli causarono la fatwa lanciata contro di lui dall'ayatolah Khomeini. «La condanna a morte di Rushdie decretata da Khomeini fu il primo sparo di una lunga guerra cultura ancora in corso». Per la scrittrice Nadine Gordimer, nessun scrittore è stato perseguitato come Rushdie, «nessun artista - anche se aveva offeso la morale pubblica o l'ortodossia politica - è stato condannato a una doppia morte». In questa storia Meotti riporta casi di solidarietà nei confronti dello scrittore ma anche quelli di dissociazione come quello penoso di Leonardo Sciascia, quello che coniò il motto “nè con lo Stato né con le Brigate rosse”. Tuttavia man mano che aumentavano le minacce e le violenze contro Rushdie, montava la paura di scrittori, editori di pubblicare il libro.

Nel 2° capitolo Meotti affronta il caso del regista olandese Theo van Gogh, ucciso il 1° novembre 2004 da Mohammed Bouyeri. Van Gogh ha il torto di aver prodotto un cortometraggio Submission sulle condizioni delle donne musulmane insieme a Ayaan Hirsi Ali. «La sua morte - scrive Meotti – è stato la notte di san Bartolomeo della libertà europea. L'Olanda che conoscevamo non esisteva già più. Era stato il solo Paese in cui Voltaire e Spinoza erano riusciti a pubblicare i loro scritti». Dopo la morte di van Gogh, il film diventa proibito per le minacce di morte degli islamisti. Meotti accenna anche al delitto di Pim Fortuyn, il politico olandese, equiparato dall'intellighenzia progressista a Hitler e Himmler, «sommerso di minacce di morte e ingiurie nella sua casella vocale e postale, accusò i giornali, gli intellettuali e i politici di incitare alla sua liquidazione, fisica e politica: 'se mi succede qualcosa, loro sono corresponsabili [...]». Un altro caso di intolleranza islamista è quello nei confronti del politico Geert Wilders, che vive tuttora sotto minaccia.

Il 3° capitolo è dedicato alle vignette del danese di Fleming Rose del giornale  “Jyllands Posten”. Non sono stati solo gli islamisti a lanciare una fatwa contro Rose, ma anche il ceto giornalistico ne ha lanciato una scrive Meotti. Il giornalista danese la racconta (la “fatwa bianca”) in un libro, “De Besatte”, cioè “Gli ossessionati”. “E’ la storia di come la paura mangia le anime, le amicizie e le comunità professionali”, scrive Rose, che si è formato accanto ad Andrej Sacharov e ad Alexandr Solzenicyn, in qualità di corrispondente da Mosca del suo giornale. Rose racconta come all’interno del suo stesso giornale gli fecero terra bruciata attorno, costringendolo alla resa e al silenzio.

Rose mette sotto accusa il suo ex direttore, Jorn Mikkelsen, che con i vertici dell’azienda gli fece firmare un accordo in nove punti, in cui il giornalista accettava, fra altre clausole, di “non partecipare a programmi radio e tv”, “non partecipare a conferenze”, “non commentare su questioni religiose”, “non scrivere della Organizzazione della conferenza islamica” e “non commentare sulle vignette”.

Nonostante tutto questo, oggi la sede del quotidiano “Jyllands-Posten” è circondata da una barriera di reti, sbarre e lastroni metallici che circonda per un chilometro il terzo giornale danese e da 120 videocamere. Questo è il prezzo pagato per la libertà di parola e di informazione.

Il libro di Meotti raccoglie altre testimonianze significative di giornalisti, scrittori che hanno subito la “Jihad culturale” e quindi l'autocensura. «Numerose istituzioni culturali hanno scelto l'autocensura: Il Metropolitan Museum of Art di New York ha rifiutato, per timore di attentati, di esporre le vignette danesi. Le edizioni della Yale University Press hanno pubblicato il libro di Jytte Klausen, The Cartoons That Shook the World, dedicato alla storia delel caricature, senza riprodurre le vignette».

Ha scritto Christopher Hitchens: «la capitolazione della Yale University Press è il peggiore episodio della resa all'estremismo religioso musulmano che si sta diffondendo in tutta la nostra cultura».

Praticamente, «l'autocensura e la dhimmitudine intellettuale ha raggiunto uno dei più prestigiosi atenei americani, uno dei simboli della libertà di pensiero negli Stati Uniti». Una romanziera tedesca, la Brinkmann, rimasta senza casa editrice, per non piegarsi all'autocensura, ha commentato: «E' uno scandalo per un editore mettere la coda tra le gambe in questo modo. Si tratta di obbedienza preventiva». Quelli che si sono censurati, hanno fatto come ai tempi dell'Unione Sovietica.

Di questo passo si potrebbe vietare tutto. I nostri Musei sono pieni di opere d'arte che potrebbero “disturbare” gli islamisti.

L'ultimo caso preso in esame da Meotti è la censura nei confronti di Papa Benedetto XVI, quando ha fatto la lectia all'università di Ratisbona. «Il linciaggio politico, religioso, diplomatico e ideologico di Ratzinger assunse una forza e una estensione sensazionali. Feroce fu la campagna di criminalizzazione del Papa». Scrive Meotti, «Nelle tante vignette sulla stampa occidentale e islamica, Benedetto XVI compare con le sembianze di Dracula con la bocca sporca di sangue e una scritta in rosso:Decapitatelo». E tanti altri pesanti vituperi.

Il libro di Meotti dimostra che oggi l'Occidente è perseguitato da una cultura strisciante del conformismo. Il suo libro «ripercorre per la prima volta la storia di trent'anni di guerra e attacchi alla libertà di espressione». Meotti ci interroga: «gli occidentali difenderanno la loro civiltà storica di fronte agli attacchi sferrati dagli islamisti oppure cederanno alla legge islamica e si sottoporranno a una sorta di cittadinanza di seconda classe?  A questo proposito scrive il 'Wall Street Journal': «L'Europa è patria di una nuova generazione di dissidenti. Oggi i loro oppressori non sono più i sovietici ma l'islam radicale».

In Unione Sovietica sono stati annientate schiere di scrittori, circa millecinquecento sono scomparsi nei gulag, molti fucilati, imprigionati, deportati, esiliati. «In Unione Sovietica uno scrittore doveva scegliere tra annichilire le proprie capacità intellettuali ma godere di mangime che il regime gli elargiva, e combattere per continuare a creare, a costo di perdere tutto. Alcuni eroi scelsero la seconda strada. Di loro – scrive Meotti – dobbiamo ricordarci sempre, oggi che in Europa si torna a mettere in discussione la libertà di espressione». Meotti elenca quelli più noti, da Salomov a Florenskij. Aleksandr Solzenicyn poteva scrivere: «eravamo già rassegnati a non dire e a non ascoltare la verità».

 

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