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Caso Di Maio, il governo scivola verso la crisi

Tira aria di crisi. Le Europee con il flop del Movimento 5 Stelle e con il boom della Lega di fatto hanno aperto un fronte di battaglia all'interno della maggioranza.C'è una cosa, una sola, su cui Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono d'accordo: con ogni probabilità il governo cadrà. Intesa anche sulla road map verso l'abisso giallo-verde: crisi tra fine giugno e inizio luglio, scioglimento del Parlamento dopo rapide consultazioni di Sergio Mattarella a metà luglio. Data presunta del voto: il 29 settembre o la domenica successiva, appena in tempo per permettere al governo che verrà di scrivere la legge di bilancio da inviare alla Commissione europea

Il Carroccio sa bene che capitalizzare il successo delle Europee in chiave nazionale potrebbe dare slancio alla stessa Lega e al tutto il centrodestra per tornare al governo senza la stampella grillina. Ma di certo gli scenari su un voto anticipato per il momento restano sotto traccia. Prima di aprire all'ipotesi di un ritorno alle urne bisogna capire quale possa essere il destino di Di Maio che oggi viene "processato" dagli iscritti grillini sulla piattaforma Rousseau. Come anticipato da ilGiornale, al Colle è già scattato l'allarme e Mattarella sembra abbastanza scettico sulla tenuta di questo esecutivo gialloverde. E lo scetticismo è ormai arrivato anche a palazzo Chigi. Conte non si sente più al sicuro. E così, come riporta la Stampa, in Parlamento e tra le mura del governo comincia già a circolare la data di un possibile ritorno al voto per il prossimo 29 settembre.

Il nodo, a questo punto, è chi spengerà la luce. Chi soffierà sul classico cerino. A palazzo Madama i leghisti sono convinti che saranno i dissidenti grillini a far cadere il governo su qualche votazione. Ad esempio sul decreto sblocca cantieri. Giorgia Meloni invece è pronta a scommettere che sarà Salvini: «I 5Stelle non hanno interesse a consegnarsi mani e piedi legati al programma della Lega e alla fine Matteo romperà».

Di sicuro c'è che Salvini, in caso di crisi, non intende dar vita a un altro governo: «Con quale maggioranza? Io maggioranze con gli Scilipoti e i cambia bandiera non ne faccio. Io mi rifiuto di raccattare tre senatori qui e dieci deputati là». L'obiettivo: arrivare al 40% da solo, semmai alleato con Fdi. E uno studio dell'istituto Cattaneo dice che è possibile.

Conclusione, visto che impensabile un'alleanza tra i 5Stelle e il Pd, dopo un rapido giro di consultazioni e constatato che in Parlamento non c'è una maggioranza in grado di sostenere un nuovo governo, Sergio Mattarella scioglierà il Parlamento. Tentativi per esecutivi tecnici il Presidente non ne farà. E manderà tutti a casa giusto in tempo per votare il 29 settembre. Dopo si aprirà il capitolo delicatissimo della legge di bilancio: un dossier sul quale il capo dello Stato non vorrà né pasticci, né azzardi. «I risparmi degli italiani vanno difesi», è il comandamento del Colle.

A quanto pare i Cinque Stelle sono convinti del fatto che Salvini possa andare alla rottura. Ma non sul caso Rixi. I pentastellati notano una certa prudenza nei toni sulla vicenda che riguarda il viceministro alle Infrastrutture. Per i pentastellati il casus belli potrebbe essere un altro. I grillini sussurrano che "Salvini fa cadere il governo solo se può addossare tutta la colpa ai pentastellati". Di fatto lo scenario più probabile pare quello di una rottura sulla manovra e soprattutto sul piano fiscale fortemente voluto dalla Lega. E qui entra in gioco la flat tax che per i 5 stelle è per il momento "irrealizzabile". Solo un "no" dei grillini ad una forte riduzione della tasse potrebbe portare ad una rottura dell'asse di governo con un Salvini che si presenterebbe alle urne con la promessa di uno choc fiscale. E tra le righe dei retroscena emerge anche l'ipotesi di un rimpasto di governo con un ministro dell'Economia leghista: "Così si prendono tutte le responsabilità economiche. Vediamo cosa sanno fare...", sussurrano i pentastellati a la Stampa. Insomma l'ora della resa dei conti è vicina. Salvini dovrà scegliere tra due strade: abbandonare i 5 Stelle e andare al voto oppure quella di un rimpasto con un esecutivo a trazione leghista che però avrebbe sempre il bastone grillino tra le ruote...

Ha messo agli atti un vero e proprio ribaltone elettorale. E ora, forte di questa legittimazione popolare, è intenzionato a dettare l'agenda. Perché ha il dente avvelenato con Di Maio, che l'ha attaccato «con ogni mezzo, anche con i più squallidi» in campagna elettorale. E perché, ora che è il più forte, anche con un filo di perfidia quasi si diverte a far ingoiare ai grillini tutto ciò che per loro è indigeribile e per la Lega è fonte di consenso: il sì alla Tav, all'autonomia differenziata, a una riforma penale «garantista e non manettara» che porti alla revisione del reato di abuso di ufficio e alla separazione delle carriere. E soprattutto il sì alla flat tax: il vero cavallo di battaglia (ora che il tema dei migranti è stato metabolizzato dall'opinione pubblica) del capo leghista. Non a caso, in risposta a Beppe Grillo che ieri l'ha definito «un personaggio unicamente virtuale», Salvini ha detto: «Non ho tempo per le polemiche, io lavoro per la rivoluzione fiscale e a far pagare meno tasse a famiglie e imprese».

Di Maio, fiutata l'aria, è convinto che Salvini mostri la faccia feroce e intenda buttarlo con le spalle al muro perché «vuole umiliarci, spingerci a rompere e andare a votare alla prima finestra utile: il 29 settembre».

Il quadro, insomma, è destinato a non reggere. E non solo perché, come ha confidato il capo grillino, «se dovessimo piegarci e ingoiare tutte le proposte leghiste, a fine anno saremmo sotto il 10%, se va bene...». Ma anche perché, così debole e azzoppato, Di Maio anche volendo - per evitare di tornarsene a casa e di disperdere il cospicuo patrimonio di seggi parlamentari incassato il 4 marzo 2018 - non potrebbe accogliere le richieste di Salvini: l'ala sinistra dei 5Stelle, quella incarnata da Di Battista e Fico, non glielo consentirebbe.
C'è poi, e soprattutto, il problema di Giuseppe Conte. Dopo il no alla Tav e il licenziamento del sottosegretario leghista Armando Siri, il premier riceve ormai legittimazione esclusivamente dalla parte uscita tramortita dalle elezioni. E si trova adesso, per ironia della sorte, a dover applicare il programma del leader leghista che alla vigila delle elezioni l'aveva sfiduciato, definendolo «non più super partes». Operazione molto complessa, quasi impossibile, come ha confidato Conte l'altra sera: «Non posso subire un diktat al giorno da Salvini, così non reggo e non regge il governo».

Conclusione: il programma giallo-verde è destinato a impantanarsi. Ma ora non si può più, come è avvenuto in campagna elettorale, rinviare il Consiglio dei ministri di settimana in settimana per evitare zuffe e bloccare i provvedimenti della Lega. Salvini, l'ha detto chiaro al premier, non lo consentirebbe.

Intanto Il destino del Paese, o piuttosto di chi ne regge le redini, è in questo girare inesorabile delle lancette. Come sottolinea il giornale Giuseppe Conte, il premier, la Commissione europea con le sue «lettere» minacciose, i dioscuri verde-gialli (visto giallo-verdi non lo sono più). Quarantotto ore in cui il popolo del web, quello che si considera civile soltanto a colpi di mouse sopra la «piattaforma Rousseau», dovrà mettere un pollice alto, un like, sulla permanenza (resistenza) di Di Maio alla guida di un Movimento che ha perso molte e sei milioni di voti nel giro di poco più di un anno. E i destini di Di Maio, dei conti pubblici italiani , e di Giuseppe Conte si intrecciano a quello di Edoardo Rixi, il sottosegretario leghista all'Economia del quale un tribunale oggi stabilirà l'innocenza o la colpevolezza (l'accusa parla di peculato). Se i giudici genovesi dovessero condannarlo il movimento grillino imporrà l'aut aut al sottosegretario. Gli diranno che dovrà dimettersi. Il leghista, però, non arretra di un passo.

Le sue 24 ore potrebbero durare anche di più. Potrebbero diventare 48 per lasciare al suo leader, alla sua guida, l'onere della decisione. Riassumendo il senso di un'intervista al Corriere, Rixi dice che il passo indietro lo farà solo se glielo chiede Matteo. E se glielo chiede Conte? No, non scherziamo, sembra dire Rixi. Due passi indietro sono troppi. Sulla sua innocenza scommette anche Armando Siri, uno che ha avuto bisogno di ben più di 48 ore per mollare la poltrona di sottosegretario alle Infrastrutture. 

La lettera di Bruxelles, scrive il quotidiano, spiegano gli addetti ai lavori, è un atto dovuto: niente per il quale mettersi le mani nei capelli. Eppure il diktat è di quelli drastici. Parla proprio di 48 ore per rispondere. La Commissione Europea giudica insufficienti le manovre  per tenere sotto controllo i conti pubblici e vuole sapere come faranno Conte e Tria a rispettare i paletti nonostante il reddito di cittadinanza e il blocco di Iva e della pressione fiscale (proprio ora che anche la Corte dei Conti storce il naso su sussidio e quota cento). A Di Maio serve soltanto la metà di quelle quarantotto ore per capire se sarà ancora il leader del Movimento oppure soltanto un ministro (peraltro dimezzato nel numero dei portafogli da tenere nel suo abito ministeriale). Lo stesso Di Maio, insieme con il suo collega/rivale Salvini ha ricevuto le 48 ore da Conte, l'arbitro e pacere che vuole smettere i panni del «prestanome» per assumere virilmente un ruolo di comando, almeno sulla tolda di Palazzo Chigi.

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