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Via libera definitivo alle riforme, a ottobre il referendum

Dopo due anni e quattro giorni e 173 sedute complessive il Parlamento ha approvato definitivamente, con l'odierno sì della Camera (361 sì, 7 no e 2 astenuti), la riforma costituzionale che modifica il federalismo e trasforma il Senato in una Camera delle Autonomie Locali, composta da Consiglieri regionali e sindaci. "Una giornata storica, la politica dimostra di essere credibile e seria", ha commentato il premier Matteo Renzi

La parola passerà agli elettori, chiamati a pronunciarsi in un referendum confermativo che dovrebbe svolgersi a ottobre e per il quale la stessa maggioranza ha annunciato di voler raccogliere le firme. Il clima di fortissima contrapposizione del voto alla Camera contrasta con quello dell'8 aprile di due anni fa, quando il governo presentò in Senato il ddl Renzi-Boschi, che aveva l'ombrello del Patto del Nazareno con Fi. Anzi il testo originale del governo è stato profondamente modificato a Palazzo Madama in prima lettura per accogliere le richieste di Fi composizione del Senato e Lega limitazione della clausola di supremazia e competenze delle Regioni.

Un clima andatosi via via smarrendo per arrivare prima allo scontro frontale con il Carroccio, che si è unito a M5s e Sel, e poi alla rottura con Fi dopo l'elezione del presidente Mattarella nel gennaio 2015. Prima di abbandonare l'aula al momento del voto finale, le opposizioni sono state durissime, a partire dall'ex partner nelle riforme, cioè Fi, il cui capogruppo Renato Brunetta ha parlato del voto come di un "atto eversivo". Altrettanto duri sono stati Danilo Toninelli di M5s, Alfredo D'Attorre di SI, Cristian Invernizzi della Lega e Rocco Palese dei Conservatori.

Una riforma teoricamente sollecitata da molti sin dalla Costituente, ma che è stata votata dalla sola maggioranza, con le opposizioni che hanno abbandonato l'Aula per delegittimare questo voto.

Uno scontro che ha riguardato solo in parte i contenuti della riforma bensì piuttosto l'atteggiamento assertivo del premier Matteo Renzi, confermato nel suo intervento in Aula quando ha affermato che si "giocherà tutto" con il referendum. Ma proprio questo è un altro motivo di scontro visto che le opposizioni hanno sottolineato che esso è uno strumento di garanzia per chi in Parlamento si è opposto alle riforme e non una clava in mano alla maggioranza. Anche la minoranza del Pd, in un documento firmato da Gianni Cuperlo, Roberto Speranza e Sergio Del Giudice, ha chiesto al premier di non trasformare questo appuntamento in un "plebiscito" sulla sua persona o sul governo.

La minoranza Dem ha auspicato di riaprire il dialogo istituzionale con le opposizioni, soprattutto con Si, mettendo mano ad una modifica dell'Italicum, con l'attribuzione del premio di maggioranza alla coalizione e non al partito vincente. Per altro questo appello era stato fatto in aula da Barbara Pollastrini ma era stato sprezzantemente liquidato "sono solo sospiri" da Alfredo D'Attorre, il quale ha oggi annunciato l'impegno per il "no" al referendum in chiave anti Renzi, così come gli atri esponenti dell'opposizione: "i cittadini manderanno a casa Renzi", ha detto Brunetta. Quindi il plebiscito sul premier che si vorrebbe allontanare in teoria viene invece evocato. "Le ragioni del 'no' - ha detto Renzi - non sono spiegabili. Il no si spiega solo con l'odio nei miei confronti". Insomma è facile prevedere una campagna referendaria in cui i contenuti della riforma rischiano di scomparire.

Intanto sono almeno 380 le "poltrone" abrogate dalle riforme Costituzionali, approvate definitivamente dalla Camera e che dovrebbero essere poste al vaglio di un referendum confermativo.

Un numero che salirebbe se si tenesse conto i posti legati alle Province, che vengono definitivamente abrogate benché esse, con la riforma Delrio, siano già diventati Enti di secondo livello, privi di un Consiglio.

Le prime 315 poltrone ad essere abrogate sono quelle dei senatori, finora eletti a suffragio universale. D'ora in Poi il Senato, anche se manterrà il nome, si trasformerà in una Camera delle Autonomie territoriali: vi siederanno infatti 95 tra sindaci (21) e Consiglieri Regionali (74) che per il lavoro svolto a Roma non avranno diritto a indennità parlamentare, in aggiunta al normale stipendio di amministratori locali.

La riforma abroga anche il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, un organismo pensato nel 1948 come "raccordo" tra società civile e Palazzi della politica, un ruolo ridottosi con il passare dei decenni. In esso sedevano 64 Consiglieri, oltre al presidente l'ultimo è stato Antonio Marzano. Il Consiglio era composto da "10 esperti, qualificati esponenti della cultura economica, sociale e giuridica, dei quali otto nominati dal Presidente della Repubblica e due proposti dal Presidente del Consiglio dei Ministri"; "48 rappresentanti delle categorie produttive, dei quali ventidue rappresentanti dei lavoratori dipendenti, di cui tre in rappresentanza dei dirigenti e quadri pubblici e privati, nove rappresentanti dei lavoratori autonomi e delle professioni e diciassette rappresentanti delle imprese"; infine "6 rappresentanti delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni di volontariato, dei quali, rispettivamente, tre designati dall'Osservatorio nazionale dell'associazionismo e tre designati dall'Osservatorio nazionale per il volontariato".

Quanto alle 110 Province italiane, una volta dotate di un Consiglio provinciale e una Giunta, sono state già trasformate in via transitoria in Enti di secondo livello, vale a dire solo con uno snello organismo esecutivo formato dai sindaci. Tuttavia le Province erano in Costituzione, inserite nella riforma del 2001, e quindi ogni ulteriore passo ha richiesto la loro cancellazione dalla Carta grazie all'attuale riforma.

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