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Potremmo metterci a giocare con le dichiarazioni fini dell’intellettuale, e un po’ filosofo, Saviano per spiegare la proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis che si appresta a tornare in aula in questi giorni. Ma sarebbe troppo facile, persino per il più impreparato in fatto di droghe e buon senso. 

Se, infatti, l’autore di Gomorra continua a regalarci scoop di questo genere: «Sapete come è stato finanziato l’attentato in Spagna del 2004? Con l’hashish che i gruppi vicini ad Al Qaeda hanno venduto anche alla camorra napoletana. […] L’Is controlla ormai una produzione da oltre 5 miliardi di dollari. Sì, l’erba e l’hashish sono diventati gli strumenti primi di finanziamento delle organizzazioni fondamentaliste», diventa quasi esilarante dover ricordare che, ancora una volta, le fonti del Saviano nazionale sono dubbie, e che risulta, piuttosto, come parte delle risorse dell’Isis vengano dalle armi provenienti da potenze di area sunnita e dal commercio sottocosto di petrolio. Ma questa è un’altra storia, ed è inutile dilungarsi.

Andiamo al punto essenziale. Il testo di legge, presentato quasi un anno fa su iniziativa del senatore e sottosegretario agli Esteri già finiano (un altro regalo del leader della “destra” nazionale), Benedetto Della Vedova, è stato sottoscritto da 218 parlamentari e prevede la detenzione lecita di una certa quantità di cannabis per uso ricreativo (5 grammi innalzabili a 15 grammi in privato domicilio); la possibilità di coltivare piante di cannabis, fino a un massimo di 5 di sesso femminile, in forma sia individuale, che associata; per la coltivazione in forma associata, sarà necessario costituire un’associazione senza fini di lucro, sul modello dei cannabis social club spagnoli, cui possono associarsi solo persone maggiorenni e residenti in Italia, in numero non superiore a cinquanta; norme per semplificare la modalità di individuazione delle aree per la coltivazione di cannabis destinata ai medicinali e alle aziende farmaceutiche autorizzate a produrle; e la destinazione dei proventi derivanti per lo Stato dalla legalizzazione del mercato della cannabis, per il 5% del totale annuo, al finanziamento dei progetti del Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga. Insomma, alla fine, hanno infiocchettato pure il paradosso.

E, così, ci tocca disquisire dell’aria fritta. 

C’è anzitutto l’aspetto legato alla salute. Fumare cannabis non fa bene. Crea gravi danni, anche se assunta in piccole dosi. Provoca dipendenza e rappresenta, quasi sempre, il primo passo per l’assunzione di sostanze più dure. È solo superficiale paragonarla agli effetti di tabacco e alcool. In un’audizione davanti alle commissioni Giustizia e Affari Sociali della Camera, nel 2014, il vicepresidente della sezione dipendenze della Società italiana di psichiatria, il professore Luigi Janiri disse, «[…] sulla questione della differenza tra la cannabis e l’alcol», che «Indubbiamente l’alcol è in grado di determinare effetti nocivi sulla salute sia fisica, sia psichica. È un dato accertato che questo avvenga per dosi progressivamente crescenti di alcol e in un tempo molto più lungo. L’altra differenza importante rispetto alla cannabis risiede nel fatto che gli episodi acuti psicotici transitori di cui è responsabile la cannabis non si verificano con l’alcol. Mentre un episodio psicotico transitorio si può verificare in una persona anche alla prima assunzione di cannabis, non si verifica alla prima assunzione di alcol». 

Veronesi da sempre sostiene che la cannabis non ha mai ucciso nessuno. Per quel che se ne sa, di solito, non si arriva ad una “overdose”, è vero, ma può uccidere in maniera estremamente più subdola: attraverso patologie correlate. Secondo quanto affermato da Elisabetta Bertol (Ordinario di Tossicologia Forense – Università di Firenze. Direttore Struttura di Tossicologia Forense della Aou Careggi di Firenze e presidente Associazione Scientifica Gtfi), «l’uso così diffuso è dovuto proprio alla sottostima dei gravi effetti comportamentali a causa del falso mito della sua presunta “innocuità”, oggi più che mai da sfatare per la più elevata concentrazione del principio attivo (Thc) nelle preparazioni a causa di nuove coltivazioni forzate o geneticamente modificate. Elevata concentrazione (ben superiore allo “storico” 3-5 %) che può portare anche a irreversibili danni a livello neuronale, soprattutto quando il sistema nervoso centrale è in evoluzione come negli adolescenti».

Negli anni ‘70 era il 5% la quantità di principio attivo della cannabis, oggi oscilla tra il 50 e l’80 per cento: non si può parlare di droga leggera in alcun modo. Nel 2007 lo ammise persino il quotidiano britannico ‘The Independent’, che, dopo aver condotto per anni campagne antiproibizioniste, spinto dai dati allarmanti che dimostrano il collegamento (per esempio!) tra cannabis e schizofrenia, ritrattò ogni battaglia per la legalizzazione. La British Lung Foundation, anni fa, pubblicò un rapporto in cui emerse che il rischio di tumore ai polmoni causato da cannabis fosse venti volte superiore rispetto a quello causato dalle sigarette. Inoltre, studi scientifici seri rilevano anche gravissimi problemi vascolari alle arterie del cervello. E si potrebbe continuare ancora a lungo. 

Ma quello che è il vero paravento preferito dai gonfalonieri della canna, è lo spettro della delinquenza organizzata. È mera utopia pensare di poter risolvere le cose in questo modo, e, date le argomentazioni spicciole, ci adeguiamo al livello. 

La mafia per coltivare cannabis non paga di certo luce, acqua o “addetti” al confezionamento e al trasporto, ma se si dovesse legalizzare toccherebbe, invece, mettere tutto a norma. Qualche anno fa si è fatto un esperimento simile a Modena. Sono state create delle serre e ci si è resi conto che un grammo finiva per costare 12 euro (considerando che è passato un po’ di tempo il prezzario è da aggiornare rincarato): tre volte in più di quel che propone il mercato nero. È evidente che la cosa costituisce un incentivo al commercio parallelo, e non il contrario. Inoltre, con la liberalizzazione dell’offerta di cannabis la domanda aumenta, quindi aumenta il numero dei fruitori, aumentano i problemi di salute e sociali connessi all’uso, e aumenta il costo per la collettività per curare e prevenire tali problemi.

I paladini dell’anti-proibizionismo, poi, portano a sostegno delle loro tesi anche i benefici che le casse dello stato ricaverebbero dalla legalizzazione. Si parla di fino a 8,5 miliardi di euro all’anno. Harvard ha stimato che in un paese come l’America, con sei volte gli abitanti dell’Italia, e quindi in maniera proporzionata anche, presumibilmente, sei-sette volte i consumatori che ha il belpaese, le entrate fiscali annue ammonterebbero a 6,4 miliardi di dollari. Come si fa credere agli 8 miliardi nostrani? Sembra davvero di avere a che fare sempre con le solite cifre sparate a caso. Come succedeva ai tempi del referendum sull’aborto con i numeri di interruzioni volontarie di gravidanza illegali, o, in tempi più recenti, sul numero di coppie omosessuali in attesa di poter adottare. 

Quanta retorica da strapazzo se si pensa a tutti questi ragionamenti bizzarri! 

Eppure ci restano due domande ancora. A breve ci toccherà dire che le politiche di repressione contro furti, divieti di sosta e limiti di velocità sono fallimentari perché trasgressori, ladri e imbroglioni non si sono ancora estinti? Liberalizziamo anche i divieti di sosta?

Ma, soprattutto, alzi la mano chi salirebbe su un aereo, un pullman, un taxi, un traghetto guidato da individui che si sono fumati, semplicemente, una canna.

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Sono circa 13mila gli immigrati trasbordati in quattro giorni dai loro barconi sulle navi dei soccorsi.

L'Italia è accogliente, ma con questi numeri è un caos e le strutture sono al collasso. È sempre più difficile allocare i minori non accompagnati, 14.700 dall'inizio dell'anno secondo «Save the children». Malgrado la macchina dell'accoglienza sia ben oleata, gli Hotspot sono ko. Quello di Pozzallo ospita più migranti di quanti non potrebbe. Stessa storia a Lampedusa, con oltre 1700 persone a fronte di 450 posti. Eppure è qui che si è diretta la nave «Asso 25» con 1273 immigrati inizialmente destinati a Palermo. Una deviazione decisa per abbreviare il viaggio per via di tensioni tra i passeggeri di diverse etnie, non sempre «amiche» fra loro.

E la più grande delle isole Pelagie è in emergenza. In 24 ore si è richiesta assistenza medica per 2800 migranti e Palermo ha inviato un rinforzo di 4 medici. Il via vai di immigrati dai pronto soccorso si aggiunge al flusso di italiani che chiedono la separazione delle corsie, sia per non vedersi scavalcare dopo la fila, sia per non venire a contatto con malattie, magari non gravi, ma potenzialmente contagiose. Basti pensare che ben 133 immigrati di uno sbarco a Pozzallo hanno la scabbia. A Palermo ieri ne sono arrivati 1067, tra Pozzallo e Augusta 1500, a Messina 1000. A Brindisi 708, tra cui due cadaveri. A Taranto 1078. A Cagliari 617. Qui è stato allestito un campo di accoglienza e la prefettura ha indetto una nuova gara per individuare delle strutture. «Il ministero ci ha assegnato altre 1200 unità dice la viceprefetto Carolina Bellantoni - Le riassegnazioni sono per tutte le regioni».

Numeri da capogiro. Ed è caos immigrazione. L'emergenza è ora routine. Un pastrocchio all'italiana, dove ci si fa in quattro ma senza cercare rimedio. Così è impossibile fermare la marea umana che ogni giorno lascia le coste libiche ed egiziane per essere raccolta in mare e condotta nei porti del Sud, mentre sulla terraferma si pensa ai controlli, alle cure sanitarie e al reperimento dei posti in tutto lo Stivale.

I migranti sulla costa della Libia si preparano ad una "corsa contro il tempo": parola di Abdel Hamid al-Souei, della Mezzaluna rossa libica

Che parlando all' AFP mette in guardia gli italiani: in vista della fine dell'estate, i trafficanti di uomini mettono in mare sempre più barche e le prossime settimane saranno fra le più calde dell'anno.

I tredicimila profughi soccorsi nel Canale di Sicilia negli ultimi quattro giorni, infatti, potrebbero essere solo un assaggio. La guerra civile che dilania la Libia ormai da anni non consente alle autorità di Tripoli un contrasto efficace all'immigrazione clandestina, con la maggior parte degli uomini e dei mezzi disponibili impegnati nella lotta alle bande jihadiste: "Le nostre pattuglie, spiega al Daily Mail il colonnelo Ayoub Qasseem di stanza a Tripoli con la Marina libica - negli ultimi tempi sono state ridotte, perché le navi sono ormai obsolete e non abbiamo più i mezzi per controllare la costa di Sabratha."

Proprio la città di Sabratha, a un'ottantina di chilometri a ovest della capitale, rappresenta il principale hub delle partenze dalla Libia. Una sorta di fortino dove bande di guerriglieri locali e trafficanti operativi in tutta l'Africa settentrionale concentrano migliaia di disperati in attesa di salpare per l'Italia.

Sabratha formalmente si trova sotto il controllo del governo di accordo nazionale, ma da mesi è diventata una base fondamentale per il traffico di migranti, sopratutto da quando il governo tripolino ha concentrato tutti i propri sforzi per abbattere la roccaforte jihadista di Sirte. Una base di trafficanti che si trova ad appena trecento chilometri di distanza da Lampedusa.

Non mancano tensioni nei centri di accoglienza. Al Cpa di Caltagirone alcuni ospiti si ribellano aggredendo due operatrici, minacciandole con cocci di vetro e vandalizzando i locali. Volevano subito il pocket money. Solo l'arrivo dei carabinieri, dopo una violenta colluttazione, ha riportato la calma. A finire in carcere sono un 18enne della Guinea e un 19enne del Mali. Cinque minorenni della Guinea, del Mali e del Gambia sono stati denunciati. Tutti sono accusati di sequestro di persona, esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose e alle persone, lesioni personali e danneggiamento. Le operatrici hanno riportato distorsione cervicale, trauma cranico minore e stato d'ansia reattivo. La prognosi è di una decina di giorni.

Resta alta l'attenzione delle forze dell'ordine sui possibili business legati all'immigrazione. Tra questi la Squadra mobile di Palermo ha scoperto matrimoni fittizi tra stranieri e italiani per fare ottenere il permesso di soggiorno dietro il pagamento di 7mila euro. 

È illuminante l'intervento dalle pagine de il Giorno di don Adriano Cifelli, giovane parroco di Bojano Campobasso, che ammette: "Nella nostra Chiesa resistono ostilità e diffidenze più che evidenti nei confronti dello straniero. Anche tra vescovi e sacerdoti".

Il giovane don è stato missionario nella difficile regione del Kivu, Repubblica democratica del Congo. Inoltre è tra i più attivi nell'aiuto a richiedenti asilo. Addirittura con un progretto di lavoro su base volontaria. "È un modo per integrarli, per dar loro una prospettiva occupazionale. Così non stanno a spasso a non far niente. Eppure molti fedeli non ci stanno" ammette a malincuore. E prosegue: "Alcuni mi dicono che bisogna pensare in primo luogo agli italiani. Come se loro stessi poi effettivamente lo facessero... Altri insistono sulla necessità di difendere la nostra identità dallo straniero in quanto tale, visto che alla fine poi non interessa troppo se il migrante sia cristiano o meno".

Secondo il giovane don Adriano Cifelli, "Le potenzialità delle parrocchie sono notevoli, lo si nota sul versante della catechesi e dell'educazione. Credo che tanti parroci abbiano deciso di non avventurarsi sulla strada dell' accoglienza". Ovviamente per evitare l'ira dei fedeli. "E lo stesso discorso vale per i vescovi che nella maggior parte dei casi, anche se condividono il richiamo di Francesco, non sono andati oltre pronunciamenti per così dire spot. E non parlo certo di quelli che si sono schierati, più o meno apertamente, contro il Papa in questo dualismo che sta minando la nostra Chiesa fra bergogliani e non".

Sono stati solo 5000 i migranti accolti nelle canoniche. Pochini. L'ultima mossa di Francesco, guidare, a tempo determinato, la sezione per la Pastorale dei migranti del dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale può essere tranquillamente letta come la volontà di scacciare dubbi, problemi e incertezze con il potere, più che con il dialogo con fedeli e vescovi. 

Per il Papa la parola sui migranti è sempre la stessa: "Accogliere". E lo ha dimostrato con il nuovissimo "ministero per l'immigrazione" del Vaticano.

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Si prepara la nuova guerra fredda tra est e ovest ? E una domanda che non ha risposta, ma pare di si se si vede come si preparano le forze in campo secondo l I.S.W. : Forze meccanizzate supportate da una brigata di artiglieria, basata come potenza primaria su 54 sistemi di grosso calibro. La 7054 Air Base ospita in turnazione quasi cinquanta velivoli tra elicotteri pesanti e caccia. A Kaliningrad, Mosca  schiera anche la 152a brigata missilistica del Distretto Occidentale equipaggiata con i missili balistici Iskander-M. Il sistema missilistico Iskander–M, prodotto dalla Kolomna KBM, è stato ufficialmente adottato dall’esercito russo nel 2006.

L institute for the study of war, think tank di Washington, e ripreso dal quotidiano Italiano Il Giornale, ha rilasciato un grafico informativo che evidenzia la crescente copertura missilistica terra-aria della Russia in Europa. Dagli Stati baltici a gran parte dell’Ucraina e del Mar Nero, dalla Polonia settentrionale alla Siria e parte della Turchia, senza tralasciare il Joint Air Defense Network che Mosca gestisce in cooperazione con in Bielorussia ed Armenia. La Russia ha poi alterato l’equilibrio delle forze nel Mar Nero, nel Mediterraneo orientale e nel Medio Oriente attraverso la definizione di grandi zone A2D2, anti-access area-denial, nell’ambito di una precisa strategia di negazione. Nel grafico sono mostrati i principali asset difensivi di Mosca che, in un ipotetico scontro con la Nato, potrebbero ostacolare la capacità delle forze aeree statunitensi di accedere nelle zone operative. Le aree di difesa create dai russi – scrivono dal think tank – negherebbero la supremazia aerea nelle aree di rilevanza strategica. L’Institute for the Study of War conferma i timori del Pentagono per la crescente capacità SAM di Mosca.

L’enclave russa tra Polonia e Lituania sottolinea il quotidiano Italiano con accesso diretto al mar Baltico è fondamentale nello scacchiere strategico russo. Se scoppiasse una crisi tra l’Europa e la Russia, Mosca potrebbe instaurare una no-fly zone che si estenderebbe da Kaliningrad fino a coprire un terzo dello spazio aereo polacco. I russi hanno schierato a Kaliningrad probabilmente il meglio della loro attuale tecnologia militare: dagli S-400 Triumph ai missili balistici Iskander-M. Sistemi integrati quindi, per un asset A2 / AD (anti-accesso/area di diniego). Il sistema stratificato ed integrato di difesa aerea e missilistica schierato prevede radar di allarme precoce e battaglioni armati con sistemi S-300/S400. Il Cremlino ha schierato a Kaliningrad tre brigate d’élite completamente equipaggiate.

La versione interna o M ha una gittata massima dichiarata di 480 km (in fase di test la possibilità di estendere il raggio ben oltre i 500 km) come scrive I.S.W, con una CEP o probabilità di errore circolare di 10 metri. L’Iskander è stato progettato per eludere i più avanzati sistemi di difesa aerea, compreso lo scudo spaziale americano. Capace di una velocità massima di 7mila km/h, l’Iskander nella fase terminale del volo si affida ad una guida optoelettronica, compiendo brusche manovre per eludere le difese aeree e rilasciando esche per ingannare i radar nemici. E’ corretto definire il sistema missilistico Iskander come una delle armi più letali dell’arsenale russo: progettato come un sistema balistico ad alta precisione, ma ottimizzato per l’utilizzo a distanza ravvicinata, sotto le 500 miglia. I missili possono essere lanciati in 16 minuti ed in quattro minuti in caso di prontezza operativa. Il secondo missile (solo per la versione interna) può essere lanciato in meno di 50 secondi. Isolata dalla Russia se non per via mare (in caso di conflitto i collegamenti ferroviari sarebbero inaffidabili), Kaliningrad è stata fortificata per arrecare il massimo delle perdite ad un attacco preventivo della NATO.

Al centro della nuova strategia marittima del Cremlino si trovano i mari che circondano la Russia, in un arco teorico di proiezione che va dall’Artico al Mediterraneo. Quello che al Pentagono è noto come arco d'acciaio, è un’ideale tratto militarizzato dai russi in grado di confrontarsi con le forze della Nato in un ipotetico scontro.

E come sottolinea il Giornale : L’arco d’acciaio sarebbe stato espressamente teorizzato sulle capacità della Marina russa di contrastare quella della Nato e degli Stati Uniti. Mosca ha investito miliardi di dollari nel riattivare le basi nel’ Artico e nel dislocare battaglioni operativi a protezione delle batterie missilistiche a medio e lungo raggio. Le capacità russe nel Baltico continuano ad aumentare mentre la flotta permanente del Mediterraneo è supportata dalla rinata capacità nel Mar Nero. L’arco d’acciaio andrebbe visto come la risposta russa al percepito accerchiamento militare delle strutture militari della Nato ed una capacità di proiettare il potere nel settore marittimo. La Siria, al di là della guerra, rappresenta la prima vera base nel Mediterraneo orientale dalla fine della guerra fredda. Alla capacità militare dobbiamo aggiungere anche quella asimmetrica maturata e strutturata per paralizzare con svariate attività il ciclo decisionale dell’Alleanza, specialmente focalizzato sul mare. Entro il 2020 con l’entrata in servizio delle nuove piattaforme, i russi potrebbero potenziare esponenzialmente l’arco d’acciaio, rendendo nullo anche lo Scudo (progettato in un’era in cui si credeva che la minaccia principale fosse di natura balistica), a breve superato dai sistemi ipersonici che entreranno in produzione entro due anni.

L’area di Mosca sottolinea il Giornale dovrebbe essere protetta da 68 missili intercettori contro un possibile attacco portato da un nemico Stati Uniti/NATO dotato di armi nucleari. La Russia ha attualmente un solo sistema dello stesso tipo attivo nella zona di Mosca: l’A-135, attivo 24 ore su 24 totalmente inefficace contro un attacco multitestata. Mosca ha sempre preteso garanzie legalmente vincolanti in merito allo scudo in Europa, mentre la NATO ha ribadito il pieno rispetto del Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (INF), quelli che un tempo erano chiamati Euromissili. Il timore è che gli elementi di difesa missilistica in Europa possano violare l’equilibrio strategico e minare la stabilità internazionale.

 

 

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