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a cura del Comitato per la storia del Risorgimento

Nel solco di una tradizione più che consolidata di studi, di pubblicazioni, di convegni, il Comitato di Piacenza dell’Istituto per la storia del Risorgimento dà alle stampe, mercé la liberalità della locale Banca di Piacenza, gli atti di due distinti convegni.

Il primo è dedicato a una figura di primo piano nel secolo che va dalla metà dell’Otto alla metà del Novecento: Giovanni Raineri (Borgo San Donnino, oggi Fidenza, 1858 – Roma, 1944). Gli studi, raccolti nel volume La figura di Giovanni Raineri a settant’anni dalla morte (pp. 64, con ill.), permettono di lumeggiare l’appassionata, ampia e incisiva attività di un personaggio sul quale sono carenti le ricerche, nonostante i non pochi settori nei quali operò, e in posizioni di tutto rilievo. Attivo nei comizi agrari a fine Ottocento (era laureato in agraria), Raineri fu magna pars (come direttore generale prima, come presidente poi) nella Federazione dei consorzi agrari, sorta a Piacenza nel 1892. Ebbe parte attiva nel mondo bancario, specie nel credito cooperativo. Cavaliere del lavoro nel 1902, promosse nel ’23 la Federazione nazionale dei Cavalieri del lavoro, che presiedette fino alla morte. Deputato dal 1904 per cinque legislature, nel ’24 fu nominato senatore. Più volte fu ministro: all’Agricoltura, industria e commercio (1910-’11, governo Luzzatti), all’Agricoltura (1916-’17, governo Boselli), alle Terre liberate (fra il 1920 e il ’22, governi Nitti I, Giolitti V e Bonomi I). La sua attività è ben sintetizzata da Aldo Giovanni Ricci nella prolusione, intitolata a Raineri, uomo dello Stato. Le altre ricerche sono dedicate a Raineri e l’associazionismo agrario (Giuseppe Cattanei), a Raineri, primo presidente della Federazione Cavalieri del Lavoro (Cecilia Dau Novelli), a Il ruolo di Raineri nella nascita e nel successivo sviluppo della Federazione dei Consorzi agrari (Severina Fontana) e a Raineri, ministro delle terre liberate (Corrado Sforza Fogliani).

Il secondo volume raccoglie gli atti del convegno su Piacenza e la guerra ’15-’18 (pp. 174, con ill.). Francesco Perfetti nella prolusione traccia una capace sintesi del significato della Grande Guerra, anche per Piacenza e per il suo territorio. Gli studi spaziano su molteplici argomenti, di storia civile, politica, militare, sociale, religiosa. Ecco quindi la politica agraria ed economica nel Piacentino (Giuseppe Cattanei), il magistero del vescovo Pellizzari (Ersilio Fausto Fiorentini), l’attività di propaganda (Elisa Maria Gennaro), la neutralità a Piacenza (Eugenio Gentile), i monumenti ai caduti e i necrologi (Filippo Lombardi), la guerra vissuta in un paese di provincia (Luigi Montanari), i Pontieri (Massimo Moreni), il generale Ferrante Gonzaga eroe del Vodice (Giuseppe Oddo), i cattolici piacentini (Bruno Perazzoli), l’immagine urbana di Piacenza (Valeria Poli), la veterinaria militare (Giovanni Sali).

Ai “5” amici, lettori del mio “quasi-mensile” dico subito che non mi ha ancora dato di volta il cervello, pur avendo varcato la soglia dei 70: quel titolo non è mio, ma di “Repubblica” del 9-III-2015, riportato da un discorso che un noto “maestro” di pensiero ha tenuto alla università di Torino. Tali “maestri” vivono arroccati sul vertice della piramide, scrivono libri, dirigono riviste e giornali, vengono ascoltati in ginocchio nelle tv e amministrano la “cultura” per il “popolo” mediante una “legione” di seguaci come i demoni di Gerasa: politicanti, gazzettieri, sparaparole televisivi pagati da noi, registi, professorini di scuole, applauditori beoti a comando… Tranquilli, il sottoscritto è per il “Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae”.

“Repubblica” si è sempre distinta per la lotta subdola o aperta alla Chiesa; così, in tanti anni, ho messo insieme un tale florilegio di appunti e ritagli sull’argomento da poterne comporre un corposo volume. Qui, cogliendo fior da fiore, riporto solo un episodio emblematico e mi scuso se mi allargo un po’ con questo preambolo. Quando imperversava e veniva gonfiata a comando la propaganda intorno alla “pedofilia dei preti”, lorsignori – espertissimi – tentarono di infangare perfino Papa Benedetto mettendo la sua foto in prima pagina con sullo sfondo le sagome scure, disegnate a vignetta, di due prelati, vecchi e barbogi, che confabulavano fra loro e, sotto, a caratteri grossi “Caso di pedofilia a Monaco con Ratzinger vescovo” (11-III-2010). L’insieme, da provetti falsari, era studiato affinché il coinvolgimento del Papa rimanesse impresso nella memoria visiva anche di un lettore distratto! E dire che Ratzinger da professore, da vescovo, da Prefetto del Sant’Uffizio e da Papa è stato fustigatore implacabile della pedofilia. Ne scrivono di cose su “Repubblica”!

Ma un titolo esplicito contro Dio per cui si invoca addirittura l’“esilio”, onestamente non me lo aspettavo pur sapendo essere quel giornale il più laicista e anticattolico sulla piazza italiana.

L’articolo è stato pensato dopo l’attentato ai vignettisti di Parigi del 7-I-2015; esso si compone di due pagine: un concentrato di rimandi culturali, uso di parole greche come “nomos”, “eteros”, “autosnomos”, “eterosnomos”, “polemos” con intreccio di filosofia, religione, storia, sociologia, politica; un insieme di tono e stile “alti” come si conviene ad una prolusione da tenersi all’università; una sintesi densa e a prima lettura non masticabile da tutti. Tuttavia qua e là si aprono ampi squarci molto più “facili” anche per noi del “basso popolo”. In sintesi c’è scritto quanto segue: se si vuole la pace sociale, la Democrazia deve eliminare chiese, religioni e Dio stesso che sono la radice dei fondamentalismi, razzismi e magari dei bullismi e delle omofobie...; solo così, estirpando la causa del male – Dio –, tutti potremo vivere felici e contenti sulla terra.

Per comprendere meglio ne trascrivo alcuni scampoli.

“L’alternativa perciò è secca. O l’esilio di Dio dall’intera sfera pubblica, o l’irruzione del Suo volere sovrano (…) Aut aut. Ecco perché è inerente alla democrazia l’ostracismo di Dio, della sua parola e dei suoi simboli, da ogni luogo dove protagonista sia il cittadino: scuola compresa, e anzi scuola innanzitutto, poiché ambito della sua formazione. Al fedele restano chiese, moschee, sinagoghe, e la sfera privata in interiore homine” E ancora. “Una volta istituita la sfera pubblica in forma democratica, rilegittimarvi Dio vuole dire inocularvi il virus (…) fino alla guerra civile di religione (…) Perciò. La religione è compatibile con la democrazia solo se disponibile e assuefatta all’esilio di Dio (…) solo se pronta a praticare il primo comandamento della sovranità repubblicana: non pronunciare il nome di Dio in luogo pubblico (…) La religione è compatibile con la democrazia solo se addomesticata (…) Le religioni compatibili con la democrazia sono dunque religioni docili, che hanno rinunciato a ogni fede militante (…) Sono religioni sottomesse (…) Sono religioni riformate”.

Parole più chiare di queste l’illustre pensatore non poteva usare e – confesso – così esplicite, rare volte ne avevo sentite. Riprendo, quindi, gli spiriti e cerco di dare alcune risposte.

Prima: io, oltre che come “cittadino”, pretendo il diritto ad essere “protagonista” anche come “cattolico” e aggiungo volentieri, “apostolico, romano”; infatti, non abito nel Pakistan a stragrande maggioranza musulmano o nella Cina comunista che perseguita i cristiani o nell’Olanda neopagana ma in Italia dove la Chiesa Cattolica, per grazia della Provvidenza, c’è da venti secoli e ancora si vede, avendo forgiato – nonostante peccati e errori di suoi uomini – la civiltà e l’unità del nostro popolo anche con arte, letteratura, diritto, musica, canto, lingua, toponomastica, costumi, proverbi e…buona tavola.

Seconda: è mio diritto avere anche una scuola che non distrugga il deposito della storia e delle tradizioni di questo popolo di cui faccio parte; che ai nostri figli e nipoti, in nome di un mal capito “multiculturalismo”, essa non proibisca, ad esempio, di fare il presepio e cantare le canzoni di Natale e – soprattutto – che questi non vengano indottrinati dalle aberrazioni del “gender” (due mamme, due padri, tre genitori!) trasformando il falso in vero per demolire l’unica Famiglia .

Terza: è mio diritto il poter professare la fede pubblicamente, cioè anche fuori delle chiese e non solo in “interiore homine” come petendono lorsignori; è dal “1789” che provano anche in Italia a rinchiuderci, ma non ci sono ancora riusciti.

Quarta: io non voglio essere un cattolico “addomesticato”, “docile”, “sottomesso”, “riformato”. Penso con rammarico che se questo “maestro” si è spinto ad affermazioni tanto chiare e perfino offensive, non ha usato tali precise parole “per vedere l’effetto che fanno” ma perché, purtroppo, conosce bene cattolici già da tempo “addomesticati” e addomesticabili: ce ne sono parecchi, ad esempio, nei partiti politici. Il pericolo mortale per la Religione infatti, a mio “zero-virgola” di parere, non proviene tanto da chi la combatte a bandiere spiegate come fanno i radical-monetieri-borghesi di cui stiamo parlando, quanto dagli ignavi e confusi, anche frequentatori di chiese e oratori che non si sono ancora resi conto che la “nostra” Chiesa in questo momento storico, mediante la corruzione/dissoluzione della società, è oggetto di un attacco globale ed epocale con caratteristiche che mai si erano viste prima; è l’attacco concentrico della “dittatura del relativismo” soprattutto alla Famiglia nell’intento di crearne un’altra diversa di quella che abbiamo conosciuto per secoli e millenni: vedi le proposte di legge contro di essa da parte di politici italiani mezzefigure a cui, purtroppo, la Democrazia consegna il potere enorme di disfare cose infinitamente più grandi delle loro minuscole persone…

Agli stolti che vogliono mandare Dio in esilio ricordo – al solito, da povero “quidam de populo” – che il loro progetto lo abbiamo già visto organizzato svariate volte da chi, volendo creare “l’homo novus”, ha proclamato la “morte di Dio” o la “religione oppio dei popoli” e puntualmente ha prodotto fame, gulag, lager, macerie e montagne di cadaveri.

Ai “5” amici, nonni, padri, nipoti, più e meno frequentatori di chiese, dico di reagire in prima persona affinché quei tali “maestri”, progettisti dell’“esilio di Dio”, non prevalgano almeno nella nostra Patria.

Copertina del saggio_La difesa sociale della famiglia

Nel momento in cui la famiglia ritorna ad essere al centro del dibattito pubblico e della riflessione culturale civile ed ecclesiale, Giuseppe Brienza, collaboratore della nostra testata, dà alle stampe un saggio quantomai opportuno rievocando - nel decennale della sua scomparsa - la biografia e il magistero episcopale di uno degli storici ispiratori della pastorale familiare italiana, monsignor Pietro Fiordelli (1916-2004), primo vescovo residenziale di Prato - dove restò alla guida della diocesi per un periodo complessivo di trentotto anni - dal 1954 al 1991, vivendo in prima persona nella 'rossa Toscana' una delle stagioni più turbolenti del nostro Paese a livello sociale e politico (cfr. Giuseppe Brienza, La difesa sociale della famiglia. Diritto naturale e dottrina cristiana nella pastorale di Pietro Fiordelli, vescovo di Prato, con un “Invito alla Lettura” di mons. Luigi Negri, Postfazione di mons. Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo Da Vinci, Roma 2014, Pp. 156, Euro 15,00). Il perchè lo spiega bene proprio monsignor Luigi Negri, in apertura del volume, ricordando l'incredibile episodio che vide protagonista l'allora giovanissimo neo-vescovo di Prato, querelato e condannato nel 1956 da un tribunale della Repubblica ad un ammenda di 40.000 lire per aver denunciato dal pulpito, in obbedienza al vigente diritto canonico, come “pubblici peccatori e concubini” una coppia di coniugi della diocesi perchè sposati con il solo rito civile. A distanza di anni, il presule venne poi assolto in appello per “l'insindacabilità dell'atto” a lui imputato. La vicenda oggi è stata completamente rimossa dalla nostra memoria pubblica ma allora assunse un clamore mondiale tanto da essere seguita da campagne-stampa diffamatorie a livello internazionale verso la Santa Sede che da Papa Pio XII in giù manifestò invece pubblicamente solidarietà a Fiordelli. Per dare un'idea della drammaticità della questione basti pensare che il Pontefice sospese addirittura il tradizionale ricevimento d'inizio anno del Corpo diplomatico in Vaticano mentre i Vescovi più carismatici – a partire dal futuro Giovanni XXIII e dal futuro Paolo VI – inviarono a Fiordelli telegrammi di totale condivisione. L'arcivescovo di Bologna, infine, Giacomo Lercaro, “ordinò a tutte le parrocchie della sua diocesi, in protesta per la condanna a Fiordelli, di tenere per un mese i portali delle chiese parati a lutto e di suonare le campane a morto ogni giorno per cinque minuti” (pag. 28). Monsignor Negri scorge proprio in quest'episodio, oggi dimenticato, l'inizio nel nostro Paese dello “scatenamento dell'anticristianesimo: prova ne sia la nascita in quegli anni di moltissimi circoli radicali” (pag. 10) che avrebbero poi, all'indomani di quell'Ottantanove che vide implodere su se stessi i partiti comunisti con la loro ideologia, informato notevolmente anche la mentalità e il costume delle stesse classi dirigenti dei gruppi marxisti secondo un'intuizione profetizzata in modo lungimirante dal pensiero di Augusto Del Noce che aveva previsto l'esito ultimo e definitivo della prassi materialistica nel primato etico nichilista del radicalismo di massa. Il caso dei concubini di Prato convinse già allora Fiordelli - e il tempo gli avrebbe dato ragione - che l'emergenza nella sua diocesi non era tanto di ordine socio-economico quanto familiare: in effetti di lì a poco nel nostro Paese seguì l'istituzione della legge sul divorzio (1970), la sconfitta del fronte cattolico al successivo referendum del 1974 e l'approvazione della legge di riforma del diritto di famiglia (1975) che contribuì ad un'ulteriore indebolimento legislativo dell'unione coniugale.

Di fronte a tutto ciò, Fiordelli si spese fin dall'inizio del suo episcopato per diffondere su larga scala corsi di preparazione al matrimonio che sviluppassero – soprattutto verso i più giovani – una rinnovata consapevolezza dell'importanza del vincolo sacramentale e della chiamata alta al matrimonio. Questa dedizione amorevole alla causa della famiglia arrivò da ultimo anche sui banchi del Concilio Vaticano II – a cui il Vescovo parteciperà dall'inizio alla fine – che accolse nella costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium proprio la definizione (originariamente ideata e suggerita da Fiordelli) della comunione coniugale sacramentale come “piccola Chiesa” (al numero 11). Ancora, sempre su sua proposta la CEI “costituì il Comitato Episcopale per la Famiglia (oggi Commissione Episcopale per la famiglia e la vita) [di cui] fu eletto Presidente e tale rimase ininterrottamente, fino a quando il Comitato fu trasformato in Commissione Episcopale per la Famiglia” (pagg. 35-36) scrivendo vivacemente sulla questione del divorzio (vedi il suo Il divorzio in Italia?, Libreria cattolica, Prato 1967) e anche chiamando personalmente alla mobilitazione i fedeli in occasione dell'indizione del referendum abrogativo quando la legge era entrata in vigore. Soprattutto, si deve a lui l'istituzione della “Giornata per la vita” che la Chiesa italiana commemora ogni anno la prima domenica di febbraio per ricordare pubblicamente lo scandalo e l'ingiustizia dell'aborto legalizzato. In particolare su quest'ultimo aspetto Brienza ripropone in appendice uno scritto sempre attuale del 1976, L'aborto e la coscienza (pp. 87-144), dove la tematica viene affrontata evidenziando la sua rilevanza sociale in tutte le molteplici dimensioni (morali, educative, politiche, religiose, culturali) con inusuale passione teologica e giusfilosofica. Conclude il saggio un argomentato contributo di monsignor Antonio Livi (“Dottrina sociale della Chiesa, legge naturale e diritto positivo”, pp. 145-156), conterraneo di Fiordelli e legato a lui per anni da una profonda amicizia, che mette in luce gli aspetti del magistero episcopale di Fiordelli che saranno poi ripresi autorevolmente dalla predicazione di Papa San Giovanni Paolo II soprattutto nei grandi documenti per la difesa sociale della famiglia (come la Familiaris Consortio, del 1981) e il diritto inalienabile alla vita (come l'Evangelium vitae, del 1995). Una figura coraggiosa e controcorrente, come si vede, ancor più alla luce dei radicali mutamenti nel costume avvenuti negli ultimi anni, decisamente da riscoprire.

 

Copertina dell'Intervista

Dieci anni or sono, nel 2004, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace pubblicava il Compendio di Dottrina Sociale che per la prima volta nella storia della Chiesa presentava organicamente – in un solo documento – tutti i pronunciamenti del Magistero pontificio sull'ordinamento della società, il bene comune, la giustizia, lo sviluppo, la pace e gli altri vari temi che costituiscono appunto il campo proprio di studio della Dottrina sociale. Ora, a distanza di due lustri e tre pontificati (il volume uscì sotto Papa Giovanni Paolo II), il professore Stefano Fontana – direttore dell'Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân – coglie l'occasione per fare il punto attuale sullo stato di salute della Dottrina sociale della Chiesa intervistando ampiamente sul tema monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste nonché prima segretario (1994-2001) e poi sottosegretario (2001-2009) del dicastero vaticano che ha redatto e diffuso a livello internazionale il Compendio in un interessante volumetto in uscita per le edizioni Cantagalli (cfr. G.CREPALDI con S. FONTANA, La Dottrina sociale della Chiesa. Una verifica a dieci anni dal Compendio (2004-2014), Cantagalli, Siena 2014, Pp. 102, Euro 9,00). In esordio, Fontana spiega le ragioni della pubblicazione proprio facendo riferimento alla stagione di indubbia difficoltà che attraversa da qualche tempo la Dottrina sociale: “prima contestata, poi rilanciata, quindi un po' annebbiata. Certamente in crisi di identità. Non in sé, ma nella comprensione comune, nella mobilitazione per essa, nella sua praticabilità concreta in una società che di dottrine, qualsiasi esse siano, non vuol sentire più parlare, e che pure è molto dottrinaria, nel senso che indottrina come non mai. Senza dottrina non rimane che l'indottrinamento” (pagg. 8-9), come si argomenta nei successivi cinque capitoli in cui vengono toccati un po' tutti i nodi scoperti del rapporto Chiesa-mondo degli ultimi anni, a partire dalla ricezione del Concilio Vaticano II (1962-1965) che - dopo un periodo di attese e contestazioni - verrà realizzata a partire soprattutto da San Giovanni Paolo II che riporterà al centro della riflessione ecclesiale la Dottrina sociale sia scrivendo tre ampie encicliche specifiche (Laborem Exercens, 1981; Sollicitudo Rei Socialis, 1987; Centesimus Annus, 1991) sia facendo inserire appositamente la disciplina nel nuovo Catechismo universale della Chiesa (promulgato nel 1992) che apparirà così come il frutto compiuto dei lavori conciliari dal punto di vista del riordinamento sistematico della dottrina. Tuttavia, a ben vedere, il Papa fece anche di più: lo stesso viaggio a Puebla, in Messico, nel 1979 per la terza conferenza generale dell'episcopato latino-americano (CELAM) fu un segnale eloquente di cambio di direzione in un periodo in cui le correnti eterodosse della cosiddetta 'teologia della liberazione' avevano ancora un largo seguito nel continente sicché poco più tardi fu ancora Wojtyla ad ordinare alla Congregazione per la Dottrina della Fede due istruzioni apposite che avrebbero ribadito con chiarezza la parola del Magistero in proposito (la Libertatis Nuntius (1984) e la Libertatis conscientia (1986)). Insomma, per il rilancio della Dottrina sociale della Chiesa il lungo pontificato (quasi ventotto anni, dal 1978 al 2005) di Giovanni Paolo II, con l'accentuazione ripetuta dell'urgenza della nuova evangelizzazione del sociale in tutti i campi in un Occidente sempre più indifferente rispetto alle proprie radici spirituali e religiose, è stato indubbiamente fondamentale.

Se le cose poi non sempre sono andate come auspicato, i motivi profondi - oltre che in una società esterna spesso ideologicamente avversa, o ostile - vanno ricercati anche in quei cattivi maestri che dall'interno del corpo ecclesiale hanno diffuso non poche idee sbagliate, fuorvianti e comunque di dubbia fondatezza teologica, come Karl Rahner (1904-1984) e il suo discepolo Johann Baptist Metz, il padre della cosiddetta 'teologia politica' che – a dispetto del nome – di fatto nei suoi scritti opererà per un sostanziale ridimensionamento dell'azione pubblica della Chiesa, criticandone autorità e istituzioni, e contribuendo quindi in ultima analisi a una progressiva emarginazione del primato di Dio nella costruzione della vita sociale e politica, accellerando il radicale processo di secolarizzazione già in atto (come sostenne soprattutto nella sua opera Antropocentrismo cristiano). Qui Fontana e Crepaldi toccano un punto fondamentale anche per l'oggi sottolineando come quando “non viene diffusa la Dottrina sociale della Chiesa in modo adeguato, rimangono aperti spazi per il male. Non si può pensare che la storia non sia più teatro di una lotta tra il bene e il male. Benedetto XVI ha più volte affermato che se non si costruisce un mondo su Dio si costruisce non un mondo neutro ma un mondo senza Dio. La neutralità non è possibile” (pag. 44) come si evince anche dal dibattito sulle dirompenti questioni bioetiche e antropologiche dove “la secolarizzazione ha secolarizzato anche l'identità maschile e femminile, la procreazione, la maternità e la paternità. Viene in mente Nietzsche secondo cui finché ci sarà la grammatica Dio non sarà veramente morto. La secolarizzazione ha secolarizzato ogni grammatica e in questo vuoto l'uomo deve fare scelte che i nostri predecessori, ben più addestrati sui princìpi, non si sognavano nemmeno” (pagg. 74-75). Dopo Benedetto XVI, poi, è stata la volta di Francesco che – dato non molto sottolineato dagli osservatori – pure ha ripreso convintamente in mano il corpus della Dottrina sociale sia nell'enciclica Lumen Fidei che nell'esortazione apostolica Evangelii Gaudium e chiama ora a una rinnovata missione pubblica tutta la Chiesa (la famosa 'Chiesa in uscita' verso 'le periferie esistenziali'), soprattutto nei Paesi di più antica tradizione cristiana che oggi - sempre più aggrediti dal diffuso clima relativistico dominante - rischiano di perdere definitivamente la fede: sarà in ultima analisi dall'esito di questo confronto serrato in campo aperto sulla pubblica piazza, dalla scuola alla bioetica alla politica, che si deciderà il volto concreto dell'Europa - religiosa o irreligiosa - del prossimo futuro.

Copertina del saggio

Il professor Michel Schooyans, docente emerito dell’Università Cattolica di Lovanio e membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, è da tempo una delle voci più critiche delle strategie socio-politiche che si celano dietro la globalizzazione di massa dei costumi promossa da alcuni eminenti, e perlopiù insospettabili, organismi sovranazionali. Il suo storico volume su Il nuovo disordine mondiale (San Paolo, Cinisello Balsamo 2000) fu prefato nientedimeno che dal cardinale Joseph Ratzinger: quando uscì – tra l’indifferenza generale – i pochi che se ne occuparono lo accusarono subito di pessimismo catastrofico e neo-millenarismo. Oggi, a poco più di un decennio di distanza, quel testo è diventato invece una lettura obbligata per quanti si occupano professionalmente di geopolitica, globalizzazione e sviluppo a livello mondiale e colui che prima era definito come ‘visionario pessimista’ viene ora descritto come ‘un profeta inascoltato’. Questa sua ultima fatica, uscita per le edizioni Studio Domenicano di Bologna, riassume sinteticamente le principali riflessioni dell’accademico belga con un’esposizione perlopiù divulgativa senza perdere però alcunché in scientificità. Il titolo già dice tutto: Evoluzioni demografiche. Tra falsi miti e verità, (cfr. M. Schooyans, Edizioni Studio Domenicano (ESD), Bologna 2014, Pp. 110, Euro 12,00) volendo con ciò intendere che l’ambito degli studi demografici a livello di mainstream è oramai sempre più appannaggio di ideologi e demagoghi vari che diffondono spesso in pubblico, invece di ricerche fondate, degli autentici luoghi-comuni a danno, paradossalmente, della stessa comunità scientifica che pure dicono a parole di voler rappresentare. Peggio ancora: le loro opinioni personali (giacché di questo infine si tratta) vengono poi recepite da policy-maker, economisti e osservatori terzi come se fossero invece delle verità certe e innegabili contribuendo in tal modo a confondere ancora di più le (poche) idee consolidate dell’opinione pubblica nell’epoca del relativismo dominante. L’attenzione dello studioso si focalizza in questo lavoro sulle principali conferenze internazionali che hanno affrontato negli ultimi decenni le questioni demografiche a livello globale a cominciare da quelle del Cairo (1994) e di Pechino (1995).

Nella seconda, in particolare, l’autore rileva che “la famiglia [fu] presentata come il luogo prototipo della lotta di classe: lì la donna è oppressa dall’uomo il quale, imponendole il ‘fardello’ della maternità, le impedisce di svilupparsi e maturare portando il suo contributo alla produzione. La liberazione della donna passa dunque attraverso la distruzione della famiglia. Tema classico del neo-malthusianesimo, la distruzione della famiglia si presenta ormai come uno dei ‘nuovi modelli’ di famiglia […] Nel corso di questa stessa Conferenza, tutti questi temi vengono raggruppati sotto l’etichetta ‘gender’: le differenze di ruoli attribuiti all’uomo e alla donna non hanno alcun fondamento naturale; sono il prodotto della cultura e, come tali, possono e devono essere abolite. Ciascuno è libero di scegliersi il proprio sesso o di cambiarlo. Siamo in piena rivoluzione culturale” (pag. 87): una rivoluzione però totalmente diversa da quelle del passato in cui le armi più affilate sono costituite dalle leggi degli Stati di diritto formalmente democratici e dalle lezioni impartite nella scuola dell’obbligo, quindi dalle produzioni di consumo nei vasti campi della cultura più popolare e dell’intrattenimento. In quest’ottica è appunto l’istituzione famigliare il nemico principale, da ostacolare prima e abbattere poi in ogni modo. Poco importa che – notoriamente – sia invece proprio la famiglia “il luogo per eccellenza dove l’uomo nasce alla libertà” (pag. 105) essendo considerata persino nella Dichiarazione parigina dei diritti umani del 1948 (non certo un documento di matrice confessionale) come una fondamentale agenzia naturale con peculiari prerogative proprie e pre-statuali (ad esempio all’articolo 16, che recita: “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”). Oltre alle Carte universali dei diritti ci sarebbero poi anche le evidenze più recenti fornite dai premi Nobel per l’economia come lo statunitense Gary Becker che nel 1992 si è aggiudicato il riconoscimento dopo aver posto in rilievo “il ruolo capitale della famiglia e dell’educazione nella società” (pag. 106). Mettendo a confronto società culturalmente o etnicamente diverse nei migliori studi comparati emerge infatti con sempre maggiore chiarezza che “è primordialmente nella famiglia che si forma il ‘capitale umano’, l’unico che importa in definitiva, e che rischia di venir meno. E’ nella famiglia che si forma la personalità del bambino. E’ nella famiglia che il bambino impara il senso dell’iniziativa, della responsabilità, della solidarietà […]: qualità altamente apprezzate nella società” (pag. 106) e dunque – non lo si dirà mai abbastanza – assolutamente essenziali anche per garantire la salute civica di una comunità.

Lungi dall’essere astratto, o generico, questo tipo di discorso ha dei riflessi molto concreti per le attuali battaglie intorno alla ‘questione femminile’: “[durante la formazione del bambino] il ruolo della madre è essenziale: è lei che desta queste qualità e che insegna al bambino a studiare, a mettere ordine nelle sue cose, a essere economo […] Di qui il valore specifico dell’attività materna, che dovrebbe essere riconosciuta nella e dalla società. Il bambino non è soltanto un bene per i suoi genitori, è un bene per la società. L’attività materna non è semplicemente un bene ‘privato’, è un bene a favore della società” (pagg. 106-107). Si vede allora qui nitidamente la necessità di offrire alla donna delle condizioni sociali, economiche e culturali che nel complesso aiutino – e non ostacolino – la scelta verso la creazione della famiglia e la vocazione alla maternità. A chi non fosse ancora del tutto convinto, poi, sarà utile riflettere sulle “conclusioni corroborate al contrario da Claude Martin, che ha studiato [i danni sociali] del ‘dopo divorzio’”. Quello che si constata dal punto di vista empirico è che “il divorzio aumenta il rischio di emarginazione e persino di esclusione del coniuge separato più vulnerabile; crea condizioni propizie all’insuccesso scolastico e alla delinquenza” (pag. 107) per i minori: insomma un quadro fotografico che obiettivamente non disegna affatto quel positivo traguardo di civiltà’ di cui continuano a parlare alcuni professionisti della retorica politica relativista. La conclusione di Schooyans, che qui riprende peraltro in parte gli studi dell’economista indiano Amartya Sen, anch’egli già Premio Nobel, afferma senza mezzi termini che private dell’educazione famigliare le persone alla lunga non maturano né umanamente né socialmente fino al punto anzi di essere del tutto prive di una qualsiasi coscienza critica (non è un caso che i totalitarismi abbiano sempre visto con sospetto l’esistenza di solide reti famigliari) e dell’esercizio concreto di una reale libertà personale. E’ dunque tempo che le organizzazioni pubbliche lascino finalmente alla famiglia tutta la libertà – e la responsabilità – che le compete e che gli organismi sovranazionali, per quanto possibile, si limitino a vigilare sulla tutela dei più fondamentali diritti naturali oggi realmente minacciati a livello internazionale, come quello alla vita e alla costruzione di una famiglia. Il resto, mai come di questi tempi, rischia di apparire sempre più come mera ideologia.

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