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La Chiesa in Iraq, una storia per capire

Copertina del saggio_

Sui giornali se ne parla ormai quotidianamente in riferimento a episodi brutali di violenza, guerra e crimini di vario tipo ma che l’Iraq sia – prima di essere ultimamente una terra contesa da varie tribù in lotta fra loro – una culla storica della Cristianità dalle antichissime tradizioni si dice tutto sommato ben poco. Occasione per tornare a parlarne in pubblico è stata la presentazione a Roma, presso la libreria internazionale “Paolo VI”, dell’ultimo libro del Cardinale Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, dato appena alle stampe per i tipi della Libreria Editrice Vaticana (cfr. F. Filoni, La Chiesa in Iraq. Storia, sviluppo e missione dagli inizi ai nostri giorni, LEV, Città del Vaticano 2015, Pp. 256, Euro 16,00). Nel saggio, una panoramica dettagliatissima sull’ascesa e il declino dell’evangelizzazione tra la Mesopotamia e il deserto siriaco a partire già dal I secolo con San Tommaso Apostolo, il porporato – per vari anni già nunzio apostolico nella regione – mette in luce come al di là dei punti di contesa dottrinale con l’Occidente latino (ad esempio la crisi nestoriana, nel V secolo, in riferimento alla dottrina sulle due nature di Cristo, a cui corrisponderebbero due persone, poi condannata come eretica al Concilio di Efeso, diffusa dal vescovo e teologo siro Nestorio), la comunità cristiana autoctona irachena abbia sempre conservato una propria fedeltà al Cristianesimo delle origini, testimoniata attualmente dal fatto di avere conservato – unico al mondo – l’uso dell’aramaico, l’antica lingua in cui pregava Gesù. Eppure, la sua vicenda collettiva è stata attraversata non poche volte dall’esperienza della persecuzione e della sofferenza di popolo, soprattutto a partire dal 1200 quando si verifica l’invasione islamica della regione ad opera dei Turchi che va progressivamente a insidiare la precedente presenza cristiana. Da allora, ripetutamente, essere cristiani in Iraq è stato sinonimo di persecuzione e dicriminazione, prima a livello superficialmente culturale e poi anche politico e sociale con la codificazione istituzionale della cosiddetta ‘dhimmitudine’ che riconosceva ai cristiani lo status di cittadini a patto che pagassero uno speciale tributo e comunque accettassero pacificamente di non poter accedere alle cariche di rilievo del governo pubblico del Paese. In mezzo alle prove reiterate la testimonianza della sequela cristiana è stata tenuta viva dalla tradizione monastica locale, pure antichissima, con delle pionieristiche esperienze riuscite anche di monachesimo femminile, e dalla dinamicità della vita culturale che vedeva sorgere in ogni villaggio cristiano – per prima cosa – delle scuole per l’istruzione pubblica, spesso di buona qualità. Relativamente alla travagliata storia recente della comunità e alle due guerre del Golfo che hanno coinvolto l’Iraq (1990-1991 e 2003), invece, Filoni ha ricordato come il partito baathista – quello che faceva capo al regime di Saddam Hussein (1937-2006) – versione locale del panarabismo, aveva tra i suoi fondatori degli esponenti laici della locale Chiesa caldea (che comprende i cattolici di rito orientale, guidati un proprio Patriarca, attualmente Louis Raphaël I Sako) e come persino nello stesso governo di Hussein – senza per questo certo giustificarne l’operato – fossero presenti dei rappresentanti cristiani caldei, ad esempio il ministro degli esteri Tareq Aziz (1936-2015). Il punto per l’osservatore che vede il prima e il dopo Saddam, soprattutto avendo a cuore le millenarie radici cristiane della regione, tuttavia è inequivocabile: la caduta del dittatore ha scatenato non solo una sanguinosissima guerra civile senza fine ma anche, e soprattutto, la crescente marginalizzazione dei cristiani che sono ormai per la stragrande maggioranza in diaspora verso gli Stati Uniti, il Canada o anche l’Europa stessa. Nelle sue visite ufficiali con gli attuali parlamentari e capi di governo iracheno il porporato ha sottolineato pertanto il diritto nativo dei cristiani di abitare nella regione dei loro padri – un diritto che precede largamente, come si è visto, la successiva islamizzazione – e ha auspicato che il ‘nuovo Iraq’, tentato da vecchie logiche discriminatorie verso i non-islamici, riconosca l’uguaglianza dei diritti fondamentali di cittadinanza, a prescindere dal credo religioso eventualmente professato. Certamente va tenuto presente che – differentemente dalla Chiesa Cattolica – l’Islam non possiede una propria gerarchia nel clero e non ha una propria autorità spirituale universalmente riconosciuta che negli incontri ufficiali sul dialogo interreligioso possa impegnare concretamente la comunità mondiale dei seguaci del Corano, senza dimenticare che la mescolanza strutturale del dato spirituale e del dato religioso (giacchè l’Islam non conosce come noto la parola, né il concetto, della ‘laicità’), rendono oggi difficilissimo il cammino di reciproca comprensione nella regione, tuttavia la Santa Sede continua a sperare che le difficoltà presenti non comportino la scomparsa definitiva del Cristianesimo da una delle terre che vide fiorire già all’alba del Medioevo la prima predicazione missionaria itinerante della Chiesa apostolica.

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