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L'ultima mossa di Trump è una significativa escalation della tensione tra Washington e Bruxelles e arriva in un momento particolarmente delicato per il futuro dell'Unione europea, con le elezioni al Parlamento europeo fissate per il prossimo mese e coi vertici alle prese con un difficile negoziato sulla Brexit. I prelievi proposti dagli Stati Uniti sui prodotti europei si aggiungono alle tariffe americane già imposte sulle importazioni europee di acciaio e alluminio e alla minaccia dell'amministrazione statunitense di incrementare anche le tariffe sui prodotti automobilistici per ragioni di sicurezza nazionale. 

Lo scorso luglio, durante una visita a Washington, il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, aveva stretto un accordo con il numero uno della Casa Bianca per avviare negoziati commerciali e astenersi dall'imporre ulteriori dazi. Quei negoziati non sono mai iniziati ufficialmente e le trattative preliminari non hanno fatto molti progressi. Gli Stati Uniti si sono sempre lamentati della riluttanza dell'Unione europea a includere l'agricoltura nei colloqui. Da ultimo gli aiuti alla Airbus hanno creato nuovi mal di pancia spingendo Washington a una nuova rappresaglia.  

Il rappresentante al Commercio americano ha,proposto di applicare tariffe su una lista di prodotti europei. Un lunghissimo elenco dal valore di 11 miliardi di dollari che va dagli aerei ai prodotti alimentari, dal formaggio roquefort all'olio d'oliva. A pagare potrebbero essere anche numerosi prodotti del made in Italy, come il Prosecco e il pecorino. Quella del presidente Donald Trump è una rappresaglia contro gli aiuti pubblici versati dall'Unione europea agli aerei Airbus. Una mossa che penalizza la compagnia statunitense Boeing alle prese con la crisi scoppiata dagli incidenti di cui è stato protagonista il jet 737 Max.

Dal 2011 pero, ovvero dalla morte di Muammar Gheddafi, la Libia è un Paese instabile. Prima le rivolte, poi la guerra fortemente voluta da Francia e Gran Bretagna. Il risultato è stata la frammentazione di questo Paese, spaccato in mille tribù e milizie troppo facile parlare solamente di una rivalità tra Cirenaica e Tripolitania.

La questione per Washington è eminentemente pragmatica. E Trump, che di questo pragmatismo è stato e continua a essere il simbolo, non si comporta in maniera diversa da quanto ci si possa immaginare. Le mosse Usa fino a questo momento sono state soprattutto quelle di unire la propria agenda a quella delle Nazioni Unite per fare in modo che il piano degli Stati Uniti diventasse, sostanzialmente, il piano dell’Occidente. Questa strategia si trova però a dover fare i conti con un interesse molto meno spinto da parte di Trump verso l’Africa settentrionale, in contrapposizione per esempio al suo predecessore Barack Obama, il quale, al contrario, ha sostenuto le Primavere arabe e contribuito alla destabilizzazione di Nord Africa e Medio Oriente. 

Pero il Califfo Abu Bakr al Baghdadi ha capito fin da subito che, sfruttando i vuoti di potere provocati dalle Primavere arabe, lo Stato islamico si sarebbe potuto allargare e, forse, addirittura prosperare. Per questo decide di inviare il suo braccio destro, Abu Mohammad Al Jolani, in Siria non appena scoppiano le proteste contro Bashar al Assad.

Se si guarda la mappa dei territori controllati dallo Stato islamico durante il suo periodo di massima espansione, si scopre che i jihadisti dominavano essenzialmente tre Stati: Libia, Siria e Iraq.  

Infatti la Siria. L’anno di inizio è lo stesso: il 2011. Quasi in concomitanza con le proteste in Tunisia, Libia ed Egitto, si comincia a protestare anche non lontano da Damasco. “È il tuo turno, dottore”, si legge sui muri di Daraa. Il dottore, ovviamente, è Bashar al Assad, che ha studiato oftalmologia a Londra. Le proteste, inizialmente pacifiche, si trasformano in vera e propria guerriglia. Appoggiata anche da potenze estere. L’ambasciatore Robert Ford cammina per le strada di Hama in rivolta sotto una pioggia di rose. Damasco sembra sul punto di cadere, ma poi l’intervento russo cambia gli equilibri. Nel frattempo, però lo Stato islamico si allarga sempre di più, facendo di Raqqa la sua capitale. Esecuzioni e torture sono all’ordine del giorno. Ma quel vuoto di potere lasciato da Assad era ormai stato colmato.

­Cosi l’Isis torna a colpire in Libia. I jihadisti hanno infatti assaltato il villaggio Al Fuqaha, nel distretto di Giofra, nel cuore del Paese nordafricano. Secondo i media locali, i terroristi avrebbero ucciso il presidente del Consiglio locale del villaggio e poi avrebbero dato alle fiamme diverse abitazioni oltre a lasciare l’intera area senza corrente elettrica.

Le mosse Usa fino a questo momento sono state soprattutto quelle di unire la propria agenda a quella delle Nazioni Unite per fare in modo che il piano degli Stati Uniti diventasse, sostanzialmente, il piano dell’Occidente  ed è un segnale molto importante che vale soprattutto per l’Italia, dal momento che il supporto americano al debole ma pur sempre esistente governo di Sarraj era essenziale per costruire una strategia coerente con la nostra volontà di estendere l’influenza sul Mediterraneo allargato con un asse fra Roma e Washington come perno per la nostra “pax libica”. Era questo l’obiettivo della Conferenza di Palermo ed era questo il motivo per cui il governo italiano aveva cercato l’appoggio di Donald Trump, ottenuto nel viaggio di Giuseppe Conte in estate. Poi l’Italia ha preso una via diversa:  adesso sembra che gli Usa ci stiano abbandonando al nostro destino tanto quanto stanno abbandonando al suo la Libia.

 

Nonostante lo scorso 23 febbraio il Venezuela abbia ufficialmente chiuso le frontiere terrestri con la Colombia e il Brasile, migliaia di persone continuano a lasciare il Paese ogni giorno.
Nel viaggio, molti rischiano la vita nel tentativo di attraversare torrenti o perché esposti a sfruttamento e abusi da parte di gruppi armati che controllano rotte irregolari e pericolose.
Martedì scorso, le forze di sicurezza presenti su entrambi i lati del confine hanno faticato a tenere la situazione sotto controllo, tentando di arginare le circa 46.000 persone che, in preda alla disperazione, hanno attraversato il ponte internazionale Simon Bolivar, che collega la città venezuelana di San Antonio de Tachira e la città colombiana di Cucuta.
Il flusso di persone procedeva in entrambe le direzioni, finché a un certo punto alcune transenne di sbarramento sono state rovesciate. Nella mischia che è seguita molti hanno rischiato di essere travolti e calpestati dalla folla: neonati che piangevano, bambini piccoli in difficoltà, donne in stato di gravidanza esauste, persone anziane e persone con disabilità. Fortunatamente non sono state segnalate vittime.

L'elevato numero di persone in fuga nel corso della settimana è una conseguenza della piena del fiume Tachira, circostanza che rende le traversate a piedi ancora più pericolose del solito. Dal 23 febbraio, quando le autorità venezuelane hanno ristretto l'accesso alle frontiere, il traffico pedonale sul ponte si era ridotto, spingendo i venezuelani a percorrere sentieri fangosi (trochas) o a guadare il fiume Tachira per raggiungere la città di Cucuta, dove molti lavorano, studiano, ricevono cure mediche, si procurano medicinali e viveri impossibili da trovare nei luoghi d'origine. Oltre a ciò, ogni giorno migliaia di rifugiati e migranti venezuelani entrano in Colombia per rimanervi o per proseguire il viaggio verso altri Paesi dell'America Latina.

A seguito delle forti piogge, che hanno provocato lo straripamento del fiume e inondato molti dei sentieri, il ponte era rimasta l'unica alternativa percorribile per la maggior parte dei venezuelani.

La situazione mette in evidenza la pericolosità dei movimenti transfrontalieri irregolari intrapresi da persone disperate. Sebbene nella giornata di mercoledì la piena del fiume sia temporaneamente diminuita, l'inizio della stagione delle piogge significa che le traversate continueranno a essere molto pericolose.

L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) riconosce gli sforzi compiuti  dalla Colombia e da altri Paesi latinoamericani per accogliere milioni di venezuelani e l'impegno delle autorità colombiane nel promuovere l'accesso al loro territorio, la residenza legale e altri diritti fondamentali. Nel 2018, l'UNHCR ha sostenuto il governo colombiano nella registrazione amministrativa di oltre 440.000 venezuelani.

L'UNHCR collabora con le autorità colombiane, operando a favore di individui con esigenze specifiche di protezione, tra cui donne, bambini, adolescenti, anziani, persone con disabilità, popolazioni indigene e gruppi LGBTI, fornendo loro servizi specializzati e assistenza umanitaria. L'UNHCR è presente in tutti i principali punti di frontiera per fornire informazioni e consulenza legale su come accedere allo status di rifugiato e a forme alternative di residenza. Lavoriamo anche in coordinamento con altre organizzazioni per distribuire acqua potabile, kit igienici, coperte e pasti a rifugiati e migranti e trasferire i malati in cliniche e ospedali. L'UNHCR offre infine assistenza tecnica alle autorità competenti per garantire un coordinamento efficace e predisporre piani di risposta a livello locale.

 

Khalifa Haftar è pronto marciare su Tripoli e gli aerei del governo riconosciuto hanno iniziato i primi raid sui convogli del generale a sud della capitale. Il caos in Libia rischia di condurre inesorabilmente il Paese in una guerra civile dai tratti decisamente preoccupanti. Preoccupanti per il Paese, per il Nord Africa e anche, inevitabilmente, per l’Italia.

In queste ore, Francia, Gran Bretagna, Italia, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti hanno lanciato un appello congiunto a tutte le fazioni libiche per cessare le violenze. “I nostri governi si oppongono a qualsiasi azione militare in Libia e riterrà responsabile qualsiasi fazione libica che faccia precipitare ulteriormente il conflitto civile”, si legge nella nota. “In una fase delicata di transizione, iniziative militari e la minaccia di azioni unilaterali rischiano solamente di ripiombare la Libia nel caos”. Ma dietro a questo appello potrebbe nascondersi una verità ben più complessa, dal momento che – è inutile negarlo – Haftar non ha potuto certo decidere in maniera totalmente spontanea di avanzare direttamente sulla capitale conquistando anche Garian, a cento chilometri dalla sede del governo di Fayez al-Sarraj.

Il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha detto di essere "molto preoccupato" per quanto sta accadendo. E ha lanciato un appello "a tutte le parti affinché si fermino ed evitino qualsiasi azione violenta" lanciando l'allarme sul "rischio di una nuova crisi migratoria, con l'aumento di flussi, principalmente verso l'Italia e gli altri Paesi mediterranei".

Il vertice dell'Europarlamento e vice presidente di Forza Italia ha detto: "Non vi può essere una soluzione militare alla crisi libica. Un nuovo conflitto causerebbe solo altre perdite di vite umane e danni enormi al Paese e alla sua popolazione". E ha chiesto che "l'Unione europea deve intervenire immediatamente e parlare con una voce unica e autorevole, contribuendo a una soluzione pacifica e democratica, nel quadro delle Nazioni Unite, come chiesto a più riprese dal Parlamento europeo".

E cosi si prepara nuovo scontro tra Governo Italiano e Ong : Sea Eye si trova a 15 miglia a Sud Est dell'isola, al di fuori delle acque territoriali italiane (12 miglia). "A bordo ci sono 64 persone salvate e 17 membri dell'equipaggio", spiega la Ong tedesca. Ieri sera, intorno alle 22, era "ancora in rotta di evasione" per trovare riparo dal maltempo. "C'è una neonata di undici mesi a bordo, raffiche di vento a 50 chilometri orari e onde alte due metri", lamentano gli operatori a bordo. Ma l'Italia per ora non cede. Il tratto di mare è pattugliato dalle navi italiane e la Alan Kurdi è costretta a fare su e giù tecnicamente si chiama "pendolamento" in attesa "di una soluzione politica".    

Fino ad oggi, sul fronte dell’emergenza immigrazione, si parla quasi sempre dei pericoli provenienti dall’esterno dei confini europei. Rotta turca, rotta libica, rotta algerina e tunisina, sono questi i principali fronti aperti su cui si cerca di intervenire, con l’obiettivo di scongiurare nuove partenze dalle coste africane o dall’Anatolia. Ma emerge sempre di più invece un fronte tutto interno all’Europa: quello greco.

Intanto il quotidiano il giornale nella sua analisi alla rubtica " occhi della guerra" racconta che Il paese ellenico, come si sa, affronta da dieci anni a questa parte gravi difficoltà. La cura dimagrante imposta dalla Troika per il rientro dei debiti, si rivela un cappio al collo da cui i greci non riescono affatto ad uscirsene, nonostante i proclami degli ultimi mesi. Ed un paese che non riesce ad avere mezzi sufficienti a spegnere gli incendi, come accaduto questa estate, difficilmente può trovare le risorse per accogliere migliaia di migranti che partono dalle coste turche. Il problema si mette ben in evidenza dal 2015, anno in cui dalla Siria e dall’Iraq arrivano centinaia di carovane tramite la Turchia: è l’apertura della cosiddetta “rotta balcanica”, che porta i migranti verso il centro ed il nord dell’Europa. Fino a quando però gli stessi paesi della penisola chiudono le frontiere in quanto impossibilitati a gestire un flusso di questa portata. E così la Grecia, vedendo i suoi confini settentrionali sbarrati, deve sobbarcarsi l’onere di accogliere migliaia di profughi.

Nei mesi successivi un accordo tra Ue e Turchia prevede lo stanziamento di tre miliardi di Euro all’anno a favore di Ankara per trattenere nel paese anatolico i migranti. La pressione si alleggerisce, ma il problema non è ancora risolto. Sia perché dalla Turchia verso le isole greche si continua a sbarcare, sia perché le risorse che Atene può spendere per chi rimane all’interno dei confini ellenici sono limitate. E così ecco che, ad oggi, si calcola come almeno 25.000 migranti siano rinchiusi nei centri d’accoglienza dove garantire anche i servizi basilari è pressoché impossibile. La Grecia a malapena riesce a rifornire di medicinali e medici i propri ospedali, figurarsi se può organizzare al meglio campi allestiti solo per affrontare un’emergenza in verità mai terminata. Questi sono solo alcuni dei motivi per i quali la Grecia può essere definita, sul fronte migratorio, una vera e propria polveriera.

Per questo continua il Giornale adesso è lecito pensare che dentro la stessa Ue potrebbero aprirsi rotte interne di migranti. Tra le migliaia di richiedenti asilo presenti in Grecia, in tanti iniziano a pensare di scappare verso altre mete. Si potrebbe in poche parole riaprire la rotta balcanica, con i migranti questa volta non provenienti da paesi esterni alla comunità bensì dal paese dell’Ue più in difficoltà. Segnali in tal senso arrivano dai social. Su Facebook, come viene segnalato su LaPresse, è attiva la pagina “Border crossing in Greece“: qui vengono immesse sul web testimonianze di persone accampate in Grecia e pronte ad attraversare le frontiere settentrionali. Sempre sui social prende corpo l’iniziativa di alcuni curdi che vivono ad Atene, che invitano i migranti presenti nel paese ellenico ad unirsi ad una sorta di “marcia” volta a forzare i controlli alle frontiere ed uscire quindi dalla Grecia.

Segnali ovviamente che mettono non poco paura alle autorità dei paesi europei confinanti ed alle forze di sicurezza di quelli dove i migranti vorrebbero piazzare la propria destinazione. La riapertura di una rotta balcanica è un’eventualità contro cui molti governi lottano da anni. Il ricordo di cosa comporta tre anni fa il flusso di migranti in questa parte orientale dell’Europa è ancora vivo: in molti Stati, a partire dall’Ungheria di Orban, per reazione al fenomeno nascono e crescono molti movimenti definiti superficialmente oggi “sovranisti”. Il cosiddetto “blocco di Visegrad” trae origine proprio da quella emergenza. Ma anche in Germania ed in Italia si farebbe volentieri a meno di fronteggiare altre emergenze, per di più per rotte che provengono dall’interno del territorio europeo.

Fico apre lo scontro tra Lega e M5S nel corso del Festival del giornalismo a Perugia, Roberto Fico ha affrontato anche altri temi. E certamente non poteva mancare un commento su ciò che sta accadendo a Torre Maura. "Simone è l'orgoglio della nostra Italia costituzionale. - ha detto -. Lo ringrazio ufficialmente, quanto fatto da Casa Pound e Forza Nuova a Torre Maura è una vergogna".  

Credo che la querela di Salvini a Saviano sia stato un errore. Visto che il ministro dell'Interno ha il potere di decidere sulle scorte e Saviano è sotto scorta, io non l'avrei denunciato", ha esclamato il presidente della Camera al Festival del giornalismo di Perugia.

Il motivo del contendere, quindi, è la decisione di Matteo Salvini di denunciare per diffamazione Saviano. Il giornalista, infatti, in più di un'occasione si era appellato al ministro dell'Interno definendolo "ministro della malavita". Oltre ad accusarlo di seminare odio e bile, di parlare e compiere gesti solo per propaganda, Saviano ci aveva infilato in mezzo anche la malavita. E ora la paga cara. Anche se Fico prende le sue difese.

Nel suo informale pullover grigio, quindi, il presidente della Camera, prende posizione. E sa benissimo di essere ascoltato da tutti, tanto è che nel suo intervernto parla anche dell'Ue: "Dovremmo avere un solo seggio in sede internazionale e far valere appieno il nostro valore, altrimenti esiguo se presi come singoli Paesi. I sovranisti possono essere dispiaciuti dalle mie parole? Se ne faranno una ragione".


Tornando al discorso della Ong che sta per arrivare in Italia :  Sea Eye è in "rotta di evasione". E Salvini fa pattugliare il mare  "Altre vite messe a rischio da una Ong straniera", ripete il ministro dell'Interno da due giorni, quando la nave umanitaria tedesca ha recuperato 64 immigrati al largo delle coste della Libia e ha subito puntato la prua in "direzione Italia". Una mossa che ha irritato e non poco gli esponenti del governo italiano per l'ennesima puntata di un lungo scontro tra istituzioni e Ong. Dopo lo sbarco di Mediterranea Saving Humans di poche settimane fa, Salvini aveva diramato una direttiva per "fermare le azioni illegali delle Ong". 

Il messaggio era chiaro, ma non sembra essere arrivato a destinazione. Sea Eye ha continuato a pattugliare le coste libiche nonostante l'invito della Marina di Tripoli a non intromettersi e due giorni fa ha recuperato 64 migranti. "Ora Italia e Malta assegnino loro un porto sicuro, chiedeva l'Ong dei centri sociali guidata da Luca Casarini. "Le autorità italiane - assicura però il Viminale - non hanno in alcun momento assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso che sono avvenute ben al di fuori della zona Sar di responsabilità italiana". Quindi Alan Kurdi resti al largo o trovi un'altra soluzione: non spetta a noi l'accoglienza. "Chiede un porto sicuro? 

 

Bene, vada ad Amburgo" è la linea di Salvini che ieri, durante il G7 a Parigi, ha chiesto al ministro di Berlino di assumersi la responsabilità sulla nave in quanto battente bandiera tedesca. Peccato che la Alan Kurdi abbia comunque fatto rotta verso Lampedusa, "forzando" il blocco imposto dal Viminale.

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