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Martedì sera è divampato un vasto incendio nel centro di accoglienza di Moria, sull'isola di Lesbo, provocando danni permanenti all’80% della struttura nonché la fuga di circa 13.ooo richiedenti asilo. Al momento, mentre i vigili del fuoco si apprestano a terminare l'estinzione, non si riscontrano vittime. Stando alle prime ricostruzioni, l'incendio è stato appiccato durante gli scontri avvenuti in serata nel campo da un gruppo richiedenti asilo: all'origine delle proteste sarebbero le reazioni di rabbia contro le misure di quarantena imposte ai 35 individui risultati positivi al COVID-19.Le restrizioni sono state imposte dopo che un rifugiato somalo è risultato positivo al virus. I casi finora rilevati sono stati 35 e ora le autorità sanitarie dell'isola hanno programmato una batteria di test su un numero più alto di persone che risiedono nel campo.

Secondo il ministro alle Migrazioni Notis Mitarachi, il primo devastante incendio è "certamente stato appiccato, a causa della quarantena" imposta a causa di casi di contagio di Covid-19, "da richiedenti asilo nella struttura".  La polizia ha anche riferito che i migranti hanno appiccato il fuoco ai campi vicino ai luoghi degli scontri.  Il ministro è andato a Lesbo, assieme all'omologo all'Interno e al responsabile dell'organizzazione per la Salute pubblica. Le agenzie umanitarie internazionali da tempo avvertivano di condizioni disumane a Moria, dove 12.500 persone vivevano in una struttura realizzata per ospitarne circa 2.750.  

Un nuovo incendio è scoppiato a Moria, il più grande campo di migranti in Grecia situato sull'isola di Lesbo, 24 ore dopo l'enorme rogo che ha devastato gran parte di questo centro. Panico tra le famiglie di migranti  che sono fuggite mentre il fuoco bruciava le loro tende. Le fiamme si sono sviluppate in una parte del campo che non era stata gravemente colpita martedì sera. Costruito per ospitare 3000 persone, sin dal 2015 l'hotspot ha superato il livello di saturazione arrivando assumere i connotati di una vera e propria cittadella.
Le fiamme non avrebbero causato feriti o vittime. Le persone sono fuggite in massa dal campo tentando di portare con sé i propri oggetti personali.

Circa 4mila migranti che avevano lasciato Moria per raggiungere il porto di Mitilene per imbarcarsi su navi dirette nella Grecia continentale hanno lanciato sassi contro la polizia che bloccava la strada. Gli agenti hanno risposto con gas lacrimogeni, - ha fatto sapere la polizia, - mentre non c'è notizia di feriti o arresti.


Il documentato sito “Bitter Winter” sulla libertà religiosa e i diritti umani in Cina,  regolarmente offre puntuali notizie sul controllo del PCC dell'informazione, dei social media in Cina. Soprattutto dopo la diffusione dell'epidemia del coronavirus, le autorità cinesi hanno imposto una serie di misure volte a censurare o a eliminare messaggi sull'andamento della pandemia. Peraltro spesso le informazioni sono edulcorate dalla propaganda governativa.

In particolare sono diventati obiettivi della censura,“Gli account sui social media del personale che lavora nelle commissioni sanitarie, nei dipartimenti per la prevenzione e il controllo delle epidemie, negli uffici che si occupano di sicurezza pubblica, cultura, istruzione e turismo, nei dipartimenti propagandistici e in altre istituzioni governative”. (Lin Yijiang, Censurati gli account social dei medici, 12.7.2020, bitterwinter.org).

Naturalmente tutti i commenti di chi opera negli ospedali o nelle scuole sono rigorosamente controllati. «Il provvedimento è finalizzato a prevenire fughe di informazioni per evitare che i cittadini «mettano in discussione e critichino» i provvedimenti governativi finalizzati alla prevenzione dell’epidemia».

Gli operatori sanitari, sono sotto controllo, è severamente proibito «pubblicare a piacimento informazioni, immagini, video e simili per evitare qualsiasi impatto negativo».

Un medico che ha lavorato a Wuhan ha riferito a Bitter Winter: «Visto che alcuni Paesi intendono chiedere alla Cina il risarcimento per i danni subiti, il PCC vuole bloccare le informazioni sui fatti in modo da spostare su altri le proprie responsabilità per la pandemia». Il medico ha anche aggiunto che, come tutti i suoi colleghi, è stato obbligato a firmare un accordo di riservatezza. Uno dei medici è stato rimproverato per aver scritto su WeChat che a Wuhan gli operatori sanitari erano sovraccarichi di lavoro. Gli è stato ordinato di eliminare tale informazione «per prevenire l’instabilità sociale».

Se questa è la situazione all'interno della Cina, poco ci manca che si ripeta anche nei Paesi dove abitualmente si intrattengono rapporti commerciali con il colosso cinese, vedi Italia. Nell'ultimo numero della rivista Cristianità (n. 403, maggio-giugno 2020) ne parla il direttore responsabile Andrea Morigi, giornalista di Libero. Morigi esamina gli evidenti cambiamenti dell'editoria giornalistica in Italia, dai quotidiani ai periodici, a cominciare dal massiccio ruolo della rete internet, che ha messo in difficoltà tutta la stampa. Affrontando il tema del ruolo del giornalista, ne rileva la scarsa fiducia dei giornalisti nell'opinione pubblica. Inoltre nel servizio affronta i rapporti dei gruppi editoriali, le loro dinamiche sociali, l'indipendenza dell'informazione e i rapporti con i vari finanziatori, anche se il loro perimetro di influenza va sempre più restringendosi. In particolare Morigi fa riferimento al gruppo Rcs MediaGroup e a Mondadori , Mediaset. In particolare quest'ultima «da anni ha stretto accordi per la trasformazione digitale con il colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei, che i governi occidentali, Stati Uniti in testa, sospettano di svolgere attività di spionaggio industriale e financo militare». (Gabriele Carrer, “Biscione cinese. Così Mediaset sceglie Huawei (non ditelo a FI, Salvini e Meloni), 9.5.2020, in Formiche.it).

Pertanto secondo Morigi, «in questo contesto va analizzata anche l'offensiva della propaganda del Partito Comunista Cinese nel panorama dell'informazione italiana. La prima testa di ponte viene gettata nel 2010, con la partnership fra Class Editori – che pubblica i quotidiani MF e Italia Oggi e diversi periodici, oltre a essere l'editore delle emittenti televisive Class Cnbc, Class Life e Class TV Moda – e l'agenzia di stampa Xinhua, principale gruppo media controllato da Pechino, in diversi campi, fra cui l'interscambio di notizia, l'organizzazione congiunta di eventi, i servizi di formazione online e le banche dati». (Andrea Morigi, Come cambia il mondo dell'informazione in Italia, n. 403, maggio-giugno Cristianità).

Che il fenomeno non si sia esaurito, Morigi riporta altri numerosi e successivi accordi con Xinhua, come quella dell'AGI, l'Agenzia Giornalistica Italia, di proprietà dell'ENI. L'accordo editoriale precisa Morigi è stato firmato nel marzo del 2016, fra l'AGI e il Quotidiano del Popolo, il maggiore quotidiano cinese, il cui presidente Yang Zhenwu ha ricordato il ruolo di diffusione delle politiche del governo e delle linee del partito Comunista Cinese della testata, non solo sul cartaceo, ma anche sui nuovi media e sui social media.

Non finisce qui nel 2017, l'Agenzia Nazionale Stampa Associata – ANSA, i cui soci sono i maggiori quotidiani italiani, firma un memorandum di cooperazione con l'agenzia Xinhua, che prevede lo scambio dei rispettivi notiziari, una collaborazione sulla produzione di contenuti. Nel 2019 si registra un accordo analogo tra il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria e il China Economic Daily, quotidiano di riferimento per l'informazione economica del governo cinese.

Infine significativa la notizia sulla visita di Stato in Italia, del premier cinese  Xi Jimping, in questa occasione la Rai, Mediaset e Class Editori hanno lanciato la “Settimana della Tv cinese”, nel corso della quale vengono trasmessi 20 lungometraggi, documentari e serie TV selezionati dal Cmg, tra cui la versione italiana delle 'Citazioni letterarie di Xi Jimping', segretario del partito Comunista Cinese e presidente della repubblica Popolare Cinese.

Ancora più grave appare la notizia che anche il sindacato dei giornalisti (FNSI) intrattiene rapporti con le istituzioni di Pechino, responsabili della censura e dell'incarcerazione di giornalisti, nonostante i loro incontri siano volti ad «approfondire alcuni aspetti legati all'attività sindacale e a promuovere la salvaguardia della libertà di stampa, del diritto dei giornalisti ad informare e dei cittadini ad essere informati».

Questa è la situazione ora si comprende perchè i nostri tiggi su Pechino, sulla Cina sono abbastanza abbottonati per non dire altro. Certo Pechino vuole conquistare il mondo, lo hanno detto esplicitamente i dirigenti comunisti cinesi, in questa strategia, il nostro Paese, sicuramente svolge un ruolo importante. Se un domani i cinesi, facendo leva sugli investimenti delle varie aziende controllate dall'apparato statale cinese, usassero l'arma del ricatto per limitare il diritto di parola e di espressione, «ci troveremmo di fronte non solo a un attacco alle libertà fondamentali, ma anche al tentativo di imbavagliare la denuncia delle persecuzioni contro i cristiani e i fedeli di altre religioni che avvengono dietro la Grande Muraglia nel nome dell'ideologia comunista».

 

I militari del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale hanno rinvenuto e sequestrato gran parte dell’ingente patrimonio del Fondo “Mostra della Rivoluzione Fascista”, già custodito presso l’Archivio Centrale dello Stato e costituito da gagliardetti militari, labari, e bandiere delle Squadre d'azione fasciste e dei fasci di combattimento che hanno partecipato alla Marcia su Roma, il 28 ottobre 1922, scomparso dai locali dell’Ente in circostanze ancora in corso di approfondimento.

Le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Roma, sono state avviate dalla Sezione Antiquariato del Reparto Operativo, a seguito della denuncia presentata, lo scorso mese di giugno, dal Direttore pro-tempore dell’Istituto. L’amara scoperta è avvenuta per caso, dovendo ricollocare alcuni esemplari fuori posto per motivi di approfondimento e studio. L’inventariazione dell’intera collezione (1065 esemplari), infatti, era stata ultimata nei primi mesi del 2018: un elemento importante per le indagini, che ha permesso agli investigatori di indirizzare immediatamente le ricerche in direzione di un ristretto e specifico settore criminale. Si tratta, per l’appunto, di cimeli molto ambiti per particolari collezionisti, disposti a pagare migliaia di euro, anche per un solo esemplare. 

Ed in effetti, tutta la refurtiva è finita nella disponibilità di un collezionista della Capitale, compresa un’uniforme di rappresentanza del corpo diplomatico, donata all’Archivio Centrale dello Stato, dagli eredi dell’ambasciatore d’Italia Sergio Fenoaltea (Roma, 9 giugno 1908 – Marino, 13 aprile 1995), già rappresentante del partito d’azione nel Comitato di Liberazione Nazionale. L’ignaro amatore era convinto di aver recuperato parte di quei gagliardetti e bandiere che erano andati dispersi nel corso del turbolento biennio 1943-1944, dopo la caduta del regime fascista. Le squadre d’azione fasciste, infatti, avevano tradizionalmente come proprio simbolo un gagliardetto di colore nero, con sopra ricamato un motto o il nome, ed uno stemma, solitamente un teschio, simbolo degli squadristi, o un fascio littorio. Il gagliardetto era affidato ad un portabandiera e la sua difesa era considerata prioritaria durante le azioni della squadra. 

I gagliardetti venivano portati nei cortei e, lungo il tragitto, salutati dagli squadristi e dalla popolazione, a costo di qualche scapaccione a chi non lo facesse (il famoso "giù il cappello!"). Tra le bandiere e i gagliardetti rinvenuti, ve ne sono alcuni in tessuto di colore rosso. Si tratta delle bandiere appartenute ai movimenti operai, sottratte nel corso di alcune delle violente incursioni compiute in quegli anni sanguinosi da parte delle Camicie nere, contro le sedi di partito o di camere del lavoro. Dalla lettura di alcune pubblicazioni storiche è emerso che la prima esposizione di tali cimeli avvenne, in carattere celebrativo propagandistico, nel 1932, in occasione del decennale della Marcia su Roma, e si tenne, per la durata di due anni, presso il Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale a Roma. 

Nell'ottobre del 1934, il copioso materiale, se si considera anche quello non esposto e rimasto nei depositi della mostra, venne trasportato presso la Galleria nazionale d'arte moderna a Valle Giulia, occupandone un'intera ala dell'edificio, per esservi custodito in attesa  della costruzione, mai avvenuta, del palazzo che avrebbe ospitato il Centro Studi sul Fascismo. Dopo l’esposizione in altri due eventi (uno nel 1937 e l’altro nel 1942, in occasione del ventennale della marcia su Roma), con la ricostituzione di un nuovo partito fascista (il Partito fascista repubblicano) e la creazione della Repubblica Sociale Italiana, dopo l’armistizio del settembre 1943, il fondo della Mostra, insieme ad altri archivi fascisti, fu imballato e trasportato a Salò. Le casse del materiale, collocate presso il Museo Lapidario di Salò, non furono mai aperte per l'intero periodo della loro permanenza al nord, dove furono rinvenute più tardi, il 27 maggio 1945. Per quanto riguarda il materiale rimasto nei locali di Valle Giulia, esso subì probabili manomissioni e asportazioni durante i drammatici mesi dell'occupazione nazi-fascista. Dispersioni cospicue erano inoltre già avvenute nei giorni successivi al 25 luglio 1943, giorno della caduta del regime. Inoltre risulta che il 5 giugno 1944, all'indomani della Liberazione di Roma, alcuni esponenti del Partito d'Azione si erano recati nei locali della mostra, per rendersi conto della situazione ed avevano prelevato vari oggetti, tra cui elmi e bandiere. 

Al termine del conflitto, una volta rientrato a Roma il materiale che era stato trasportato a Salò, tutta la documentazione archivistica, ormai riunita, dopo una verifica del carteggio ad opera dell'ufficio indagini del Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, venne trasferita presso l'Archivio del Regno, in funzione di pura conservazione e studio.Le indagini dei Carabinieri del Reparto Operativo del TPC sono tuttora in corso e puntano a chiarire
tutti gli aspetti della vicenda, a partire dalle modalità di sparizione del materiale dai locali dell’Archivio Centrale dello Stato.  

 

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