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Il Governo non può governare

Con questi voti a Palazzo Madama non si può governare. L’esecutivo ha ottenuto 156 «sì» alla fiducia al Senato, un numero che non consente secondo Open,di andare avanti verso un piano di riforme strutturali. Quelle che chiede il Pd e il gruzzolo di «volenterosi» che, il 19 gennaio, ha scelto di prolungare l'agonia di questo esecutivo. La terapia intensiva del governo potrà finire soltanto se Giuseppe Conte riuscirà a convincere, mettendo sul piatto anche qualche incarico ministeriale, un gruppo di responsabili più corposo di quello che si è presentato alla conta dei voti. Ma se non si allarga la maggioranza, considerando il rientro di Italia viva, nemmeno la truppa dei tre senatori dell'Udc potrà bastare a superare la soglia dei 161.

Se il Parlamento è lo specchio del Paese, scrive il corriere,giusto finire con il Var. Servono le immagini per decidere se il senatore del Movimento 5 Stelle Lello Ciampolillo e il socialista Riccardo Nencini, uno dei possibili responsabili che Giuseppe Conte aveva chiamato «fine intellettuale», hanno chiesto di votare in tempo oppure in fuorigioco. Per il verdetto ci vuole mezz'ora buona: potevano votare, due sì in più. Ma il fuori programma dà la misura di quanto sia fragile il governo rimasto in piedi dopo lo strappo di Matteo Renzi. Tredici ore di dibattito, compresa l'ormai classica pausa sanificazione, e il contatore si ferma a 156 voti favorevoli, 140 contrari e 16 astenuti. La fiducia c’è, perché i sì superano i no e questo per la Costituzione basta. La solidità politica no, perché il margine è stretto, i tre senatori a vita che ieri hanno appoggiato Conte non ci sono sempre e specie nelle commissioni far quadrare i conti è un’impresa. «C’è un problema di numeri — aveva ammesso prima del voto il premier Giuseppe Conte — se non ci sono il governo va a casa». Per questo nei prossimi giorni la maggioranza potrebbe guadagnare qualche seggio. Sfruttando le tre caselle lasciate libere al governo e qualche spacchettamento dei singoli ministeri. Ieri da parte dei responsabili o costruttori, che più tardi Matteo Salvini chiamerà «complici», l’aiuto è arrivato. Hanno detto sì Sandra Mastella e Tommaso Cerno. Da Forza Italia Andrea Causin e Maria Rosaria Rossi, subito espulsi dal partito, ma non Maria Carmela Minuto. Vota no ma resta alla finestra Paola Binetti, «Oggi no ma domani...». Tra gli ex M5S no da Tiziana Drago e Michele Giarrusso, applaudito dal centrodestra.  

Quattro telefonate,scrive il corriere, di giorno e di notte e con l'ultima, un soffio prima del gong, Giuseppe Conte strappa il sì del socialista renziano Riccardo Nencini, che ha in tasca il simbolo del Psi. Ma con 156 voti c’è poco da esultare. Il premier da una parte è soddisfatto, «perché si va avanti e adesso bisogna correre, per superare l'emergenza sanitaria e la crisi economica». Dall'altra, a Palazzo Chigi c’è preoccupazione perché i numeri, è chiaro, «non sono straordinari». Il piano è tirare dritto, mostrando di non sentire le grida indignate delle opposizioni. Non dimettersi («e perché mai?»), ma semmai salire oggi stesso al Colle per riferire al presidente Mattarella. E poi? Stamattina un vertice di maggioranza, lavorare per far approvare Recovery e scostamento di bilancio e, da qui a fine febbraio,dare la caccia ai responsabili per allargare la maggioranza relativa con cui ha salvato il suo governo dalla «irresponsabilità di Renzi». La sofferta fiducia di Palazzo Madama è per Conte «un punto di partenza», ma il finale è incerto. Prova ne sia l'ansia con cui l'avvocato chiedeva ieri ai suoi interlocutori: «Davvero Zingaretti vuole andare a votare?». Se tra un paio di settimane i numeri non saranno lievitati, Conte dovrà arrendersi a salire al Colle.  

Per capire meglio quale sarà la contropartita che il governo giallorosso dovrà pagare all'ex premier bisogna rispolverare il suo editoriale di qualche giorno fa apparso sul Corriere della Sera. La lista dei tributi da inasprire prendeva spunto dall'audizione di Giacomo Ricotti di Bankitalia, Capo del servizio assistenza e consulenza fiscale di via Nazionale. Nella sua relazione il dirigente di palazzo Koch ha suggerito al governo di alzare le tasse sulla ricchezza e sugli immobili per liberare risorse per il taglio delle tasse in busta paga. Una sorta di patrimoniale mascherata che ha subito fatto breccia dalle parti di Monti. E così il Loden ha ribadito immediatamente la sua lista dei desideri tassaroli al premier: "Riforma fiscale, con adeguato spazio alle semplificazioni, ad un fisco 'friendly ma non troppo' verso i contribuenti, alla necessità di salvaguardare la competitività ; ma anche, senza pregiudizi in alcuna direzione, ai temi che solo in Italia sono considerati tabù, temi che tutti i partiti, pavidi, non osano neppure pronunciare : imposta ordinaria sul patrimonio, imposta di successione, imposizione sugli immobili e aggiornamento del catasto, imposizione sul lavoro, ecc. Ci si potrebbe avvalere, come punto di partenza, delle audizioni parlamentari svoltesi recentemente, in particolare di quella – meticolosamente non sovversiva, ma che non ha tabù – di Giacomo Ricotti della Banca d’Italia (11 gennaio 2021)". Parole forse fin troppo chiare che adesso, con il voto di fiducia di Monti incasellato tra i senatori che sostengono il governo, potrebbe dare spazio ad un vero piano horror fiscale.

È giusto ricordare che in questo contesto così debole per l'esecutivo, Giuseppi è appoggiato anche da Leu e Pd. Ed è proprio da una parte dem e da Leu che sono arrivate in parlamento proposte esplicite per una patrimoniale. Insomma la nuova maggioranza che sostiene l'esecutivo zoppo di Conte si basa su una voglia incontrollata di mettere le mani nel portafoglio di milioni di italiani. E c'è da scommettere che anche i conti correnti potrebbero entrare nel mirino del governo. Basti ricordare che con la nuova direttiva europea bastano pochi euro di rosso sul conto per far scattare l'inferno con tanto di segnalazione ed ingresso diretto nella black list di chi non paga. Con l'asse Monti-Conte non c'è dar star sereni nemmeno sul fronte previdenziale.

Il 2021 è un anno davvero decisivo per diversi motivi. Il primo è abbastanza noto: al 31 dicembre andrà in soffitta Quota 100 e al momento l'esecutivo non ha presentato una riforma credibile del sistema previdenziale che possa permettere un'uscita dal lavoro in anticipo in modo soft. Al netto della proroga di opzione donna, non c'è sul campo ad oggi una riforma che possa sostituire davvero Quota 100. E il piano gialloverde per l'uscita anticipata non è mai stato digerito da Monti e il timore, adesso, è che possa nuovamente tornare l'incubo Fornero con un inasprimento ulteriore dei requisiti per la pensione con un ulteriore ritocco all'età pensionabile. Ma non finisce qui. Dall'1 gennaio 2022 dovrebbe tornare in pista la rivalutazione premiante degli assegni previdenziali finora calmierati da un sistema penalizzante fortemente voluto anche dal governo Monti. L'esecutivo giallorosso aveva già tentato la strada delle proroga del blocco anche per tutto il 2022. Percorso abbandonato poi per le proteste dei sindacati. Ma è possibile che la proroga possa tornare con la nuova manovra che verrà varata alla fine di questo anno. Insomma il sì di Monti alla fiducia mette una sorta di catena al collo del governo. Una catena che pagheremo tutti no

Siamo seri: quei 156 voti a Palazzo Madama non bastano al governo. E la faccia del premier subito dopo i risultati tradiva tutta la preoccupazione di ritrovarsi d'ora in poi nelle mani di fuoriusciti e costruttori, sotto il costante ricatto di Italia Viva. Renzi, numeri alla mano, resta infatti ancora l'ago della bilancia del Parlamento: gli basta fare pollice verso per rimandare l’avvocato del popolo nelle aule dell’Università.

Dei 156 voti raggranellati ieri dai reclutatori contiani ben tre sono voti dei senatori a vita. Sorvoliamo sul fatto che il M5S fino a poco tempo fa voleva cancellare questo istituto feudale, stile “valvassini e valvassori”, e concentriamoci sul fatto che partecipano molto poco alle sedute dell’Aula. Liliana Segre ha la sua età, si definisce “spettatrice” al Palazzo, risulta presente o in missione solo nel 30,35% delle sedute, ed è probabile che al Senato si vedrà sempre meno. Nel computo dei voti “utili” possiamo anche non contarla: e siamo a 155. “Rigor Montis” (così lo chiamavano i 5S) ed Elena Cattaneo invece sono più attivi, ma nelle votazioni elettroniche risultano quasi sempre in missione. Monti ad oggi è stato presente il 5,62% delle volte, la collega il 27,97%. Poco, molto? Resta il fatto politico: fondare una maggioranza sui voti dei “non eletti”, ma di nomina perpetua, sembra davvero troppo.

Tolti i tre senatori a vita, dunque, il pallottoliere scende a 153. Di questi, due voti vengono da Forza Italia, e di solito queste cose non avvengono gratis. Maria Rosaria Rossi e Andrea Causin si faranno sentire per ottenere qualcosina e se non verranno accontentati diventeranno una spina nel fianco. 

Causin e Rossi sono fuori da Forza Italia: votare con il governo in questo caso non è una questione di coscienza". Antonio Tajani non le manda a dire e, visibilmente contrariato, spiega all'AdnKronos che i senatori azzurri che hanno votato la fiducia a Giuseppe Conte in Senato sono ormai da considerarsi fuori dal partito   

Lo stesso dicasi per gli ex Cinque Stelle tornati nei ranghi: se li avevano cacciati un motivo ci sarà, no? Tra i folgorati sulla via di Damasco c’è pure Tommaso Cerno, giornalista, eletto nelle fila del Pd, poi uscito dal gruppo e infine rientratovi. Domenica sera, in diretta a Non è l’Arena, aveva assicurato a Massimo Giletti che lui la fiducia non l’avrebbe votata. Quel ragionamento, riguardando il video, appare tutt’ora incomprensibile. Come incomprensibile è la rapidità con cui ci ha ripensato due giorni dopo. Chi assicura a Conte che chi cambia idea come le mutande non lo faccia ancora? Il governo, in sostanza, la maggioranza relativa la raggiunge solo cavalcando le onde dei sentimenti personali dei transfughi. 

Causin e la Rossi si sono lanciati. Causin secondo il giornale,abbozza pure una mezza giustificazione per tutto ciò. "Ho riscontrato nell'intervento del presidente Conte la volontà forte di apertura di una nuova stagione politica e di ripensare, in modo più incisivo ed efficace l'azione del governo soprattutto per il contrasto alla pandemia. Nel momento in cui, sarebbe più facile e comodo fuggire dai propri doveri, stare defilati ed attendere gli eventi, ho deciso di fare un passo avanti", dice l'ormai ex senatore forzista. "Il mio sì alla fiducia - continua - vuole essere un contributo ad aprire una stagione politica nuova in un Paese dove in soli 8 mesi, i bisogni e le questioni sociali sono radicalmente mutate".

"L'Italia e l'Europa stanno affrontando una crisi sanitaria ed economica senza precedenti scrive il giornale,non possiamo attendere la fine della pandemia per ricostruire il Paese. Si deve agire subito e, in questo scenario, ho deciso di accogliere l'appello del Presidente della Repubblica Mattarella condiviso dalle forze sociali ed economiche del Paese, e dare il mio contributo affinché si possa uscire da una crisi che gli Italiani non solo non comprendono, ma che sentono dalle paure oggi più che mai dalle paure e dai bisogni che hanno", ha aggiunto l'ex forzista. Causin parla pure di "passo avanti sofferto perché nella politica gridata di oggi certamente decidere significa anche recidere rapporti con le persone e con la comunità politica di Forza Italia a cui sono appartenuto e in cui mi sono trovato bene, nonostante io abbia pubblicamente sempre espresso grandissimo disagio e preoccupazione per una deriva populista e sovranista della coalizione, distante dai miei valori e dalla mia storia personale".

Pure la Rossi scrive il giornale,prova a dire qualcosa. "Ho votato la fiducia al presidente Conte, che non è un esponente di partiti. Conte in questo straordinario e delicato momento è la nostra unica interfaccia in Italia e nel mondo". Dice. La senatrice Maria Rosaria Rossi è appena tornata a casa. Raggiunta al telefono all'Adnkronos spiega la sua scelta di votare la fiducia al governo Conte in dissenso con la linea di Forza Italia. Il suo strappo spiazza il partito. L'ex azzurra sottolinea che "la visione di Conte è di una politica liberale, europeista e garantista

 

 

fonti :  il giornale/ corriere della sera / open 

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