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La Chiesa ha bisogno dei martiri e questo che mi appresto a presentare ai lettori è un po' speciale, innanzitutto si tratta di un fanciullo, un messicano, San Josè Sanchez del Rio. Il giovane, aveva quindici anni quando è stato ucciso dalle guardie dell'esercito del governo federale messicano, laicista e dominato dall'ideologia massonica.

La giovane vita di San Josè è legata alla guerra dei Cristeros, combattuta in Messico tra il 1926 e il 1929, da una parte gli insorti cattolici e dall'altra l'esercito federale del presidente dittatore Francisco Plutarco Elias Calles.

Josè Sanchez,nonostante la giovane età milita come alfiere nell'esercito cristero nella sua zona di Sahuayo, viene preso prigioniero dai governativi, dopo ripetute minacce, il fanciullo non abiura la sua militanza, alla sua fede cristiana, pertanto viene torturato e ucciso in odium fidei. Recentemente il ragazzo è stato canonizzato da papa Francesco.

Il libro scritto da padre Luis Laurean Cervantes, legionario di Cristo, viene presentato per l'edizione italiana, da Oscar Sanguinetti. Il testo è pubblicato da D'Ettoris Edizioni di Crotone nel 2017.

Sanguinetti precisa che l'opera di padre Laurean non è la solita agiografia del santo che spesso si traduce «in una enfasi metodologica ed espositiva che non di rado sfiora la deprecabilità». Nonostante faccia il “tifo” per il martire-fanciullo, suo compaesano e suo fratello nella fede in Cristo, l'agiografia di San Josè, è abbastanza critica, seria e documentata, con ben otto pagine di fotografie, frutto di una ricerca “sul campo”, con accesso agli archivi locali.

Finora le nostre conoscenze del martire, almeno in Italia, fanno riferimento al film Cristiada (For Greater Glory). Tanto ha fatto padre Lauerean, ma ancora secondo Sanguinetti resta molto lavoro da fare, non solo per completarne l'opera, la storia di San Josè, ma soprattutto per conoscere meglio «la grande pagina storica della opposizione, anche armata, che i cattolici messicani – cioè la stragrande maggioranza del popolo – hanno dovuto esprimere negli anni 1920 e 1930 per resistere alla pressione di uno Stato caduto allora nelle mani[...]dello sguaiato e crudele laicismo dei più fanatici circoli rivoluzionari».

Al momento il libro di Laurean sulla figura di San Josè è uno dei pochissimi esistenti in lingua italiana. «La figura di san Josè è importante per tutti, perchè è un esempio vibrante di pratica del cristianesimo fino all'eroismo e di un amore giovanile portato usque ad sanguinem per la Chiesa, in un frangente di grave e cruenta persecuzione che quest'ultima doveva subire».

Quello di san Josè è un cattolicesimo popolare “vissuto” e integrale. Seguendo la lettura di Jean Meyer Barth, il maggiore storico del movimento popolare cristero, il cattolicesimo dei Cristeros, si può accostare certamente alle varie insorgenze popolari antinapoleoniche dell'ottocento.

Ritornando alla storia di san Josè, per Sanguinetti, egli scelse deliberatamente la morte dolorosa, «proprio quando i suoi carnefici vollero che inneggiasse al governo persecutore, arrivando al punto di cercarlo di sedurlo con la proposta di un allettante cursus honorum nell'ambiente di quelli che egli considerava i nemici di Cristo». In definitiva san Josè «ha preferito morire pur di non rinnegare la sua scelta, a lungo agognata, di militare nelle file degl'insorti cattolici e di dare, se del caso, la vita per la fede negata e per la patria oppressa». Sostanzialmente san Josè fino all'ultimo «ha rivendicato, gridato la sua appartenenza a quei libertadores che avevano innalzato le insegne di Cristo Re e della Vergine guadalupana e combattevano, ad armi impari, sotto la loro protezione per difendere la libertà di professare liberamente la fede quotidiana».

Gli storici laici si meraviglieranno della tenacia, della forza identitaria del giovane Josè, così non dovrebbe essere per gli studiosi cattolici. Nel passato i credenti erano abituati a vedere uomini e donne impugnare il fucile per difendere la Chiesa e la cristianità, così è stato per il Messico all'inizio del secolo scorso. «Uno stile che tanti secoli prima – scrive Sanguinetti – nel periodo più alto della cristianità, in un frangente in cui si trattava di difendere la libertà di religione e la patria, in tante parti d'Europa aveva animato grandi figure di capitani guerrieri – da Nuno Alvares Pereira (1360-1431) a santa Giovanna d'Arco (1412-1431) -e, addirittura, numerosi ordini di monaci combattenti in cui si viveva senza alcun attrito, né dottrinale, né pratico, fra vita cristiana ed esercizio delle armi».

Anche se la scelta delle armi non era l'unica opzione, tanto che i vescovi messicani non legittimarono mai in forma piena e indiscriminata la scelta delle armi dei Cristeros. Tuttavia in quella fatidica estate del 1926 «ogni modalità di resistenza pacifica contro il governo ateo e anticlericale si era rivelata del tutto vana». Concludendo la prefazione lo storico ed esponente di Alleanza Cattolica è convinto che il giovane san Josè, come un novello “figlio” dell'indios Juan Diego (l'”Aquila che parla”), «è un santo da proporre specialmente a chi oggi è giovane per aiutarlo a riconquistare, come scrive padre Luis, una “tempra” nuova e migliore. Josè non era un pazzo, né un esaltato; nonostante l'età, egli scelse lucidamente di rinunciare ai beni della terra: l'affetto dei genitori e dei fratelli [...]».

Come ho scritto in un altra occasione raccontare la vita dei martiri fa bene ai cristiani d'oggi, soprattutto a noi in Occidente, che almeno per il momento non soffriamo persecuzioni cruenti, come ai tempi di san Josè e dei cristeros: nessuno fucila più i parroci, né impicca i cristiani ai pali del telegrafo. Anche se oggi esiste un altro tipo di persecuzione più sottile e insidiosa, più invasiva e capillare. Una persecuzione che attacca l'uomo e il giovane nella sua interiorità e nella sua anima, «minandone propria la tempra, cancellando i semina Verbi e i frutti della catechesi infantile e inaridendo quelli derivanti dalla pratica sacramentale, indebolendo la volontà e piegandola ai modelli di vita largamente deteriori, perchè ostili alla vita interiore e talora alla vita stessa, che oggi sono diventati un po' la way of life “politicamente corretta” della maggioranza dei giovani».

L'autore dopo aver ringraziato i numerosi e generosi collaboratori che hanno contribuito all'allestimento dell'opera con suggerimenti, documenti e fotografie, racconta la vita del giovane messicano morto per Cristo Re dell'universo. Un testo ricco di testimonianze orali trascritte dall'autore, particolarmente ricco di espressioni e di riferimenti di non facile comprensione per il pubblico italiano. Il testo inoltre è corredato da due appendici: la 1, Pio XI, Lettera enciclica Iniquis afflictisque. La 2, Omelia del Cardinale Josè Saraiva Martins. Il libro dopo aver descritto il tempo e il luogo (Michocan) dove si svolge la storia, descrive la legislazione iniqua, le norme persecutorie nei confronti della Chiesa messicana. In particolare viene presa in esame la Costituzione di Queretaro del 1917, socialisteggiante, redatta in maggioranza da giacobini massoni anticlericali.

La persecuzione dei cattolici raggiunse il suo culmine sotto la presidenza Calles, che come hanno fatto in altri Paesi e in altri tempi, tentò di dividere i cattolici, fondando una Chiesa Nazionale Messicana, dunque una chiesa scismatica. Alimento un anti-clericalismo militante che si manifestò con l'espulsione di più di duecento sacerdoti missionari stranieri, attaccando anche l'opera educativa e sociale della Chiesa; chiuse le chiese, scuole, asili e opere di beneficenza. La Chiesa ha reagito subito, il papa Pio XI denunciò coraggiosamente le violenze con una lettera apostolica, i vescovi messicani con una lettera pastorale collettiva chiedevano la riforma della Costituzione. L'associazionismo cattolico si è fatto sentire, in particolare quello della Lega Nazionale per la Difesa della Libertà Religiosa (LNDLR) che ha mobilitato la popolazione, raccogliendo due milioni di firme a favore della modifica delle leggi anti-religiose.

Tutto questo non è bastato il governo federale continuò per la sua strada, la persecuzione. Ai cattolici non rimaneva che la via delle armi, la scelta non era facile, si è discusso a lungo tra i fedeli. «La Santa Sede chiedeva di esaurire tutti i mezzi pacifici e, con atteggiamento prudenziale, dichiarava di non potere né autorizzare, né proibire la lotta armata». Il 25 luglio 1926, i vescovi messicani con una lettera pastorale, definirono la loro posizione, da un lato manifestavano il totale disaccordo con le leggi che violavano la libertà religiosa, dall'altro prendevano le distanze dai movimenti armati, dichiarandosi estranei a essi, «ma ricordavano che in particolari circostanze concrete era lecito difendere con le armi i diritti che invano si erano difesi con i mezzi pacifici. In ogni caso, l'episcopato affermava che la lotta armata, in quelle circostanze, non era una ribellione, bensì un atto di legittima difesa».

La lettera concludeva che tutti i gruppi, erano liberi di esercitare i propri diritti civili e politici, mentre per quanto riguarda quelli religiosi dovevano obbedienza ai loro vescovi. 

Tutto iniziò il 31 luglio 1926, una giornata di lutto nazionale. Quel giorno si scatenò l'aggressione governativa contro le chiese e i luoghi di culto. Nel III° capitolo, padre Laurean, utilizza per descrivere gli avvenimenti, testimonianze di prima mano come quella di Alberto Barragan Degollado. Che allora aveva appena otto anni e poi di Josè Prado Sanches, di sette, e Rafael Degollado Guizar di poco più di venti.

Tra le vittime cristere di quei mesi di guerra, il libro racconta in particolare i ventisette martiri, proprio di Suhuayo, che era tra l'altro il paese del nostro giovane protagonista Josè Sanchez.

Padre Laurean racconta dettagliatamente lo stato d'animo del giovane ragazzo che spesso manifestava impazienza di conquistare il paradiso. Spesso ripeteva una frase:“non è mai stato così facile come oggi conquistare il cielo”. Anche il giovane Josè nonostante la sua ferma convinzione di partecipare ad azioni di guerra, si interroga sulla sua liceità, in quel momento così difficile e pericoloso di essere cristiano. Dal VI° all'VIII° capitolo si racconta la Via Crucis del povero ragazzo, tra l'altro ben visualizzata nel film Cristiada. Più volte torturato su indicazione di quel Picazo, suo padrino, ha affrontato il suo calvario, come un agnello mansueto, gridando sempre con voce forte, ad ogni pugnalata di El Zamorano: “Viva Cristo Re!”, “Viva la Vergine di Guadalupe!”. Il giovane Joselito muore come un vero soldato e testimone di Cristo Re.

 

 

Qualcuno sui social ha scritto provocatoriamente:“il Muro di Berlino è caduto, ma il comunismo resta” e penso che non si riferisse al Partito comunista di Marco Rizzo, ma a una mentalità e metodologia di fare politica di certi ambienti politici, culturali mediatici e intellettuali. Basta guardare il partito del “politicamente corretto” che imperversa ovunque, sui social, sui media, nella scuola, nell'editoria. Pertanto visto che esiste quest'area politica che si comporta da “comunista”, è forse utile conoscere e studiare che cosa è stato veramente il Comunismo nella Storia.

A questo proposito esiste un ottimo testo, «Il costo umano del comunismo. Russia, Cina e Vietnam», una nuova edizione italiana pubblicata da D'Ettoris Editori di Crotone (2017). Si tratta di tre documenti, tre rapporti, che nel 1970 aveva commissionato il Senato americano, sulle vittime dei crimini dei regimi comunisti, ora ripubblicati a distanza di quarantacinque anni dalla loro prima edizione italiana. Il primo è “The Human Cost of Soviet Communism”di Robert Conquest. Il secondo è “The Human Cost of Communism in China” di Richard Louis Walker. Il terzo, infine, è “The Human Cost of Communism in Vietnam”, coordinato da James Oliver Eastland, senatore democratico del Mississipi nel 1972.

Nel testo ripubblicato, in occasione del centenario della Rivoluzione d'Ottobre, c'è un saggio introduttivo di Oscar Sanguinetti, che è anche il curatore dell'opera.

Naturalmente il numero delle vittime calcolate negli anni '70 era diverso, ora dopo la consultazione di archivi, la caduta del Muro e la pubblicazione de Il Libro nero del comunismo si parla almeno di 100 milioni di morti.

A differenza del nazionalsocialismo e del militarismo nipponico, le vittime del comunismo marxista-leninista sono almeno una decina di volte maggiori. Pertanto dopo la caduta del Muro, per Sanguinetti, «non vi è stata alcuna messa sotto accusa delle classi dirigenti comuniste dell'Urss e dei Paesi ex satelliti, nonché dei partiti comunisti del mondo libero, sezioni dell'internazionale rossa». Infatti nonostante la natura criminogena, nessuna istanza internazionale ha indagato, né ha pronunciato qualsiasi forma di condanna dei regimi comunisti, come invece è stato fatto con il processo di Norimberga e di Tokio col nazionalsocialismo e l'imperialismo giapponese. Non è avvenuto nei Paesi europei schiavi del comunismo fra il 1948 e il 1989, dopo la riconquistata libertà. Perfino nella “martire” Ungheria, c'è stato un computo del danno materiale e morale, figuriamoci in Cina, dove i “nipotini di Lenin”, dopo il 1989 sono rimasti saldamente in sella al potere.

Eppure la storia del Novecento è segnata drammaticamente dal movimento comunista, che dove è andato al potere, dalla Spagna al Nepal, ha causato devastanti conflitti civili con un numero di indescrivibili di lutti e di danni. Tutto questo è avvenuto in due momenti: «quando cerca di conquistare il potere in uno Stato – con il terrorismo, l'insurrezione, la guerra civile e convenzionale – ma, soprattutto, quando lo ha conquistato».

Nei tre documenti proposti dalla D'Ettoris Editori, viene minuziosamente descritto il percorso criminale e omicida del movimento comunista nei tre Paesi presi in considerazione. «[...] A partire dal momento in cui la minoranza rivoluzionaria comunista inizia a tradurre in realtà il suo progetto utopistico e anti-naturale di società aggredendo in maniera terroristica il corpo sociale e invadendo in maniera capillare ogni articolazione di esso per 'ripulirla' da ogni 'parassita' e da ogni nemico».

Il sistema comunista si basava sul terrore, che non è come si intende oggi, il “terrorismo” dello stato totalitario, come osserva e mette in luce Conquest, l'artefice è lo Stato. «E' l'intero apparato statale,  controllato  totalitariamente da una minoranza politica ideologizzata, che usa degli enormi mezzi di cui dispone: polizia, esercito, magistratura, stampa – lo stato moderno è una macchina pressochè onnipotente – contro la propria popolazione per 'potarne' i rami individuali e corporati che ritiene ostacolino l'avvento del disegno che anima il gruppo al potere».

Il terrore è legato alla rivoluzione comunista e fa riferimento a quel Terrore scatenato durante la Rivoluzione Francese.

Nel saggio introduttivo Sanguinetti punta il dito sulle colpe dell'Occidente, i circoli mondialisti e finanziari di Wall Street che hanno finanziato sia la rivoluzione leniniana, che quella hitleriana. Prima che dopo la seconda guerra mondiale, le simpatie per l'Unione Sovietica erano abbastanza trasparenti da parte degli Usa. Poi dopo la guerra continua questo “clima “ favorevole da parte di certo culturame liberal. Per arrivare ai tre rapporti del '70, che rappresentano secondo Sanguinetti, «uno strumento al servizio della guerra psicologica anti-comunista, che allora gli Stati Uniti d'America si trovavano in prima linea a combattere».

Ma in che senso si deve intendere “il costo umano”, per il curatore dell'opera occorre guardare «nel loro complesso un numero astronomico di vittime». Quando si parla di vittime non si intende solo quelle militari e civili caduti in guerra o in rivoluzioni. «I rapporti considerano invece, correttamente, i morti – cui andrebbero aggiunti i feriti, nel corpo e nello spirito, e i danni morali e materiali subiti dalle comunità aggredite – frutto dell'aggressione diretta o indiretta che le classi dirigenti comuniste scatenano nei confronti delle rispettive società per attuare i propri disegni d'ingegneria sociale e per 'ripulirle' dai nemici e dagli oppositori […]». Pertanto il “costo umano” del comunismo comprende, «tutti coloro che i comunisti uccidono, direttamente o privandoli della libertà e ponendoli in contesti di impossibile sopravvivenza, in quanto li considerano nemici politici, ossia nemici di classe[...] fucilati con o senza processo; torturati a morte nelle celle della polizia segreta; condannati alla deportazione nell'”Arcipelago Gulag”, a costruire a mani nude canali a cinquanta gradi sotto zero o imprigionati nelle centinaia di micidiali Laogai cinesi, molti dei quali ancora attivi; privati del senno nelle cliniche psichiatriche; massacrati e sepolti nelle foibe e nelle fosse comuni come quelle di Katyn; imprigionati fino a morire di stenti; fatti perire di fame attraverso carestie create artificialmente, come i kulaki, i contadini benestanti ucraini – nella strage, per alcuni genocidio, nota come 'Holodomor'».

Il comunismo è una gigantesca macchina di morte senza uguali nella storia, allestita dai regimi marxisti-leninisti, dove hanno conquistato il potere, hanno subito macinato vite umane. Il comunismo «è criminogeno per natura, ha come esito strutturale e fatale il 'classicidio' e come cause primarie l'ateismo militante e il totalitarismo politico-sociale».

Naturalmente nelle indagini dei tre rapporti del costo umano del comunismo ci sono dei limiti: mancano all'appello diverse vittime della repressione delle rivolte anti-comuniste, a cominciare da quella ungherese del 1956. Mancano vittime che riguarda la Cina e il Vietnam. In conclusione scrive Sanguinetti, abbiamo davanti, dati imprecisi e in buona misura congetturali, ma non per questo da scartare. Arrivare a percentuali di errori minime è davvero impossibile. Tuttavia secondo Sanguinetti le cifre del costo umano del comunismo, secondo l'orientamento degli studiosi, «propende all'unanimità per un approssimazione per difetto, vale a dire che la maggioranza degli studiosi pensano che le cifre reali sono di gran lunga più alte di quelle addotte in maniera puntuale».

A questo punto occorre fare delle precisazioni: i totalitarismi e le dittature, non sono la stessa cosa. Attenzione le cosiddette dittature del Novecento non sono mai arrivati al livello dell'”impero del male” comunista. Il nazionalsocialismo, ha ucciso i suoi “nemici” in misura incomparabilmente minore, anche se ha compiuto crimini particolarmente odiosi, come lo stermino con metodi industriali degli ebrei europei e la decimazione della Polonia cattolica. «E' lecito pensare – scrive Sanguinetti – che il nazionalsocialismo hitleriano non ha avuto il tempo di eguagliare il regime sovietico, perchè è durato solo quattordici anni[...]».

Sui fascismi Sanguinetti precisa che hanno perseguitato gli oppositori, «ma mai hanno pianificato l'annientamento fisico dell'avversario e raramente, solo in situazioni eccezionali, sono giunti usque ad sanguinem».

L'introduzione del curatore conclude con le obiezioni che si possono fare allo studio pubblicato da D'Ettoris Editori. Si potrebbe obiettare che oggi i regimi comunisti non uccidono più; l'ideologia comunista no è più quella. Allora il pensiero va alla Cina, al Vietnam unificato, a Cuba. Per farla breve invito il lettore a leggere “Il Libro nero del comunismo”, una serie di saggi, redatti nel 1997, da un valido gruppo di autori, nessuno dei quali “di destra”, coordinati da Stephane Courtois. Un libro assai poco “politicamente corretto”, purtroppo si è persa la grande occasione propagandistica per fare un serio esame sui crimini del comunismo e la colpa non è solo dei post-comunisti che hanno fatto di tutto per “insabbiare” il saggio, ma anche dei cosiddetti anti-comunisti.

Tuttavia anche i tre rapporti sono finiti nell'oblio, tra l'altro dopo il 1973 non è stato più riedito.“Che senso ha riproporre oggi, a oltre quarant'anni di distanza”, il costo umano del comunismo? Si domanda Sanguinetti. «Serve per prima cosa a ricordare che il comunismo e la morte sono stretti sodali per decenni e non hanno ancora 'divorziati' fa sempre bene e, visto che il comunismo ancora domina su quasi un miliardo [...]».

Serve ricordare i crimini del comunismo perchè gli anticomunisti ci sono ancora e «non credono affatto che il comunismo 'sia finito', ma che continui sotto altre spoglie, E che, anzi, proprio grazie alla metamorfosi che ha attuato, almeno da noi, abbia ripreso quota e sia riuscito ad arrivare dove con il vecchio volto, ancorchè addolcito dal fascino intellettuale del gramscismo e dal pauperismo della 'austerità' berlingueriana – autentica parodia evangelica -, non era riuscito ad arrivare, cioè nella 'stanza dei bottoni'». Certo oggi, «i comunisti occidentali non indossano più i colbacchi rosso-stellati della CEKA, né portano al collo i fazzoletti rossi dei partigiani omicidi del 'Triangolo Rosso' [...]». Oggi gli eredi del comunismo storico professano «il relativismo morale più radicale e l'umanitarismo naturalistico ultra-ugualitario per tradurre in leggi dello Stato ogni presunto 'diritto' o 'desiderio' in campo morale[...]».

Ieri, 24 ottobre 2019, si apre la Conferenza internazionale organizzata per i 50 anni del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale (TPC), il più antico reparto di polizia al mondo istituito specificamente per il settore, che opera a livello internazionale con i suoi “Caschi Blu della Cultura” formati d’intesa con l’UNESCO e con il MiBACT.

Il Comando TPC in mezzo secolo ha recuperato 803.199 beni culturali e oltre 1.136.876 reperti archeologici, sequestrato 1.363.232 opere false, arrestato 1.384 autori di delitti legati all’arte e deferito all’Autorità Giudiziaria oltre 23.000 soggetti. Si è adeguato costantemente alle nuove tecnologie realizzando una Banca dati che conta quasi 1.300.000 beni illecitamente sottratti.

Nei due giorni di lavori, che si terranno presso la Scuola Ufficiali Carabinieri di via Aurelia 511, saranno affrontate le tematiche del contrasto ai traffici illeciti di beni culturali promuovendo un momento di riflessione sulla materia, di grande interesse per la collettività e per la comunità internazionale.

La prima giornata, che ha visto la presenza di importanti Autorità del settore, è stata aperta dai saluti del Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Generale di Corpo d’Armata Giovanni NISTRI,  e del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, Onorevole Dario FRANCESCHINI. Subito dopo, l’Ambasciatore degli Stati Uniti d’America presso la Repubblica Italiana e la Repubblica di San Marino, Lewis Michael EISENBERG, restituirà all’Italia una testa di statua in marmo del I-II secolo d.C., raffigurante il Dio Pan, rubata a Roma nel febbraio 1968 presso l’area archeologica degli Orti Farnesiani al Palatino e rimpatriata dagli Stati Uniti d’America, in questi giorni, grazie alla collaborazione fra i Carabinieri del Comando  TPC e lo Homeland Security Investigations (HSI) statunitense.

Questa riconsegna, che testimonia l’importanza di un attento monitoraggio dei flussi di beni e il ruolo della cooperazione internazionale, è l’ultima in ordine di tempo di una serie infinita. Nei mesi scorsi è stata l’Italia, a seguito delle indagini del Comando TPC, a riconsegnare rilevanti e numerosi reperti al Messico e alla Cina.

Dopo la breve cerimonia, alla lectio magistralis del cardinale Gianfranco RAVASI, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, sono seguiti per tutto il giorno interventi di esponenti delle Organizzazioni internazionali, dirigenti e tecnici del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, rappresentanti del mondo accademico, degli enti museali e delle associazioni di categoria.  Saranno illustrate fra l’altro le “buone pratiche” delle restituzioni da parte della Danimarca del “Carro di Eretum” e da parte  della Germania del “Vaso di fiori” del pittore fiammingo Van Huysum, da poco tornato a Palazzo Pitti. Di quest’ultimo argomento ha trattato il direttore degli Uffizi Eike Schmidt.

La seconda giornata, caratterizzata da un taglio più pratico, sarà riservata agli esperti della magistratura e delle forze dell’ordine che, in vari Paesi, si occupano di tutela del patrimonio culturale.  

A tutti i lavori assisteranno gli studenti degli ultimi anni delle scuole di specializzazione, i media di settore e i frequentatori della Scuola Ufficiali Carabinieri.

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