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Venerdì, 01 Novembre 2024

Francesco è il Papa che più conosce le donne. Le ha frequentate da arcivescovo a Buenos Aires, le ha incoraggiate come nessuno prima in Vaticano. Bergoglio conosce la sofferenza di tante donne che hanno lottato: per ritrovare figli, parenti, per rivendicare i propri diritti, per liberarsi dagli sfruttatori, per guadagnare la dignità.

E conosce anche le donne che, fuori e dentro la Chiesa, operano per un movimento dal basso che conduca a una rivoluzione gentile grazie alla quale le donne non siano più schiave, in nessun ambito, ma consapevoli portatrici di contributi autentici e singolari nella società. A partire dagli interventi più significativi del Papa, il volume ripercorre il particolare legame e l’attenzione di Francesco nei confronti dell’emisfero femminile: da alcune nomine importanti ai vertici della Curia romana al richiamo per cui le suore non siano più confinate nel ruolo di “badanti” dai grandi temi femminili – come il femminicidio, l’aborto, la tratta delle schiave – alle storie che hanno avuto, spesso dietro le quinte, protagonisti proprio Francesco e tante donne battagliere.

Il Papa delle donne Di Nina Fabrizio Prefazione di Alessandra Smerilli Post fazio nefi Giulio Maira In occasione dei 7 anni di pontificato di papa Francesco, è uscito il 21 febbraio in libreria un volume che per la prima volta affronta in modo completo il rapporto di Bergoglio con le donne della chiesa Del resto, Bergoglio è il Papa che non perde occasione di ricordare continuamente che la Chiesa è “donna”.

Nina Fabrizio, Francesco. Il Papa delle donne, Edizioni San Paolo 2020, pp. 208, euro 18,00 NINA FABRIZIO (Napoli, 1979) è giornalista professionista, lavora dal 2008 per la redazione Cronache italiane dell’Ansa, dove segue in particolare l’informazione religiosa e vaticana. Dal 2013 segue le vicende d’Oltretevere anche per il Qn-Il Giorno-Il Resto del Carlino-La Nazione e per la Radiotelevisione svizzera italiana. Collabora con la rivista della Mondadori Il Mio Papa. Ha scritto, con il collega Fausto Gasparroni, Intrighi in Vaticano. Misteri e segreti all’ombra di San Pietro. Dai Borgia al Corvo (2013) e I Papi della Pace. L’eredità dei santi Roncalli e Wojtyla per papa Francesco (2014), entrambi editi nella Bur. Ciò che ama di più è insegnare il lunedì pomeriggio in un doposcuola di una media statale della Capitale. 


 
 
 
 

Stuart Mill ci ha insegnato che la libertà va limitata (solo) nella misura in cui può diventare una minaccia alla libertà degli altri. Ma questo limite alla compressione della libertà è venuto molte volte meno nei periodi d’emergenza, nei quali il dubbio (l’essenza della libertà) è proibito e il confronto zittito a furor di popolo. Sono momenti nei quali lo Stato di diritto viene presentato come un intralcio a provvedere e ad agire. Nei quali l’iperstatalismo la fa da padrone, a tempo indeterminato. Ed una volta che questi provvedimenti siano assunti, anche in buonafede, bisogna stare attenti che non si radichino nell’ordinamento – come, appunto, è già avvenuto – e non divengano definitivi.

Questo momento storico che viviamo è proprio un momento emergenziale. Abbiamo visto disporre regolamentazioni con provvedimenti limitativi della libertà impropri (come i dpcm, ovvero: decreti Presidente Consiglio ministri), che si è poi legittimato sanando espressamente anche gli effetti dagli stessi già esercitati, e ciò con provvedimenti d’urgenza quantomeno – questi – corretti (e costituzionali) nella forma. Il più  importante di questi provvedimenti (il decreto legge n. 18/’20) consta di 126 articoli, per oltre 500 commi, che a loro volta contengono 67 deroghe espresse a leggi di vario genere (le deroghe tacite, o espresse con diversa formula, non così esplicita, non si contano). È un provvedimento che contiene norme di ogni tipo, riguardanti ogni settore (finanziamenti, assunzioni di un migliaio di persone circa, norme di regolamentazione). Le persone che verranno assunte saranno scelte “utilizzando graduatorie proprie o approvate da altre amministrazioni per concorsi pubblici”. I trattenimenti in servizio ed i reclutamenti “temporanei” (che poi “temporanei” non sono mai: l’esperienza insegna che una volta messo piede in un’amministrazione pubblica non se ne esce che con la pensione o la morte) non si contano. Altrettanto, il provvedimento reca inedite forme di requisizioni in uso, o in proprietà, di beni sia mobili che immobili, di proprietà sia pubblica che privata. L’esecutorietà di queste requisizioni forzate non può essere sospesa – addirittura –  neppure in sede giurisdizionale.

Attenzione, a questo punto, a non lasciarsi distrarre dalla considerazione di fondo che deve fare da guida al nostro pensiero conclusivo.  A parte infatti l’osservazione preliminare che se per fare un provvedimento ben fatto e farlo celermente ci vogliono decine e decine di deroghe, evidentemente qualcosa (indotto dalla burocrazia) non va, a parte questo – dicevo – è un fatto che siamo in presenza nel decreto legge, perlomeno per la gran parte, di disposizioni in sé condivisibili, ad una ad una considerate. Ma la concentrazione di potere nelle mani dell’attuale Governo è enorme, credo non abbia precedenti nel ‘900 se non nell’epoca fascista. Sono misure molte delle quali (abbiamo fatto l’esempio delle assunzioni temporanee)  destinate a protrarsi anche finita l’emergenza. Molte sono destinate – per volontà determinata o, comunque, di fatto – a creare, o a consolidare, centri di potere destinati anch’essi a durare ben oltre l’emergenza.

Se consideriamo che molte disposizioni sono state assunte a Camere chiuse e che saranno sottoposte ad un controllo parlamentare che (sulla base dei soliti, convenienti pregiudizi, per cui non è patriota chi – in certi momenti – disturba il manovratore) sarà più che altro formale, e comunque affrettato, se consideriamo – dunque – tutto questo, ce n’è a sufficienza per dire che occorre alzare la guardia. L’autoritarismo non è sempre evidente, e tantomeno proclamato. A volte, neanche espressamente voluto. Lo si costruisce pezzo per pezzo, perlopiù, anche per il tramite di strumenti varati democraticamente o correttamente parlamentari. L’iperstatalismo  (verso il quale fatalmente si vorrà andare dopo la pandemia, se non vi sarà il dovuto, attento controllo da parte dell’opinione pubblica) è uno dei mezzi più potenti per il controllo dell’elettorato. Così – se non s’imparerà nulla dalla pandemia – quel pachiderma che è lo Stato ingrasserà ancor più, diventerà ancor più opprimente e più invasivo. Lo diventerà anche se proprio la pandemia sta vieppiù dimostrando che troppe risorse sono andate spese per mantenere l’apparato pubblico in genere (Stato, Regioni, Comuni, Enti vari), per poi non averne più alla bisogna, proprio in una situazione come quella in cui ci troviamo.

Conversando con un amico al telefono sui troppi anziani deceduti a causa del virus Covid-19, mi faceva notare il particolare che queste persone dopo aver lavorato una vita, versando contributi, tasse a questo Stato, nel momento del bisogno, lo Stato li ha lasciati soli, “in mezzo a una strada”, non li ha aiutati, senza assistenza, molti di loro lasciandoli morire in casa, perchè per loro non c'era posto negli ospedali.

Ecco su questa inadempienza non si è riflettuto abbastanza. Certo non è mia intenzione colpevolizzare i medici o il personale degli Ospedali, in particolare quelli della Lombardia, tra l'altro i più funzionanti in Italia.

Della questione anziani c'è un appello del presidente della Società Italiana di Geriatria e Gerontologia (Sigg), Raffaele Antonelli Incalzi, intervistato da Antonio Zambrano dalla Nuova Bussola Quotidiana, dice, «Non lasciate gli anziani al loro destino, il Covid non è la rupe tarpea del darwinismo sociale: il rischio di una deriva eutanasica non è da escludere». Il presidente della Società di Geriatria parlando delle vittime più fragili della pandemia e rivela: «La nostra risposta alle superficiali linee guida dei Rianimatori è stata silenziata dai media, che hanno fatto passare quello dell'età come criterio unico per non attivare la ventilazione. La valutazione deve essere multidimensionale: l'anziano può reagire meglio di un adulto a cui l'intubazione può risultare insufficiente».

Sono state dette e scritte, «Tante belle parole sui nostri “Anchise” da accompagnare, ma nella pratica il rischio che vengano abbandonati senza cure è concreto». (Intervista di A. Zambrano, L'allarme dei geriatri: «No a derive eutanasiche su anziani», 1.4.2020, LaNuovaBQ.it).

C'è un interessante riflessione di Gennaro Malgieri, ex direttore de “Il Secolo d'Italia”, pubblicata dal sito dove collaboro, Destra.it. L'intervento è abbastanza lungo, ma provo a proporre alcuni straordinari passaggi alla vostra attenzione.

«Il coronavirus s’è portato via la nostra memoria. Svanita buona parte di essa con i vecchi e gli anziani che soli se ne sono andati, privi del conforto dei loro cari e di un addio religioso [...]Erano il sale di questa terra per chi sapeva vivere la loro presenza come una ricchezza. Purtroppo, molti hanno chiuso gli occhi attaccati ad un ventilatore, attraverso uno strano tubo, semi-incoscienti, senza poter dire nemmeno una parola». (Gennaro Malgieri,  Omaggio agli anziani d’Italia. Pietre del passato, colonne della memoria, 3.4.2020, in destra.it)

Tra i più fortunati hanno avuto la benedizione cristiana, altri neanche quella. Ci hanno mostrato solo le bare. «E lì dentro non c’erano corpi che in poco tempo si sarebbero disfatti, corpi privati dal dolore, corpi inutili che erano d’ostacolo a coloro che bramavano il loro letto per potersi curare».

Continuando nella riflessione Malgieri, evidenzia un certo disprezzo della memoria.

E' qualcosa che non si può perdonare per il giornalista, «Sì, è vero il cinismo che accompagna le nostre vite ha fatto dei vecchi un “problema”, tranne che per quella pensione che è d’aiuto alle loro famiglie e che spesso neppure si accorgono di averla ricevuta [...]Adesso, molti di loro hanno finito di essere pesi ingestibili, peccato che si siano portati via quella piccola somma che neppure vedevano dopo una vita di lavoro e spesso di stenti». Ora che se ne sono andati questi anziani, nessuno «potrà più recriminare sui troppi assegni previdenziali che secondo qualcuno mettevano in ginocchio il nostro sistema pensionistico. Hanno tolto il disturbo molti degli “inutili” percettori di risorse, ma per la legge del contrappasso anche i giovani nipoti hanno perso più di qualcosa: dalla ricarica del telefonino alla sopportazione di incomprensibili racconti che per chi sapeva ascoltarli erano brandelli di umanità».

Malgieri li definisce gli anziani: “Pietre del passato”. Ci viene detto che con loro, non si costruisce nulla: chissà se la pensavano così gli agonizzanti da coronavirus. Oggi, «I materiali che si preferisce impiegare sono altri: meno resistenti, più economici, maggiormente malleabili. Destinati a un deperimento precoce, tanto per non avere l’incombenza della custodia, del restauro, della manutenzione».

 «Uccidere la memoria equivale a svaligiare il futuro».

E qui Malgieri sottolinea l'importanza della memoria, citando S. Agostino e S. Tommaso e Bergson. La memoria è qualcosa di dinamico, che ci fa comprendere  il presente e il futuro. «La decadenza nella quale siamo immersi è tributaria anche del tramonto della memoria come elemento distintivo di comunità caratterizzate dall’assenza del ricordo del loro cammino perché scientificamente cancellato da chi aveva immaginato il “nuovo inizio” della storia dalla proclamazione della morte di Dio».

Per Malgieri oggi siamo diventati un popolo di immemori. Abbiamo perso la memoria, quando abbiamo cominciato a perdere il sacro, il Principio.

Stiamo vivendo per Malgieri, nella cultura dell'evanescenza, che prepara il nichilismo, che approda al nulla, devastando la memoria, fino a negarla. «Privi di memoria non dobbiamo fare i conti con noi stessi. Perché non dobbiamo tramandare nulla. E, dunque, siamo esentati dal coltivare obblighi con il passato [...] La condanna della memoria, sopraffatta dalla dimenticanza, lascia sul campo macerie di ogni tipo».

Conclude l'intervento ricordando che la negazione della memoria avviene sia oltraggiando i vecchi che con «l’assassinio indecente dell’anima dei popoli, come l’aborto è il più vile degli omicidi. Per Malgieri, «In entrambi i casi si celebra il trionfo dell’oblio, la fine della storia». Pertanto, Disonorare i vecchi è come restare indifferenti davanti a chi si affaccia alla vita. Avrebbero bisogno di un sorriso, di una stretta di mano, di una parola e magari di un segno di religiosa pietà. Di questi tempi sono doni preziosi e impossibili. Se ne sono andati i vecchi senza nome; diventanti numeri da elaborare e confrontare nelle sofisticate statistiche. E con loro siamo diventati tutti più poveri di memoria, testimoni perfino indifferenti di una tragedia moderna che nessuno avrà voglia di raccontare neppure quando sulle loro sperdute tombe apparirà un fiore, una candela».

 

 

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