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Lunedì, 13 Maggio 2024

A settembre del 2019, mentre si consumava la nuova alleanza giallorossa tra piddini e pentastellati, cementata dal morboso affetto della poltrona e dall'odio implacabile comune contro Matteo Salvini, per descrivere questo insolito connubio trasformistico facevo riferimento alla Storia italiana, che è da sempre maestra di vita. Ricordavo il padre del trasformismo, il Principe di Niccolò Machiavelli.

Nelle regole del Principe, ce ne sono alcune che hanno una straordinaria attualità: «non può né deve rispettare la parola data, se tale rispetto lo danneggia». Il moderno principe per raggiungere gli scopi ha tutto il diritto di ingannare, avvelenare, congiurare, sterminare popoli. Pertanto per Machiavelli, la più importante virtù di un principe è l'astuzia, accompagnata dall'ambizione, dalla mancanza di scrupoli, dalla determinazione. Tutte regole che in questi momenti possono essere tranquillamente accomunati all'armata brancaleone che dovrà nascere dalla cosiddetta maggioranza parlamentare.

Si ripropone per la terza volta la più grande e plateale operazione trasformistica della politica italiana dopo il secondo dopoguerra, ancora una volta con l'avvallo del presidente della Repubblica.

Di fronte allo squallido scenario politico a cui stiamo assistendo, meraviglia che non si registra nessuna reazione popolare, forse la pandemia ha anestetizzato gli italiani. Oppure ha ragione Luca Ricolfi che sostiene che nonostante tutto gli italiani stanno bene, come ha scritto nel suo“La società signorile di massa”. Tranne le minoranze di professionisti che stancamente aspettano i cosiddetti ristori, ad oggi nessuno scende per strada per opporsi a questa sarabanda politica.

Stiamo assistendo «all’agonia oscena di un sistema e di una classe politica che non hanno più nulla da dire, capaci di esprimere idee e energie solo per sopravvivere disperatamente. Il“mandato esplorativo” a Fico è l’ennesima offesa all’intelligenza del popolo italiano. Cosa mai avrà da esplorare il Presidente della Camera? Questi signori si vedono di continuo, si parlano  di continuo, soprattutto siedono insieme alla stessa tavola molto bene imbandita. Cosa potrà mai scoprire di eccezionale Fico? Cosa sarà mai sfuggito a Mattarella, del quale in queste occasioni una prassi da film comico scadente vuole che si lodi la “saggezza”?» (Paolo Deotto, La danza macabra, 31.1.21, Ilnuovoarengario.it)

Per qualcuno sembra un vero e proprio e inutile “balletto”, per guadagnare tempo. Anzi sembra una danza macabra. Per qualcuno sembra anche “Gioco dell’Oca” della politica italiana siamo di nuovo al Via, con le stesse forze in campo, con gli stessi veti incrociati, con le ambiguità di un insieme di forze politiche il cui impegno principale sembra essere quello di conservare a tutti i costi le rispettive rendite di posizione, ben lontane dalle esigenze del Paese Reale. «Questa gentaglia è già morta. Il popolo italiano ha il diritto di seppellirla», scrive Deotto.

Tuttavia, «Che cosa altro deve succedere in Italia perché cambi il sistema politico, perché cambino le regole che ci governano?». Si domanda Silvano Moffa su Destra.it «Domanda ancor più urgente dopo lo spettacolo esibito in Parlamento nel pieno della crisi-non crisi di un Governo affidato alla guida di un illustre sconosciuto venuto dal nulla, la cui storia politica passerà ai posteri come iperbole assoluta di camaleontismo, spregiudicata versione di un trasformismo che va oltre la sua stessa natura». (Silvano Moffa, Il giorno del camaleonte. Versipelle e sfrontato, 1.2.21, Destra.it)

Certo la crisi della politica italiana non comincia oggi, esiste da decenni, per il giornalista si tratta di una crisi di rappresentanza. «Parlamentari nominati e non eletti. In gran parte sconosciuti ai più. Scelti dai leader e dalla cerchia di ristrette oligarchie che hanno in mano le redini dei partiti; partiti soppiantati nel ruolo e nella funzione. Per non parlare degli analfabeti della politica, e non solo della politica, promossi ai seggi di Camera e Senato con un clic sulla tastiera di un computer: espressione devastante di una pseudo-democrazia elettronica che è tutt’altra cosa rispetto alla democrazia partecipativa».

E non basta l'operazione propagandistica di ridurre il numero dei parlamentari per risolvere i problemi di democrazia del Paese. Al momento sembra una presa del potere dei “mediocri”. Per Moffa, c'è bisogno di Regole, « per evitare che in Parlamento e al Governo vadano illustri sconosciuti, gente “senza né arte né parte”. Regole per far sì che, una volta eletto, ogni esecutivo sia in grado di governare e non venga abbattuto al primo stormir di fronda. Regole che consentano alla gente di scegliere i propri rappresentati, conoscendone nome, virtù e difetti, e impediscano ai leader di costruirsi ognuno il proprio harem di “signorsì”, legandoli al ricatto della rielezione».

Una riflessione a parte su questa crisi, la meriterebbe il movimento dei 5Stelle. Una impietosa descrizione dei fallimenti del movimento grillino l'ha fatta, su Destra.it, l'ex direttore de Il Secolo D'Italia, Gennaro Malgieri.

I grillini ormai sono diventati negli ultimi tre anni dei post-grillini. «si sono accomodati nella famosa scatoletta di tonno, vale a dire la “casa della Casta”, che avrebbero voluto smontare pezzo per pezzo, trovandocisi comodi abbastanza per abbandonare l’insano e velleitario proposito, si sono smarriti nei meandri del politicismo. In altre parole, hanno assunto le fattezze peggiori di un partito normale, dal correntismo esasperato alla pratica “poltronista” di pura matrice partitocratica». Ma sui grillini mi riservo di ritornare presto.

 

Per una volta il comunicatore non ha voglia di comunicare. Niente interviste, poche parole concesse, anche quando ripete «io non mollo».Matteo Renzi avrebbe chiesto la sua testa, come una delle condizioni per sedersi a un tavolo e trattare. Ma lui non si arrende: «Io non mollo manco morto. Certo non mi dimetto perché lo chiede Renzi».

Eppure, rivela sempre il Corriere,scrive il Secolo d italia “c’è stato un tempo in cui Renzi e Casalino erano quasi amici e avevano preso a chattare via WhatsApp. Conte era da poco a Palazzo Chigi con la Lega e l'ex sindaco di Firenze, forse colpito dal talento comunicativo del portavoce, gli scrisse per complimentarsi. Ne nacque una confidenza, persino una simpatia reciproca. Finché il capo dell’ufficio stampa della presidenza del Consiglio scrive qualcosa che fa saltare i nervi a Renzi, il quale blocca il contatto e non si fa più vivo. Lì finisce il feeling e comincia la guerra, spesso giocata con le armi dei social  

Ma lui – scrive il Corriere – non si arrende: «Io non mollo manco morto. Certo non mi dimetto perché lo chiede Renzi». Finché il giurista pugliese sarà a Palazzo Chigi, ci sarà anche lui. Perché i 5 Stelle lo hanno blindato sin dal primo giorno, quando lo imposero come tutor e vigilante del professore arrivato dal nulla. E perché lui è sicuro che, se miracolosamente Conte dovesse mai tornare premier, il rapporto di stima e reciproca fiducia che ha costruito non potrà spezzarsi per le pressioni dei partiti. A turno Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, il Partito democratico e Italia viva hanno chiesto il suo licenziamento, ma lui si è sempre fatto una risata: «Chi pensa di imporre al presidente del Consiglio i suoi collaboratori personali non sa di cosa parla e forse ha visto troppi film. Conte non ha mai pensato di cacciarmi e anche oggi è una fake news»”.  

Secondo il quotidiano il giornale, a visibilità è da sempre la sua ossessione. La partecipazione al primo Grande Fratello gliene regala parecchia, ma è un’ubriacatura passeggera. Spente le luci della casa e finite le azzuffate televisive, il mondo dello spettacolo sembra voltargli le spalle. Ci riprova diventando giornalista, senza riuscire però ad emergere dal circuito delle emittenti locali.

Allora sottolinea il giornale si butta sul carro del grillismo e prova ad entrare in politica dalla porta principale, ma gli va male. La base boicotta la sua candidatura alle regionali lombarde del 2013 e lui è costretto a fare un passo indietro. Beppe Grillo però lo prende in simpatia e gli spalanca le porte del Palazzo. Inizia come responsabile della comunicazione del gruppo parlamentare al Senato e alla legislatura successiva migra a Palazzo Chigi.

Croce e delizia dell’avvocato del popolo, scrive il giornale, Rocco è il deus ex machina del "fenomeno Conte" ma anche uno dei suoi principali guai. Sì perché tanto di questa crisi è dovuto a lui. Ai suoi continui sconfinamenti, alla sua smania di apparire, alle gaffe, alla spettacolarizzazione con cui ha curato la comunicazione del premier.

Intanto Matteo Renzi scrive il giornale, il giorno in cui ha ritirato la sua delegazione: "Capisco che nella cultura del Grande Fratello è difficile da accettare, ma i testi di legge non sono post, i decreti non sono tweet, una riforma non è una storia su Instagram". Concetto ribadito anche ieri dopo il colloquio con Mattarella ("Questa non è una saga, non è una fiction, non siamo al Grande Fratello").

In primo luogo, secondo Andrea Muratore, Conte ha pagato la sua presunzione di intoccabilità. La pandemia ne ha esaltato la centralità, la fabbrica del consenso mediatica e social guidata da Rocco Casalino ne ha valorizzato più volte la presenza scenica, specie in occasione delle fasi più critiche dell'emergenza e dell’emanazione dei nuovi Dpcm, facendo passare agli occhi dell'opinione pubblica l'impressione che Conte fosse lo statista imprescindibile per la salvezza del Paese. Il premier si è dimenticato che a una crescente centralità nell’esecutivo corrispondono oneri legati all'amministrazione del Paese. E quando i nodi sulla gestione della pandemia e sulla crisi economica sono venuti al pettine, le responsabilità del premier nell’insufficiente programmazione della risposta alla seconda ondata e delle politiche anti-recessione sono emerse in tutte la loro nitidezza.

Per circa un anno e mezzo, secondo "insideover"durante il suo primo governo, Conte ha costruito una fitta rete di alleanze e amicizie con i grandi della Terra: da Angela Merkel a Donald Trump, da Vladimir Putin a Papa Francesco. Specie sull'asse euro-atlantico Conte ha voluto pensarsi come uomo decisivo e pontiere dei rapporti internazionali dell'Italia. Il sostegno di Donald Trump e dell'Unione Europea al suo re-incarico nell’agosto 2019 dopo l'uscita della Lega dal governo lo aveva rinfrancato in questa sua assunzione. Che scontava una concezione personalistica dei rapporti internazionali: e così, mese dopo mese, quando in Europa i risultati non sono arrivati e sul fronte dei rapporti con gli Usa le mine (Cina, Venezuela, Iran) hanno iniziato a essere sempre più numerose l'appannamento della stella di Conte si è fatto sempre più palese.

Scrive Andrea Muratore  al inside Over, Conte non ha mai fatto mistero di questa sua percezione, parlando apertamente dell’aumento del prestigio dell’Italia agli occhi dell’Europa e del mondo. Mese dopo mese, però, le sue aspettative sono sempre di più state deluse mano a mano che i referenti internazionali dell’Italia tornavano ai loro tradizionali interlocutori: Usa ed Ue, ad esempio, hanno nel Partito Democratico, in seno alla maggioranza, solidi ancoraggi. E mano a mano che Conte vedeva la sua azione di governo perdere efficacia, anche l’idea di essere il faro dell’Italia di fronte al mondo si avviava a un inesorabile declino. Le critiche Ue al Recovery Fund italiano e l’avvicendamento alla Casa Bianca tra Trump e Joe Biden hanno fatto il resto: per Conte è sempre stato più difficile rivendicare il suo prestigio internazionale come fattore di condizionamento della politica interna.

Secondo errore, continua Andrea Muratore  al inside Over Conte ha pagato lo sgraziato protagonismo con cui ha voluto personalizzare la gestione di dossier cruciali per il sistema-Paese. Trovandosi nella delicata situazione di essere una figura depositaria di un forte consenso personale ma priva di un partito alle sue spalle Conte ha provato a saldare il suo consenso nelle burocrazie strategiche, prima fra tutti quella dell’intelligence che ha presidiato con suoi fedelissimi fino al punto da portare la maggioranza giallorossa alla rivolta esplicita contro il suo rifiuto a cedere le deleghe per il coordinamento dei servizi. Renzi ha tacciato Conte di “analfabetismo istituzionale” per questa scelta, su cui poi Conte è ritornato nominando, pochi giorni prima delle dimissioni, l’ambasciatore Piero Benassi come autorità delegata per la sicurezza della Repubblica.

Il terzo errore è, sottolinea Andrea Muratore al tempo stesso, un errore di Conte e dei partiti maggiori che ne sostengono il governo, Pd e Movimento Cinque Stelle. Da un lato contenti di trovare in una figura “terza” un punto di sintesi di una complessa alleanza e di evitare a un proprio uomo le responsabilità dell’amministrazione nell’ora più buia della storia recente del Paese, ma dall'altro privi della necessaria forza politica per dettare tempi e ritmi all'agenda politica. E di conseguenza costretti a focalizzarsi sull’operato personale dei singoli ministri o a seguire i condizionamenti legati ai ritmi dettati al governo dal presidente del Consiglio. Che a lungo è riuscito a tenere assieme l'impossibile, facendo passare agli occhi dei pentastellati il via libera alla riforma del Mes, difendendo davanti a Italia Viva politiche come il reddito di cittadinanza e facendo digerire ai dem il giacobinismo giustizialista incarnato dal ministro della Giustizia pentastellato Alfonso Bonafede. Rifiutare l'idea di mettere a terra un'agenda di lungo periodo è stato un errore di Conte e dei partiti che M5S e Pd hanno pagato duramente quando Italia Viva, piccola e agguerrita scheggia impazzita, ha iniziato a pungolare sui ritardi dell’esecutivo.

fonti il giornale / inside over /secolo d'Italia

 

 

Com'era prevedibile il 100° anniversario della nascita del Pci (21 gennaio 1921) in quel di Livorno ha scatenato i più svariati commenti su tutti i giornali. Tuttavia si tratta di un anniversario su cui riflettere, senza complessi d’inferiorità, scrive Vincenzo Pitotti su alleanzacattolica.org.

In questi mesi per ricordare questo evento sono stati pubblicati libri, articoli e saggi, nonché documentari televisivi, il tutto con un'unica caratteristica: un giudizio positivo con toni retorici di quell'evento.

«Ma al di là della retorica e dell’enfasi con la quale ancora oggi si riparla di quegli eventi, occorre spiegare ai giovani, che probabilmente ignorano questa storia, che su di essa c’è molto da capire e nulla da festeggiare, perché fin dai suoi primordi il Partito Comunista Italiano si legò a doppio filo con il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, di quello che fu l’impero socialcomunista, il più grande impero ideocratico della storia, durato oltre settant’anni». (Vincenzo Pitotti, I cento anni del Partito comunista italiano, 24.1.21, alleanzacattolica.org).

Comunque sia studiare la storia del Pci, la sua teoria dell'azione, il suo modello operativo per conquistare il potere e per fare la Rivoluzione in Italia, non è un futile esercizio di tipo archeologico. Anche se il comunismo è morto, il PCI non esiste più, esistono i suoi eredi, lo studio del fenomeno Pci è sempre utile. Studiare il passato non è mai inutile, anche perchè come diceva il fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni, tra l'altro anche riferendosi al comunismo italiano, “Chi sbaglia Storia, sbaglia politica”.

Certo gli “eredi” del Pci hanno rinunciato molto alla dottrina, ma non al relativismo ed alle sue conseguenze operative. Anni fa avevo raccolto uno studio sulla“strategia gramsciana e la via italiana al comunismo”. Per questa ricostruzione sintetica mi avvalevo soprattutto di materiale fornito dagli stessi esponenti comunisti. In quel frangente il mio scopo era anche soprattutto di sfatare un luogo comune diffuso e tuttora condiviso, quello della «serietà» del PCI e quindi dei suoi «eredi», che determina complessi di inferiorità negli avversari, e troppo spesso ne condiziona, se non ne paralizza, l’azione.

Il mito della «serietà» del PCI.

«Serio» diventa sinonimo di «buono», «rispettabile», «affidabile»: «si può dissentire su qualche punto, anche su molti punti, ma non v’è nulla da temere realmente, il PCI (e poi il PDS, DS e ora Pd) è “serio” e quindi non deve far paura, anzi ha fatto tanto bene all’Italia». Questo il luogo comune corrente, anche in ambienti anticomunisti.

Vediamo se è vero. Seppure si può convenire sulla «serietà» del PCI , non si può non notare che anche la mafia, per esempio, è da considerare «seria», molto seria.

Non sto paragonando il PCI alla mafia, per il semplice motivo che il PCI è molto peggio della mafia. Questa, infatti, ha una vocazione territoriale limitata – o almeno fino a poco tempo fa così era – e limitati sono anche i suoi scopi. Essa si propone di prelevare forzosamente soltanto una parte dei beni prodotti nel territorio che controlla o che cerca di controllare. Il suo fine di potere e arricchimento per quanto odioso è limitato: non vuole tutto, né delle ricchezze (cioè dei beni materiali), né delle coscienze (cioè dei beni morali). Pretende «solo» omertà e soggezione rispetto ai propri affari, ma non di trasformare la mentalità ed il modo stesso dell’esistenza di tutta la comunità nazionale, anzi di tutto il mondo, mediante l’espropriazione e la gestione centralistica di tutti i beni materiali per meglio controllare le coscienze.

Il comunismo, e quindi il PCI come componente del movimento comunista internazionale, con «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo», come affermavano Marx , Engels e Fuerbach.

Una trasformazione che consiste, sosteneva Feliks Edmundovic Dzerzinskij (1877-1926), primo capo e organizzatore della CEKA (Crezvycajnaja Kommissija po bor’be s kontrrevoljuciej i sabotazem, («Commissione Straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio») nel «mutare la correlazione di forze politiche mediante il soggiogamento o lo sterminio di alcune classi della società», e quindi, ultimamente, in un rifiuto della natura umana ed in un tentativo, espressione di una smisurata volontà di potenza, di modificarla radicalmente, in vista dell’uomo nuovo, «superuomo» che non abbia più bisogno di Dio, della patria, della famiglia, della proprietà.

Con l’Ottobre rosso, «l’uomo si era levato, per la prima volta nella storia, non contro le circostanze sociali, ma contro se stesso, contro la propria natura», affermava Vladmir Maksimov.

Il PCI, che ha sempre presentato il regime nato dalla Rivoluzione Bolscevica come il laboratorio di un mondo nuovo e migliore e come luogo iniziale di esso, non ha mai dato alla sua azione politica una prospettiva minore.

Infatti, l’URSS staliniana è stata proposta come autentica metafora del paradiso in terra: «La parola “Stalin” e, l’altra, “URSS” – che ne definiva le realizzazioni storiche (la vittoria sul nazifascismo, l’edificazione in concreto del migliore dei mondi possibili) – ben al di là della bonaria immaginazione di un grand’uomo del popolo con i baffi alla quale si riferivano, valevano come una metafora laica del paradiso cattolico: esprimevano unitariamente l’ideale di una felicità assoluta, sintesi di moralità e benessere, in alternativa alle promesse inquietanti e corruttrici del capitalismo americanista». (Giuseppe Carlo Marino, Autoritratto del PCI staliniano.1946-1953, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 12.)

Pertanto verifichiamo se davvero «serio» equivale, con riferimento al PCI, a «buono», «affidabile», «rispettabile». Dunque, come la mafia, e più della mafia, il PCI mette la «serietà» al servizio di scopi e propositi da temere e contrastare tanto di più, quanto più «seriamente» perseguiti.

Il mito del «Grande Partito Comunista» di Gramsci, Togliatti.

E Berlinguer (Enrico Berlinguer, 1922-1984) etc., va sfatato anche in riferimento alla sua «serietà», se con questo attributo gli si vuol riconoscere almeno una certa quale superiorità etica e politica. Eticamente superiori certo non possono essere considerati coloro che fin dall’inizio hanno falsificato la propria storia, facendola iniziare da Antonio Gramsci (1891-1937) e Palmiro Togliatti (1893-1964), cancellando con perfetta ed orwelliana costumanza «terzinternazionalista» il vero fondatore del PCd’I al tempo della scissione di Livorno, quell’Amedeo Bordiga (1889-1970) – che non trasformo certo qui in eroe –, caduto in disgrazia siccome ritenuto trotzchista (o qualificato trotzchista per farlo cadere in disgrazia) – come non trasformo in eroe Trockij (Lev Davydovic Bronstein, 1879-1940), il quale ha semplicemente subito il trattamento che avrebbe riservato agli altri se a prevalere nella lotta all’interno del partito fosse stato lui. Né eticamente superiori sono mai stati quei dirigenti che hanno prima isolato i Gramsci ed i Terracini (Umberto Elia Terracini, 1895-1983) in mano al nemico fascista (salvo poi «riabilitarli» secondo convenienza), e poi pronunciato il famoso appello ai «fratelli in camicia nera» («Per la salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano!»). Per chi è interessato, a questi fatti, può confrontare, Ruggiero Zangrandi (1915-1970), Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Garzanti, Milano 1971, pp. 90-91; M. Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, cit., pp. 44-45, 134; e Aldo Agosti (storico comunista), Palmiro Togliatti, UTET, Torino 1996, pp. 205-208, e pp. 210-212.

Mentre per quanto riguarda la «consegna del silenzio» riguardo Gramsci.. all’epoca della proclamazione dell’ Impero sui colli fatali di Roma, i comunisti, hanno ingoiato il «patto Molotov-Ribbentrop», dimenticando subito il loro antifascismo e la solidarietà internazionalistica con la Polonia aggredita. Per l'episodio faccio riferimento a Victor Zaslavsky, Il massacro di Katyn. Il crimine e la menzogna, Ideazione, Roma 1998, (pp. 8-11).

Altro episodio inquietante che ha visto protagonisti i comunisti è stato durante la guerra civile spagnola, qui hanno provveduto – e fra essi anche il «buono» Giuseppe Di Vittorio (1892-1957) – alla «liquidazione» di militanti ed organizzazioni di parte repubblicana che non fossero di stretta obbedienza comunista e «cominternista» (Cfr. Stéphane Courtois e Jean-Louis Panné, L’ombra dell’NKVD in Spagna, in AA.VV., Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano 1998, pp. 312-329 (313-317), e Gabriele Ranzato, La guerra di Spagna, Giunti, Firenze 1995, pp. 61-65 e p. 106). Poi eventualmente hanno provveduto a combattere contro gli insorgenti «nazionali», guidati da Francisco Franco, in perfetto stile, non tanto stalinista, quanto leninista. La tecnica era sempre la stessa: primo: dominare il partito, fino al punto di costruirsene uno «proprio», di scissione in scissione, selezionando tra i militanti i seguaci più fedeli al capo ed alla sua linea; secondo: conquistare al partito la leadership assoluta sul movimento rivoluzionario.

Operazione è stata fatta nei confronti del Comitato Centrale del Partito polacco, come si evince in Stéphane Courtois e Jean-Louis Panné, Il Comintern in azione, in AA.VV., Il libro nero del comunismo, (pp. 255-311); (281-282). Ma soprattutto nei confronti degli esuli antifascisti e comunisti di ogni nazionalità, e quindi anche italiani, rifugiatisi nella «patria dei lavoratori», per questo confronta, Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Rizzoli, Milano 1984, p. 144; M. Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, cit., pp. 11-19; e A. Agosti, op. cit., (pp. 214-223).

Questi compagni, tra cui Togliatti, hanno ritenuto la morte nei campi di concentramento sovietici di migliaia di prigionieri italiani «espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia». Vedi, Palmiro Togliatti, lettera a Vincenzo Bianco del 15 febbraio 1943, cit. in Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, Bologna 1998,( p.165). Sempre gli stessi “seri” compagni, sono quelli che alla fine degli anni ’40 si sono opposti presso i sovietici al rimpatrio dei prigionieri superstiti.

La guerra civile, la cosiddetta "Resistenza".

Continuando con la stessa tecnica, gli stessi compagni "seri", hanno utilizzato la guerra civile in Italia tra il 1943 ed il 1945, detta «Resistenza», per crescere organizzativamente, eliminare possibili avversari, ed affermarsi come forza egemone. Infatti, «Togliatti confidò […] che il PCI era “chiamato a diventare il ‘commissario politico collettivo’ dell’Italia combattente per ripulire la resistenza dalle persone non fidate e puntare sull’insurrezione socialista” perché molti reparti erano “inquinati, con la gente arrivata lì per caso, militari fuggiti dal fronte ed elementi anarchici”». «Fin dall’inizio obiettivo prioritario era stato l’egemonia sul movimento partigiano per assumerne la guida politica». Su questo si può confrontare anche Renzo De Felice, Rosso e nero, Baldini & Castoldi, Milano 1995, (pp. 69-71)

Ancora che quando «non pochi elementi partigiani (…) diedero vita alla tragica catena delle uccisioni nei confronti di ex fascisti, (…) di avversari politici, possidenti e soprattutto preti», non hanno lesinato «appoggio e simpatia per questi (…) gruppi armati», fino a giustificarne pubblicamente l’operato, con riferimento al cosiddetto «Triangolo della morte», secondo lo stesso Togliatti : «Sarebbero zone dove, sì, sono morti parecchi traditori della patria e ben sono morti, pagando con la vita i loro delitti ed il loro tradimento».

Poi i nostri "seri" compagni agli inizi della «guerra fredda», hanno svolto con piena consapevolezza il ruolo di «quinta colonna» in Italia del potere sovietico. Infatti un altro «dei miti più persistenti (…) è stato quello che interpreta la storia del PCI come una costante evoluzione verso una sempre maggiore autonomia da Mosca (…). Tale approccio ha portato a sottovalutare la caratteristica fondamentale di questo partito, l’appartenenza dei suoi dirigenti ad una élite rivoluzionaria guidata dall’Unione Sovietica» (E. Aga Rossi e V. Zaslavsky, op. cit., p. 20), circostanza documentata dai resoconti, custoditi negli archivi di Stato e di partito a Mosca, delle centinaia di colloqui tra i dirigenti del PCI e l’ambasciatore dell’URSS a Roma, Mikhail A. Kostylev, dal quale gli italiani si recano quotidianamente «a rapporto» nella difficoltà di incontrare direttamente la leadership sovietica. «I dirigenti del PCI si sentivano in primo luogo e soprattutto rappresentanti degli interessi sovietici, anche quando rivestivano posizioni ufficiali nel governo italiano» (ibidem, p. 257).

Pertanto questi compagni “seri” compivano vere e proprie azioni di spionaggio. Addirittura, si può leggere, che, «durante gli anni della partecipazione delle sinistre al governo (…) il contenuto delle sedute (…), i problemi discussi e le decisioni prese erano spesso comunicati lo stesso giorno all’ambasciatore Kostylev da Togliatti o da altri rappresentanti comunisti del governo» (ibidem, p. 131). Non solo spionaggio, ma anche di tradimento della patria, cospirando affinché Trieste fosse lasciata a Tito (Josip Broz, 1892-1980), ovvero dando informazioni ai sovietici sulla forza militare e sull’ economia nazionali, nonché sui nostri rappresentanti diplomatici nell’URSS e nei suoi Stati satelliti, pure appartenenti ad un’alleanza politico-militare nemica.

Sempre questi compagni comunisti “seri” sono quelli  che hanno preso, fino alla implosione dell’URSS, e per il tramite di quell’organizzazione criminale che era il KGB, danari che possono essere definiti senza retorica lordi del sangue e segnati dalla fame delle popolazioni vittime del comunismo, come possiamo leggere in Vladimir Bukovskij, Gli archivi segreti di Mosca, Spirali, Milano 1999 e in F. Bigazzi e V. Stepankov, “Il Viaggio di Falcone a Mosca”, Mondadori, 2015.

Inoltre questi presunti compagni “seri” sono quelli che hanno assistito alla edificazione del Muro ed alla sua esistenza senza fiatare, o addirittura esaltandone la funzione, e continuando fino all’ultimo ad avere relazioni più che amichevoli con i suoi custodi e gestori (dalla presenza degli stand della DDR ai festival de l’Unità, agli scambi politico-commerciali), al contributo di Ehrich Honecker alla celebrazione del compagno Berlinguer in un volume a lui dedicato dopo la sua morte. (Erich Honecker, Un uomo di pace, così voglio ricordarlo, in AA.VV., Enrico Berlinguer, Edizioni l’Unità, Roma 1985, pp. 252-254.).

Potremmo continuare a scrivere sulla «serietà» morale dei comunisti italiani, si deve rilevare altresì come anche dal punto di vista più strettamente ideologico e politico, per dirla con Di Pietro, non ne abbiano azzeccata una, secondo le loro stesse ammissioni.  Ci avevano detto, infatti, che senza Dio e senza Chiesa l’umanità sarebbe stata libera e felice, ed ora che non possono dirlo più (semplicemente perché si è rivelato manifestamente falso), pur pensandolo ancora, da un lato cercano di strumentalizzare il Papa ed il suo magistero, dall’altro sperano di risolvere la questione trasformando la religione «religiosa» – cioè la religione che crede in Dio – in una religione umanitaria, salvo essere pronti a far scattare una bella persecuzione amministrativa e culturale, contro l’«illegalità» e l’«intolleranza», che caratterizzano l’attività e la predicazione delle chiese.

 

 

 

 

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