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Domenica, 12 Maggio 2024

Lando e Daniela

Alcuni giorni fa, in un tiepido pomeriggio di ottobre, abbiamo avuto il piacere di intervistare l’attore Lando Buzzanca, il quale ci ha messo da subito a nostro agio, accogliendoci con il più accattivante dei suoi proverbiali sorrisi e con un gran senso dell’ospitalità.

Dopo pochissimi minuti, abbiamo avuto la sensazione di conoscerlo da sempre, tale è stata la spontaneità e la trasparenza nel parlare anche di argomenti che noi, per delicatezza, forse non avremmo proposto. Le sue prime frasi sono state per sua moglie Lucia Peralta, venuta a mancare quattro anni fa e sempre così presente nei suoi pensieri.

Gli chiediamo come ricorda gli inizi della sua carriera, con tutte le inevitabili difficoltà alle quali ha dovuto far fronte e Lando, fra un momento di commozione e l’altro, sempre pudicamente celato, inizia il suo racconto partendo della sua numerosa famiglia, del suo impegnativo ruolo di figlio maggiore, nato a Palermo qualche anno prima dell’inizio della II Guerra mondiale. Quindi, un’infanzia vissuta in pieno conflitto e un’adolescenza trascorsa nella difficile fase di ricostruzione dell’Italia dalle macerie. Egli, già da ragazzino, aveva ben chiare le sue velleità artistiche, che esternava ai familiari, senza tuttavia ricevere alcun sostegno. Infatti, sua madre immaginava per lui la professione di medico, suo padre quella di avvocato, in una prospettiva totalmente opposta al suo desiderio di fare l’attore.

Quale fu il momento significativo in cui, per la prima volta, riuscisti a dichiarare questo tua aspirazione?

“Una domenica pomeriggio del 1953 mi trovavo con gli amici al cinema per vedere il film “Alle falde del Kilimangiaro” con Gregory Peck. All’epoca la proiezione del film avveniva in due tempi e alla fine del primo tempo, fra lo stupore della gente in sala, mi alzai in piedi gridando: ‘guardatemi bene adesso, che dopo dovrete pagare!!!’ Quella fu la prima esternazione pubblica del mio irrefrenabile desiderio di fare l’attore; era quella la mia strada!

Al compimento dei diciotto anni, ancora minorenne, poiché allora si era maggiorenne a ventuno anni, decisi di lasciare la mia famiglia per andare a Roma, nel tentativo di potermi affermare.”

Quale fu la reazione della tua famiglia dinanzi a questa tua decisione?

“ Inutili i tentativi di mio padre, che tento di dissuadermi minacciando di chiamare i carabinieri. Il giorno 31 ottobre 1953 scappai letteralmente da Palermo, dove frequentavo il V° anno del liceo scientifico, al quale sarebbe poi seguita l’università. Arrivai a Roma dove, per sbarcare il lunario, mi adoperai fra mille mestieri, anche umili, pur di non tornare in Sicilia. Finchè un giorno, nell’approssimarsi delle festività natalizie, ricevetti da mia madre una lettera con fermo-posta, (non avevo una residenza fissa), nella quale mi chiedeva di tornare a casa per trascorrere il Natale tutti insieme. Avvertii forte il desiderio di accontentarla ed una volta arrivato a Palermo mi presentarono una lontana cugina, una giovanissima ragazza, che mi colpì immediatamente per i suoi modi gentili e la sua acerba bellezza. La sera stessa la invitai a ballare e accompagnandola a casa, la baciai, quasi a voler suggellare l’inizio di un rapporto che sarebbe stato per la vita. Lucia aveva perduto suo padre in tenera età e fu adottata da suo zio, un famoso gioielliere palermitano. L’alchimia fra me e questa meravigliosa ragazza scattò immediatamente, tutto ci fu chiaro subito, eravamo fatti l’uno per l’altra. Poco dopo ci sposammo e nacque Mario, il nostro primogenito ed io, investito dalla grande responsabilità di una famiglia, tentai di andar oltre la mia passione per la recitazione. Ma un giorno ricevetti la lettera di convocazione per un provino presso l’ Accademia d’arte drammatica Pietro Sharoff, fondata a Roma nel 1946. E’stata la prima scuola privata di recitazione ad usare il famoso metodo Stanislavskji e conta, fra gli allievi più celebri, Carmelo Bene e Lina Wertmuller; oggi ne sono presidente onorario.”

Giorgio e Lando

Immaginiamo che l’arrivo di questa lettera ti fece mettere di nuovo tutto in discussione. Cosa accadde dopo?

“Ne parlai subito con mia moglie, una donna che dimostrò la sua intelligente e l’immenso amore che nutriva per me, permettendomi di partire per Roma. Io le promisi che sarei tornato da lei, ma l’Accademia ci avrebbe tenuti lontani per ben tre anni. Lucia, con gli occhi gonfi di lacrime mi rispose: ‘Ma tu tornerai?’ La guardai negli occhi e le risposi: ‘Se tu mi aspetti io tornerò!’ Dopo tre anni lunghi anni di distanza, mia moglie mi raggiunse e quando trovammo finalmente una sistemazione abitativa, arrivò a Roma anche nostro figlio. Gli inizi della mia carriera furono difficili, finchè nel 1961 venni notato dal grande regista Pietro Germi, che mi volle nel suo film “Divorzio all’italiana”, con Marcello Mastroianni e nel cast una giovanissima Stefania Sandrelli, che festeggiò i suoi quindici anni sul set. Il film ebbe un buon successo, fu presentato in concorso al Festival di Cannes, dove vinse il premio come miglior commedia. Quindi, anche se il mio era solo un piccolo ruolo, posso dire che fu determinante per la mia carriera. Infatti, poco dopo mi trovai accanto a Nino Manfredi come co-protagonista nel film “La Parmigiana”, diretto dal regista Antonio Pietrangeli, su sceneggiatura, fra gli altri di Ettore Scola. Sempre nel 1963 nacque il nostro secondo figlio Massimiliano, che ha deciso di seguire le orme paterne.”

I tuoi rapporti con i colleghi sono sempre stati esclusivamente professionali, oppure anche di amicizia?

“Ho sempre avuto rapporti cordiali con quasi tutti i colleghi ma ricordo la bella amicizia e la reciproca stima che nacquero fra me e Peter Sellers quando, nel 1966 girammo insieme il film: “Caccia alla volpe”, per la regia di Vittorio De Sica. Il mio ruolo era quello del Capitano Rizzuto, quindi ero la spalla del protagonista. Un giorno, durante le riprese Peter mi fermò e mi disse: ‘Sei molto bravo Lando, sono io la tua spalla!’ Trascorremmo parecchio tempo insieme nel corso delle riprese ad Ischia e fra noi rimase una sincera amicizia, interrotta dalla sua prematura scomparsa.”

Cosa puoi raccontarmi della sitcom musicale “Signore e signora”, firmata da una coppia vincente di autori: Antonio Amurri e Maurizio Jurgens?

“Alla fine del 1969 fui chiamato in Rai per un provino. Gli autori Amurri e Jungens avevano in mente di realizzare un programma musicale con un personaggio ‘jolly’, che fosse in grado di cantare, con attorno cinque attrici. Ma io risposi subito che non ero un cantante, bensì un attore. Quindi, chiesi loro di scrivere delle scene, affinchè questo programma potesse diventare una sorta di commedia musicale.

Dopo dieci giorni mi chiamarono in ufficio e trovai ad aspettarmi, seduta in poltrona in pelliccia di visone Delia Scala, che fu la mia partner femminile ed era, al contrario di me, molto nota al grande pubblico; aveva già fatto ‘Delia Scala Show’.”

Riuscisti, quindi, a trovare un punto d’incontro con gli autori?

“Si, mi spiegarono come avevano strutturato il programma, facendo anche tesoro delle mie indicazioni e mi sentii più sereno. Io amo mettermi in gioco, accetto le sfide solo dove ci sono in ballo cose che sento di poter fare. Nacque così ‘Signore e signora’, programma composto di monologhi, scenette comiche, musiche e balletti, che venne trasmesso ogni sabato sera dal gennaio 1970 per due mesi ed era centrato sulle vicende di una coppia di sposi e le varie fasi evolutive del loro rapporto, dal fidanzamento al matrimonio, fino alla nascita di un figlio e gli inevitabili conflitti di coppia, sempre superabili quando si parla di sentimenti autentici.”

Questo programma ti permise di uscire dal clichè che finora ti aveva in qualche modo limitato?

“Indubbiamente in questa occasione ebbi l’opportunità di mettere in mostra tutte le mie capacità comiche e si rivelò subito un importante trampolino per il cinema. Negli anni che seguirono feci moltissimi film, fra i quali “Il merlo maschio”, “Homo Eroticus”, “La schiava ce l’ho e tu no”,”Quando le donne avevano la coda” e tanti altri. In quegli anni, alla vigilia della contestazione femminile, che ha poi cambiato il ruolo della donna nella società, modificando anche il concetto di famiglia tradizionale, lavorai a ritmo frenetico, assecondando un genere di cinema che rappresentava una caricatura del maschio impenitente italiano, fino all’ esasperazione della figura maschile.”

Questo genere di commedia all’italiana verso la metà degli anni ’80 entrò in crisi e tu tornasti al vecchio amore, il teatro. Quali sono state le esperienze più significative di quegli anni ?

“In effetti, la cosiddetta ‘commedia erotica’, dopo anni di successi, entrò in crisi. Dobbiamo però riconoscere che questo genere ha segnato un’epoca importante nel cinema italiano. Qualche tempo fa, ho letto che il regista italo-americano Quentin Tarantino, dichiarando la sua passione per la commedia sexy italiana, aveva in mente di dirigere prima o poi un film di questo genere, per rendere il suo personalissimo tributo alla Commedia italiana anni ’70.

Nell’ambito teatrale, sicuramente il ‘Don Giovanni’ di Molière, del quale ho curato anche la regia, è stato un lavoro di grandi soddisfazioni. L’opera racconta le storie di un giovane senza regole, né religione il quale, pur di soddisfare il proprio egoismo, riesce ad andar contro la morale comune, trattando con spietato cinismo persino il dolore altrui. Le donne sono vittime della sua bellezza e del suo spirito d’avventura. Quindi, un personaggio assolutamente carente di capacità di discernimento fra il Bene ed il Male. Un lavoro teatrale molto impegnativo, ma di gran successo.”

Cosa mi racconti della tua esperienza nel film “I Viceré”, per la regia di Roberto Faenza?

“ ’I Viceré’, tratto dall’omonimo romanzo di Federico De Roberto, è nato nel 2007 come film drammatico. Dopo l’uscita nelle sale cinematografiche, è seguita nel 2008 una versione televisiva in due puntate. Con questa interpretazione ho avuto la nomination al David di Donatello nel 2008 e sempre nello stesso anno ho ricevuto il “Globo d’oro” come miglior attore. Quindi, anche in questo caso un’esperienza davvero interessante.”

Da qualche anno tutto il mondo artistico è afflitto da tagli lineari alla cultura, che hanno determinato la chiusura di importanti teatri e messo a rischio festival e rassegne, penalizzando oltremodo le future generazioni. Qual è la tua posizione a riguardo?

“Sono estremamente preoccupato. La cultura è un patrimonio per tutti noi, che andrebbe promosso e soprattutto salvaguardato. Gli orientamenti di questi ultimi anni mi sembra che remino esattamente nella direzione opposta.

Ne’Il Restauratore’ interpreti un personaggio intenso e sofferente. Una domanda classica: ‘Fai l’attore o ti senti attore?’

“Mi sento attore da una vita, questo mestiere l’ho scelto con tutte le mie forze, aiutato moralmente da mia moglie Lucia che, con la sua scomparsa, ha lasciato attorno a me un vuoto indescrivibile. A volte mi sono chiesto che senso avesse la mia vita senza di lei. Il successo che ho ottenuto è anche merito suo, poiché ha saputo starmi vicina agli inizi della mia carriera, seppur fra mille difficoltà. Da parte mia, ho fatto di tutto per renderla fiera della sua difficile decisione di restare al mio fianco. Spesso ricordo con tenerezza i primi anni del nostro matrimonio, quando di notte mi svegliavo e mi fermavo ad osservare, come in adorazione, il suo giovane volto sereno e disteso mentre dormiva. Mi mancano i nostri rituali, fatti di piccoli gesti simbolici, come il mio bacio prima di metterci a tavola. Mi manca tutto questo, ma vado avanti, esorcizzando il dolore proprio in un ruolo, quello del ‘Restauratore’, dove racconto come il dolore continuo possa trasformarsi persino in energia. Il dolore di un uomo ferito e derubato negli affetti, che vuole rappresentare al tempo stesso il dolore e la vergogna della vendetta. Siamo alla seconda serie, vedremo cosa ci riserverà il futuro. Qualche sera fa mi ha chiamato la mia grande amica Valeria Valeri, attrice di enorme spessore, la quale si è complimentata per il ruolo che interpreto ne “Il Restauratore” ma anche per il mio aspetto fisico. Mi ha detto con compiacimento: ‘Lando, sei ancora un bell’uomo’, e pensare che io per tutta la vita non sono stato mai convinto di ciò…”

 

Scale Model – La donna che uccise due volte - un noir dalle note drammatiche, ma anche dalla forte introspezione psicologica e dai dialoghi intensi - debutterà a Cosenza, presso il cinema Garden, venerdì 17 ottobre. Una data scelta con lo scopo di proiettare lo spettatore, sin da subito, in quella che sarà l’atmosfera della serata.

 

Questo il nuovo film prodotto interamente dalla casa cinematografica indipendente cosentina: Open Fields Productions, realtà 100 % calabrese.

Sceneggiatura, regia, fotografia, montaggio, produzione e post-produzione sono stati curati personalmente, e nei minimi dettagli, dai due registi, e fondatori della casa cinematografica, Fabrizio Nucci e Nicola Rovito, i quali hanno selezionato con estrema attenzione anche le locations, le colonne sonore, il cast, gli oggetti di scena e il team di lavoro.

I due giovani, dopo i successi ed i riconoscimenti ricevuti lo scorso anno con il lungometraggio Goodbye Mr. President, il corto Re di Roma e le realizzazioni per Lucky Red e The X Factor, hanno voluto mettere in campo e dimostrare la loro professionalità su tutti i fronti.

 

Un lavoro durato più di un anno - realizzato in co-produzione con Giuseppe Rovito & Anna Paola La Rosa - e una nuova scommessa, del tutto “Made in Calabria”, nel panorama della cinematografia indipendente.

Scale Model: venerdì 17 ottobre al cinema Garden

La colonna sonora e tutte le musiche sono state composte dai musicisti Mirko Onofrio, della celebre Brunori Sas e Red Basica, Stefano Amato, sempre della band Brunori Sas, e dal noto chitarrista Aldo D’orrico.

Suoni che si mescolano bene con la pellicola, alternando note dal ritmo chiaro e armonico, a suoni più “confusi” che interpretano e accompagnano i pensieri, le riflessioni e gli stati d’animo dei personaggi.

 

Tutti i brani scritti e incisi per Scale Model saranno raccolti in un cd, che verrà promosso dopo l’uscita del film.

 

Colonna sonora e musiche

“Abbiamo creduto fosse giunto il momento – dichiarano Fabrizio Nucci e Nicola Rovito – di spendere tutto il nostro tempo e le nostre energie nella realizzazione di un nuovo lungometraggio, un difficile e complesso progetto che siamo contenti di aver portato a termine e di poterlo, finalmente, mostrare al pubblico durante l’anteprima assoluta di Cosenza.

Inoltre, grazie a Scale Model - aggiungono i due - abbiamo voluto rendere omaggio alla nostra meravigliosa terra, mostrando, attraverso la fotografia, una Sila dai paesaggi mai visti prima, un territorio dalle straordinarie ed uniche caratteristiche, che sempre più conquista spessore a livello regionale e nazionale.

Di sicuro un ringraziamento speciale va a tutti coloro che ci hanno sostenuti sin da subito in questa avventura: il sito di crowdfunding Eppela, la Provincia di Cosenza, che ha patrocinato l’opera,  la BCC Mediocrati, il Ristorante Jimmy Valentine, l’Hotel Il Ruscello, l’Antica Pasticceria, Ezio Lauro.

Tutti hanno supportato economicamente e a livello istituzionale il progetto”.

Fabrizio Nucci e Nicola Rovito

 

Scale Model è ambientato, principalmente, tra le montagne del “Vergassano”, ovvero tra gli splendidi panorami della Lorica (Sila). Qui, nella primavera del 1998, in un tranquillo paesino di montagna, una coppia di anziani coniugi viene assassinata in modo efferato. Ancor più scioccante è il fatto che l’assassina, rea confessa, è la figlia ventiquattrenne Eva Molli.

Dopo aver scontato la pena, trascorrendo 16 lunghi anni in carcere, la donna, uscita di prigione, torna a vivere nella casa di famiglia, nel luogo dove si consumò il delitto.

Eva vorrebbe riprendere a vivere una vita normale, ma la diffidenza della gente è davvero forte e così le giornate trascorrono per lei in modo sempre uguale e in solitudine.

Nel frattempo Guido Fermi – noto presentatore della tv e promessa disattesa della psichiatria – viene incaricato di preparare una puntata del suo vecchio show televisivo “Psiche & Delitti”, trattando l’argomento della scarcerazione di Eva Molli.

Il presentatore accetta subito la proposta, sperando che questa sarà l’occasione per ridare smalto alla sua figura professionale, ormai in declino a causa di una pessima figura fatta anni prima in diretta.

 

Eva, avendo bisogno di soldi, accetta l’offerta, da parte di un editore, di riportare la sua storia in un libro, aiutata, nella stesura e nel far riemergere il passato, da un giovane biografo mandato dalla casa editrice stessa.

I ricordi della donna dovranno fare un balzo indietro di 16 anni e lei dovrà rivivere e svelare cosa accadde davvero quella terribile notte degli omicidi.

In contemporanea, Guido inizia le ricerche sulla “vicenda Molli” e su chi sia ora Eva, preparandosi, così, alla puntata della riscossa.

 

I due protagonisti, pur non essendosi mai incontrati prima, si ritroveranno a fare ognuno i conti con il proprio passato e scopriranno come, in realtà, le loro vite si siano vicendevolmente condizionate nel corso degli anni.

La trama

Emila Brandi è l’attrice scelta per vestire i panni di Eva Molli.

L’assassina è una donna dalla personalità ambigua, sempre in bilico tra realtà e finzione, tra verità e menzogna, pur riuscendo a vivere questo stato di cose in perfetto equilibrio e senza dare segni di disagio.

Un personaggio in cerca del proprio riconoscimento sociale.

Giovanni Turco interpreta, invece, Guido Fermi, un uomo ormai privo di molte opportunità. Psichiatra-criminologo, ma soprattutto conduttore televisivo che ha sacrificato e distrutto se stesso e la sua famiglia in nome di una notorietà “da piccolo schermo”. Una fama pagata a caro prezzo e dissoltasi negli anni.

La sua unica possibilità è la via del riscatto personale per riottenere la stima dei suoi cari.

I protagonisti

I biglietti per assistere alla prima assoluta sono già in vendita, on-line, sul sito www.scalemodel.it e in alcuni esercizi commerciali di Cosenza (l’elenco dei punti vendita è pubblicato sul sito).

Il costo del biglietto è di €10,00.

The Island, film americano del 2005 parla di clonazione. Facoltosi americani si fanno clonare per avere a disposizione pezzi di ricambio in caso di bisogno: reni, fegato, cuore, e quant’altro. Ma ad un certo punto qualche cosa va storto, i clonati iniziano ad avere una loro identità e due di loro si ribellano e scelgono la libertà. Il sistema crolla su sé stesso e il delirio di onnipotenza evapora. Fantascienza lontana, ma non sappiamo quanto. Huxley nel suo Mondo nuovo aveva anticipato tutto questo anche se la clonazione aveva scopi diversi, ancora, infatti, non si conosceva la possibilità di fare trapianti di organi.

La custode di mia sorella è un romanzo del 2004 (Corbaccio ed.) della scrittrice americana Jodi Picoult dal quale è stato tratto, nel 2009, l’omonimo film che ricalca la storia del romanzo, ma con un finale a sorpresa. Nel romanzo, e nel film, una bambina sviluppa una rara forma di leucemia e i genitori decidono di far nascere una sorella compatibile con quella malata per “usarla” come donatrice. La sorella nasce grazie alla fecondazione artificiale e viene selezionata con le caratteristiche genetiche giuste. Ma anche nel romanzo, come nel film The Island, qualche cosa va storto. Anna, la sorella donatrice, si ribella, è stanca di essere usata e quando si prospetta la necessità di un trapianto di rene fa causa ai suoi genitori.

In The Island l’amore trionfa, i cloni acquistano la libertà, per Anna il finale è diverso, ma la riflessione è la stessa: è lecito usare altri esseri umani per salvare la nostra vita o anche quella degli altri? Il fine giustifica sempre il mezzo? Tutto ciò che è possibile è anche lecito?

Marino opta per la linea dura contro gli orchestrali in agitazione. «Questo è l'unico percorso che può portare a una vera rinascita dell'Opera. Quindi il cda ha approvato esternalizzazione di orchestra e coro del Teatro dell'Opera votando la procedura di licenziamento collettivo»

«Dopo 134 anni di vita gloriosa oggi il consiglio di amministrazione presieduto dal sindaco Marino si è assunto la responsabilità di mettere una pietra tombale sul Teatro dell'Opera di Roma». Lo dichiara in una nota Gianni Alemanno, ex sindaco della capitale e attualmente consigliere di centrodestra. «Il licenziamento collettivo dell'orchestra e del coro dell'Opera sono un atto gravissimo che dimostra come le dimissioni del Maestro Muti rispondevano proprio a questa logica di ridimensionamento più ampia progettata dal sovrintendente Fuortes - prosegue - Per questo motivo ribadiamo la necessità di convocare un consiglio straordinario dedicato alla situazione del Teatro dell'Opera e soprattutto invitiamo il sindaco Marino a sciogliere questo Cda e a nominare un nuovo sovrintendente che abbia davvero a cuore il futuro dell'Opera di Roma».

«L'unica vera sofferenza, per utilizzare le parole del sindaco Marino, è vedere ancora Fuortes sulla poltrona da sovrintendente del Teatro dell'Opera». Lo dichiara il presidente della commissione Trasparenza di Roma Capitale Giovanni Quarzo (Fi). «Ci attendevamo un suo passo indietro dopo il fallimento della sua gestione, per poi lavorare per il rilancio del Teatro - prosegue - Purtroppo, a pagare le sue inefficienze sono i musicisti ai quali va la nostra totale e sincera solidarietà». «E tra l'altro ancora attendiamo gli atti relativi all'inchiesta interna, che gli abbiamo chiesto durante la Commissione trasparenza - aggiunge - Dati che, ovviamente, Fuortes ancora non ci ha fornito, anche se non potrà più scappare perché il 7 è fissata nuovamente una seduta della commissione».

Le dimissioni di Muti hanno avuto due effetti. I soci della fondazione (il ministro Franceschini, il governatore Zingaretti e il sindaco Marino) si sono compattati per risolvere l'ingovernabilità alla radice. Ma allo stesso tempo la fuga sdegnata del maestro ha prodotto un danno di immagine ed economico. A partire dal bilancio: quattro sponsor, con contratti da un milione di euro ciascuno, hanno deciso di non scommettere più sulla lirica della Capitale. E anche gli abbonamenti alla fine ne hanno risentito.

Sicché i soci, non potendo arrivare ad altri tagli, avevano davanti due strade: chiudere e liquidare o procedere con l'esternalizzazione di coro e orchestra per ripartire con un nuovo sprint.

Nessun sopruso, piuttosto un modello vincente già collaudato in realtà europee prestigiose: da Madrid a Berlino, fino a Londra e Parigi. Spiega infatti il ministro Franceschini: «I musicisti se vorranno, potranno, come avvenuto da altre parti, dare vita a un'orchestra nuova, basata su relazioni trasparenti, sulla qualità e sull'innesto di giovani talenti, che punti a ricostruire con il Teatro un nuovo e diverso rapporto». Da qui ai prossimi 75 giorni si attiveranno i tavoli sindacali in Regione e al ministero. Coristi e orchestrali continueranno a essere dipendenti fino alla fine del procedimento: anche le recite andranno in scena, l'unico dubbio è l'Aida orfana di Muti (il 27 novembre). Poi da gennaio si cambierà. Il modello Roma è destinato a fare scuola sui burrascosi palcoscenici italiani. E non solo.

La scelta è «dolorosa», come premettono tutti, dal ministro Dario Franceschini al sindaco Ignazio Marino. Ma allo stesso tempo, nella pratica, la svolta «è storica e benefica», e non solo per le fondazioni liriche. In generale, dal Teatro dell'Opera di Roma viene lanciato un bel sasso nello stagno del dibattito sul lavoro: d'ora in poi l'orchestra e il coro saranno esternalizzati, dunque per 184 dipendenti (su 460) si aprono le porte del licenziamento collettivo. Ma attenzione: da gennaio tutti gli artisti ritorneranno a lavorare, solo che dovranno essere riuniti sotto un nuovo soggetto giuridico. Un'associazione o una cooperativa che si accorderà con il Teatro per i contratti stagionali. In base a criteri legati all'efficienza, senza più accordi integrativi dalle indennità fantasiose (quelle per il frac o per le trasferte a Caracalla...) e dai privilegi un po' fuori mercato visti i tempi. «È l'unico modo per una vera e auspicata rinascita del Costanzi», dice il sindaco e presidente della fondazione lirica Ignazio Marino, protagonista di una scelta coraggiosa e senza precedenti. Al suo fianco il sovrintendente Carlo Fuortes, che ha proposto il piano della svolta al consiglio d'amministrazione. Passato con sei voti favorevoli e un astenuto. «È stato un trauma, ma è l'unico modo per dare una prospettiva a questo ente», dirà alla fine del board Simona Marchini dopo il proprio sì.

«L'atteggiamento tenuto nei mesi scorsi da parte della Cgil e dei sindacati autonomi, con gli scioperi in occasione della stagione estiva di Caracalla e la decisione di non firmare il piano di risanamento, ha danneggiato il teatro e ogni iniziativa sindacale intrapresa». Lo dice la Cisl per voce del segretario della Fistel Cisl di Roma e del Lazio, Paolo Terrinoni. Terrinoni definisce «un colpo mortale all'Opera, ma anche alla cultura a Roma e in Italia», la decisione del Cda «di avviare la procedura di licenziamento collettivo di 182 persone tra musicisti di orchestra, una decisione che come sindacato «critichiamo fortemente», ma stigmatizza anche «l'atteggiamento della Cgil e dei sindacati autonomi».

Dunque si cambia. E non poteva essere altrimenti. Il 2013 è stato puntellato da un crescendo rossiniano di guerre sindacali e scioperi estivi a Caracalla, tensioni e minacce culminato con l'addio a piazza Beniamino Gigli del maestro Riccardo Muti. Un pasticciaccio, dalla eco internazionale, che stava per vanificare l'anno di sacrifici imposti per ripianare un deficit da 12 milioni di euro e il lavorio messo in piedi per usufruire della Legge Bray (sono in arrivo 20 milioni). «Ecco perché - spiega Salvo Nastasi, direttore generale del Mibact per lo spettacolo dal vivo - avremo una doppia ripartenza per la rinascita: nessuno perderà il posto, lavoreranno tutti, ma lo Stato, principale finanziatore delle fondazioni liriche con 300 milioni all'anno, non si può permettere di buttare i soldi».

Riprende la fortunata iniziativa ideata dall’Università eCampus, che stavolta pone l’accento sul cinema indipendente italiano. Sei pellicole di altrettanti registi nostrani animeranno, come di consueto, la sede romana dell’ateneo in via del Tritone 169, a partire dal prossimo 22 settembre, ogni due lunedì del mese, fino al 15 dicembre, con un intermezzo, il 20 ottobre, dedicato alla memoria di Massimo Troisi vent’anni dopo la sua prematura scomparsa.

A “battezzare” il ciclo autunnale di proiezioni sarà l’opera prima di Michele Picchi, già aiuto regista di Ettore Scola e Giovanni Veronesi, “Diario di un maniaco perbene”, con Giorgio Pasotti, Ninni Bruschetta, Danila Stalteri, Valentina Beotti, Valeria Ghignone, Tatiana Lepore e Angela Antonini.

La trama ruota attorno all’artista quarantenne Lupo (Pasotti), il “maniaco” del titolo, inguaribile fallito chiamato, chissà perché, a risanare i fallimenti degli altri. Incapace di gestire il caos della propria esistenza, è invece bravissimo a mettere ordine nella vita di chi lo circonda, dispensando consigli che lui stesso non riesce a seguire. L’unica ricetta contro i fantasmi che lo affliggono è l’apparente pacatezza con cui affronta o almeno prova ad affrontare ogni situazione e il soffice disincanto che caratterizza la sua visione del mondo, cinica, aspra, ironica, in una parola maledettamente realistica. Tombeur de Femmes professionista, seriale e impenitente, innamorato cronico, aspirante suicida inabile al suicidio, Lupo è un voyeur, ma è un voyeur all’antica, un voyeur perbene che, rintanato nel porto sicuro del suo minuscolo spioncino, osserva distaccato la quotidianità che scorre ammantandola di mordace sarcasmo.

Di seduttori, veri o presunti, sul grande schermo se ne sono visti fin troppi: malati, ossessivi, frenetici, simpatici, bonari e perfino impotenti.  Da “The Libertine” Johnny Depp al magistrale John Malkovich de “Le relazioni pericolose”, dal “Bell’Antonio” di Mauro Bolognini all’”Uomo che amava le donne”, capolavoro di François Truffaut, passando per il recente “Gigolò per caso” firmato da John Turturro, la Settima Arte ci ha regalato, nel corso degli anni, un’interessantissima carrellata di personaggi che di universo femminile s’intendono eccome. Michele Picchi, tuttavia, fa molto di più, scrivendo un nuovo capitolo di questa straordinaria enciclopedia. Quella di Lupo è l’immagine specchiata dell’uomo moderno, schiacciato sotto il peso di una crisi che è personale ed endemica. La dirimpettaia impicciona, la nipotina, la ex insensibile, l’amico meccanico e tutte le “sue” donne, non sono allora che la cornice perfetta di un ritratto altrettanto perfetto.

Immerso in un pallido universo di mediocrità, il protagonista si difende dalle umane bassezze disprezzandole amabilmente, mostrandosi calmo e compiacente, un’arma sottile e affilata che gli consentirà alla fine di sciogliere il nodo dei suoi conflitti interiori.

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