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Sembra che la contestata visita a Napoli del segretario della Lega Matteo Salvini, ha risvegliato antichi rancori nei confronti del Nord invasore, in ricordo della conquista armata nel 1860 da parte degli eserciti savoiardi. Addirittura ne è nata un'alleanza insolita tra i centri sociali e “sudisti” vari che è sfociata in una manifestazione a Pontida per rispondere alla provocazione degli invasori leghisti.

Per quanto riguarda la Storia ben venga una seria e non sterile riflessione sui torti patiti dal popolo meridionale al momento dell'Unità. Invece per l'attualità politica, i napoletani dei centri sociali sbagliano completamente bersaglio quando attaccano Salvini. E' assurdo prendersela con l'unico politico che forse si sta occupando dei problemi del Sud. Semmai Salvini può essere annoverato tra quei briganti che eroicamente combatterono contro il sistema statale dei liberali. Quindi ha ragione Alfredo Mantovano a denunciare sul settimanale Tempi, che anche questa volta si è perduta l'ennesima occasione per fare una discussione seria sulle vere questioni politiche del Mezzogiorno.

Allora per quanto riguarda la Storia:“Alziamo le nostre bandiere per difendere la nostra identità”, diceva Lucia, la brigantessa di Morrone nel casertano, alla sua banda pronta per combattere l'esercito invasore piemontese. Il libro di Francesco Pappalardo, “Il brigantaggio postunitario. Il Mezzogiorno fra resistenza e reazione”, D'Ettoris Editori (2014; e.13,50) è un'ottima sintesi (127 pagine) per conoscere la guerra che si è combattuta nelle regioni del Sud, tra gli eserciti venuti dal Nord e il popolo meridionale, dal 1860 al 1870. Ben dieci anni di guerra civile, combattuta tra italiani.“Il cosiddetto brigantaggio fu un sistema semiorganizzato di resistenza al nuovo Stato unitario e in molti casi una manifestazione di fedeltà alla dinastia borbonica[...]”.

In questi anni il brigantaggio ha assunto un carattere di assoluta novità, rispetto ad altri fenomeni di delinquenza organizzata che avevano interessato il Mezzogiorno d'Italia. Fino a qualche decennio fa il brigantaggio è stato liquidato come fenomeno di mera criminalità, grazie a studiosi e storici come Pappalardo, si è potuto conoscere il vero spirito dei combattenti che hanno resistito al nuovo Stato, venuto a depredare le regioni del Sud. Infatti per Pappalardo il“comportamento valoroso, definito sbrigativamente 'brigantaggio' dai vincitori, viene censurato e deformato per oltre un secolo, perchè nella costruzione dell'immagine 'epica' del Risorgimento non poteva esservi posto per alcuna forma di resistenza e dunque la reazione della popolazione del regno è stata letta per lungo tempo come una parentesi spiacevole da liquidare frettolosamente”.

Nel libro Pappalardo descrive in maniera circostanziata, utilizzando l'ampia e ricchissima documentazione esistente e la storiografia recente, senza idealizzare o demonizzare,“il panorama storico in cui nasce e si evolve il brigantaggio, evidenziando i risvolti sociali e religiosi della conquista sabauda del Mezzogiorno”.  Nella prefazione Oscar Sanguinetti, direttore dell'ISIIN (Istituto Storico dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale) rifacendosi al pensatore cattolico brasiliano Plinio Correa de Oliveira, cerca di smontare il termine“brigante”, utilizzato per la prima volta dalla Rivoluzione Francese nei confronti degli oppositori vandeani e poi dalle truppe napoleoniche per demonizzare le insorgenze popolari che non ne volevano sapere della “libertà” promessa da Napoleone. Successivamente tutti i movimenti rivoluzionari hanno fatto uso del termine per screditare chiunque si opponeva alla loro “liberazione”. “Briganti saranno per il regime sovietico i contadini delle centinaia di comunità di villaggio russe che insorgono contro la collettivizzazione forzata e che marciano inquadrati nelle loro confraternite contro le mitragliatrici comuniste, alzando al cielo gli stendardi dei santi protettori”.  I rivoluzionari di ogni specie, dai liberali ai comunisti, non potevano concepire che le loro idee potessero essere rifiutate o addirittura combattute con le armi. Per loro, “solo un criminale, cioè qualcuno interessato colpevolmente a conservare privilegi e a opprimere gli altri, potrebbe farlo”.

Pertanto se in azione si vedono popolani e non aristocratici, si deve trattare per forza di banditismo organizzato, di devianza sociale, da reprimere in tutti i modi. Come è stato fatto con il popolo meridionale. Così per qualunque forma di reazione popolare, “che rivendichi in qualche misura percorsi politici alternativi a quello tracciato dall'ideologia della 'Liberté-Egalité-Fraternité', su di essa deve calare,“la scure dello stravolgimento semantico”. Del resto nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta, del 1863, letta alla Camera dall'on. Massari, si legge che, “Il Brigantaggio è la lotta fra la barbarie e la civiltà; sono la rapina e l'assassinio che levano lo stendardo della ribellione contro la società”.

Il libro di Pappalardo, affronta le varie letture che sono state date al fenomeno del cosiddetto brigantaggio. A partire da quella marxista-gramsciana, che vedeva nella rivolta popolare, una risposta alle carenza del risorgimento liberale, leggendola come un anticipo di lotta di classe, dei poveri contro i ricchi. Così il brigantaggio non è solo un fenomeno di criminalità, ma anche un moto sociale. Una interpretazione non priva di dignità, anche se fondamentalmente pseudo-scientifica.

Tuttavia queste letture del fenomeno brigantaggio danno però un'immagine alterata e ridotta.

Nella I parte del libro pubblicato dalla calabrese D'Ettoris Editori, Pappalardo descrive le interpretazioni dei vari storici che hanno dato al fenomeno del brigantaggio, con riferimento ad altri tipi di rivolte. Pappalardo cita Francesco Saverio Nitti, Benedetto Croce, Galasso, Molfese. Tutti sostanzialmente attribuiscono una prevalenza del carattere sociale alla resistenza antiunitaria, negando sia la componente politica che religiosa, per pregiudizi ideologici. Questa è una impostazione che non comprende e nega la cultura delle popolazioni italiane e in particolare la componente religiosa, che ne rappresentava l'anima. A questo proposito, scrive Pappalardo:“L'elemento religioso è generalmente presente nelle raffigurazioni d'epoca, sui vessilli e sulle insegne di battaglia; frati e sacerdoti sono presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi – sebbene scacciati dalle loro sedi – sostengono efficacemente l'insurrezione, stampando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste e le scomuniche provenienti dalla santa Sede”. Si distingue in questa disapprovazione, la rivista dei gesuiti de La Civiltà Cattolica, che esprime il suo appoggio a quello “che era giudicato uno spontaneo movimento di massa, a carattere legittimistico, contro le usurpazioni del nuovo Stato liberale”.

Del resto il Paese Italia era già unito culturalmente e soprattutto religiosamente; non aveva bisogno di quella artificiale unità ideologica ostile alla cultura, ai costumi e alla religiosità dei popoli italiani. Gli italiani si sentivano uniti dall'elemento cattolico, dalla Chiesa e dal suo Pontefice che regnava a Roma.

Nella II parte del volumetto si affrontano i fatti, la resistenza e l'insurrezione, la repressione del brigantaggio, le leggi speciali e la fine della resistenza.

I fatti ormai sono abbastanza noti, se i generali e i galantuomini hanno tradito il Borbone, i soldati semplici e il popolo sostanzialmente gli è stato fedele.

“Sintomatico il comportamento dell'anziano generale Ferdinando Lanza, inviato in Sicilia con i poteri di alter ego del sovrano, che[...], si affretta a chiedere una tregua a 'Sua Eccellenza' Garibaldi prima che le sue posizioni fossero seriamente intaccate”. E quando i valoroso ufficiale Ferdinando Beneventano del Bosco e il colonnello svizzero Johan-Lucas von Mechel piombano su Palermo seminando il panico fra gli sgomenti garibaldini, il generale Lanza non esita e fermarli.

Per quanto riguarda la fedeltà dei sudditi, La Civiltà Cattolica scrive:“Il re Francesco II trovava nella fedeltà dei suoi sudditi e nel valore con cui presero a combattere sotto gli occhi suoi , un gradito compenso a tanti dolori[...]”. La maggior parte degli ufficiali e dei soldati sono con il re a combattere a Gaeta per l'ultima  simbolica resistenza. E dopo la sconfitta definitiva, furono in pochi a passare con l'esercito sabaudo, la maggior parte preferì restare fedele a re Francesco II. Molti furono fucilati e arrestati e nei mesi seguenti furono deportati al Nord e smistati in numerosi campi di concentramento. La Civiltà Cattolica, scriveva che era in atto, “la tratta dei napoletani”.

Nonostante la ricerca storica condotta dallo studioso Fulvio Izzo, nel suo, “I lager dei Savoia”, il destino dei prigionieri di guerra napoletani è ancora poco conosciuto, e ignoti sono il loro numero di morti. Non meno dura è la sorte di tanti esponenti del clero, numerosi i vescovi incarcerati o esiliati.

In un primo momento il governo di Torino tiene nascoste le resistenze popolari del Mezzogiorno, anche se la reazione degli occupanti è brutale. Il 21 ottobre del 1860, il generale sabaudo Enrico Cialdini telegrafa al governatore del Molise: “faccia pubblicare che fucilo tutti i paesani armati che piglio, e do quartiere soltanto alle truppe[...]”. Qualche altro generale era convinto che non bisognava perdere tempo a fare prigionieri. Il linguaggio era abbastanza duro e sanguinario come quello del generale Pinelli, nell'Ascolano, incoraggiava i suoi ufficiali e soldati, scrivendo: “un branco di quella progenie di ladroni ancor s'annida fra i monti;  correte a snidarlo e siate inesorabili come il destino. Contro nemici tali la pietà è delitto[...] Noi li annienteremo, schiacceremo il sacerdotal vampiro, che colle sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall'immonda sua bava[...]”: Questa è gente che gli hanno dato medaglie d'oro, dedicato vie ed eretto statue.

Intanto l'insorgenza del Mezzogiorno trova impreparate, psicologicamente e militarmente, le autorità civili e militari, anche se i segnali di ribellione c'erano eccome. “[...]Le stupefatte popolazioni contadine guardavano all'improvvisa invasione del regno da parte di soldati sconosciuti, parlanti una lingua estranea, che si apprestavano a insediarsi nel territorio di uno Stato che non aveva loro dichiarato guerra”.

La resistenza al nuovo Stato non ha visto solo il popolo, ma anche buona parte del legittimismo nazionale e internazionale, anche perché l'offensiva di Vittorio Emanuele II contro lo Stato Pontificio aveva richiamato in Italia gran parte della nobiltà lealista europea. Pappalardo fa alcuni nomi come il conte Henri de Cathelineau, il conte Theodule Emile de Christen, i catalani José Borges e Rafael Tristany, ce ne sono stati tanti altri, saranno artefici di memorabili imprese e faranno a lungo sperare in una conclusione vittoriosa della guerriglia. Uomini, eroi, che purtroppo gli è stato negato  l'onore di essere citati sui manuali di scuola per i nostri distratti studenti.

Purtroppo questa resistenza non ha avuto una direzione centralizzata, è esistita una rete di comitati diffusi nelle province che curavano il reclutamento dei volontari. Le formazioni armate, talvolta superano i mille uomini, spesso inquadrati da ex ufficiali. I combattenti innalzano la bandiera gigliata e intonano canti dell'antico regime. Nei giorni festivi assistono alla Messa, celebrata nei casolari di campagna, recitando la preghiera pro rege Francesco. Accanto alle grandi bande agiscono formazioni minori, ci sono un gran numero di fiancheggiatori, i cosiddetti manutengoli, che assicurano contatti fra le bande e la popolazione civile, e provvedono ai rifornimenti per i combattenti.

Pappalardo fa riferimento alle critiche di alcuni storici nei confronti del legittimismo e dei realisti napoletani che non sono riusciti a dar vita a un movimento esteso o un partito a favore della dinastia, probabilmente non sono riusciti a coagulare tutte le forze in una opposizione aperta al nuovo Stato liberale dei Savoia. Sono state vinte piccole battaglie, ma non quella più importante. Anche se bisogna riconoscere che il legittimismo borbonico ha avuto la capacità di aggregare per anni quasi tutte le componenti sociali intorno a un sentimento patriottico e nazionale.

Tuttavia la resistenza si è presentata in forme molto articolate, sia a livello parlamentare, le proteste della magistratura, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici, il rifiuto di ricoprire cariche  amministrative e poi il diffuso malcontento della popolazione cittadina, l'astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto della coscrizione obbligatoria, l'emigrazione, la diffusione della stampa clandestina, fra cui emerge lo scrittore Giacinto de' Sivo, che scrive molto denunciando apertamente la malizia e la strategia rivoluzionaria, nonché l'inettitudine e l'impreparazione di quanti avrebbero dovuto opporre prima una resistenza e poi una reazione.

Per Giacinto de' Sivo,“L'unità politica, non è sempre un bene, anzi è un male quando viene realizzata a danno dei valori spirituali e civili della nazione”. In opposizione al piano rivoluzionario, egli prospetta l'ipotesi di una confederazione, sul modello della Svizzera e degli Stati germanici, affinché possano sopravvivere le autonomie, le leggi, le tradizioni di ciascun popolo della penisola.

Nella primavera del 1861 divampa ovunque l'insurrezione generale. Le bande attaccano i paesi senza tregua, ottenendo l'appoggio della popolazione, si proclamano governi provvisori filoborbonici. Gli unitari non riescono più a controllare il territorio. Vengono fuori i vari capi della rivolta, tra i più significativi, Carmine Crocco e il sergente Pasquale Romano. La repressione non si fa attendere, Cavour invia a Napoli con pieni poteri civili e militari, il generale Enrico Cialdini, perché stronchi l'insorgenza a qualsiasi costo. Cialdini ordina una serie di eccidi e di rappresaglie nei confronti dell popolazione insorta, che rappresentano una pagina tragica nella storia dello Stato unitario. Particolarmente efferate sono le rappresaglie sulla popolazioni delle località insorte come Pontelandolfo e Casalduni nel Beneventano. Alla fine si arriva a praticare con la Legge Pica, un vero e proprio terrorismo militare, i protagonisti sono il generale Ferdinando Pinelli con le sue “colonne mobili” e il colonnello Pietro Fumel.

Il testo di Pappalardo descrive le varie fasi del grande brigantaggio, tenendo conto della geografia del territorio dove il fenomeno si è diffuso, contemporaneamente vengono elencati anche i nomi dei capibanda. In questo periodo, per la prima volta nel diritto pubblico italiano si introduce l'istituto del domicilio coatto, sul modello delle deportazioni bonapartistiche. Si arriva ad arrestare in massa ad esecuzioni sommarie, con distruzioni di casolari e di masserie, il divieto di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, si colpisce “nel mucchio”, per disgregare con il terrore una resistenza che riannodava continuamente le fila.

Per combattere il brigantaggio, il nuovo Stato fa uso della guerra psicologica attraverso bandi, proclami, servizi giornalistici e fotografici. Soprattutto le immagini sono importanti per demonizzare il nemico, in questo caso i briganti. Prende corpo la moderna “informazione deformante”, abilmente messa in atto dal governo sabaudo. Anche Pappalardo cerca di dare delle cifre sui morti in questa spietata e crudele guerra civile. Citando lo storico Roberto Martucci, nel decennio, le vittime dovrebbero essere quantificate da un minimo di ventimila ad un massimo di oltre settantamila, un numero molto superiore alla somma dei caduti di tutti i moti e le guerre risorgimentali dal 1820 al 1870.

A volte la mia difficoltà non è leggere un libro (che è uno sforzo lavorativo vero e proprio), ma come giustificare la sua lettura e soprattutto la presentazione nei blog dove collaboro. Anche se per la verità non devo rispondere a nessuno del mio operato.

Pertanto a fronte di una crisi che non smette di turbarci, come posso giustificare la presentazione di libri che riguardano il cosiddetto “brigantaggio” dopo la conquista del Sud ad opera dei garibaldini? Del resto occuparsi di politica è scoraggiante visto come sta andando nel nostro Paese. Gli italiani non ne possono più di vedere certe facce in tv, lo scriveva ieri Pansa su La Verità. Rilevava che su Sky in una presentazione dei tre concorrenti alla segreteria del Pd, l'ascolto è stato sotto il 3%.

Allora meglio fare i conti con la nostra storia, a cominciare dal cosiddetto “brigantaggio”, il “buco nero”, del  Risorgimento. Per anni i tutori del Risorgimento hanno cercato di nasconderlo e quando non potevano lo hanno demonizzato, liquidandolo come reazione di delinquenti e assassini di professione.

Casualmente ho acquistato nella solita libreria milanese, due testi romanzati proprio sulle brigantesse. Il primo, “La Briganta e lo sparviero”, di Licia Giaquinto, Marsilio (2014) e “Le ragioni di Lucia”. Passioni e lotte di una brigantessa”, di Edmondo Capecelatro, Rogiosi editore (2013). I testi sono romanzi fino ad un certo punto, perchè attraverso la vita di due ragazze, riescono entrando soprattutto nel contesto della società di allora, a raccontare le ragioni politiche e sociali della reazione popolare dei meridionali all'invasione dell'esercito sabaudo che è sceso al Sud non per liberare il popolo del Mezzogiorno ma per normalizzarlo.

Licia Giaquinto, scrittrice irpina, racconta la storia di Filomena, che nella primavera del 1862, in un bosco lungo il fiume Calaggio, intreccerà il suo destino con quello del brigante Giuseppe Schiavone, detto lo sparviero. Filomena sfuggita da un palazzo di Sant'Agata di Puglia, dove è stata accusata di essere ladra, e lui appena morso da una vipera. I due si innamorarono e subito e iniziano una vita fatta di sacrifici e di peripezie. Inseguiti ovunque dall'esercito piemontese, percorreranno in lungo e in largo i territori montuosi tra la Basilicata, Campania e Puglia. Il testo della Giaquinto è bello anche perché descrive con realismo l'ambiente del “meridione selvaggio”, in lotta contro l'invasore. Nel libro vengono descritte vicende di personaggi realmente esistiti, filtrate da una scrittura evocativa e affascinante. Allora c'è posto per Carmine Crocco, Ninco Nanco, il sergente Romano, Chiavone e poi i luoghi delle battaglie vere e proprie con l'esercito piemontese dei vari generali Pinelli, Fumel.

Giaquinto nel suo libro cerca di presentare la lotta dei briganti con realismo, non fa dell'ambiente brigantesco come qualcosa di idilliaco, sa che in quell'ambiente c'erano fior di delinquenti, violenti, dediti al saccheggio gratuito. Però non manca di descrivere le ingiustizie che ha subito il popolo meridionale, in particolare le violenze sistematiche sulle donne, e non solo sulle brigantesse. La scrittrice descrive bene i particolari, come nella notte della cattura di Giuseppe e un gruppetto di briganti, i soldati del nuovo regno non si sono spaventati dall'incessante pioggia simile al diluvio universale:“I lupi venuti dal nord erano più lupi veri, e non si erano lasciati spaventare dal fatto che Dio avesse deciso, quella notte, di riprovarci con il diluvio[...]”. Giuseppe viene fucilato, a Filomena e a tante altre donne rimane il carcere, dove arrivano i fotografi che avevano seguito i piemontesi a caccia di uomini e donne del brigantaggio.

Il secondo libro, “Le ragioni di Lucia”, denso di notizie storiche e di episodi di combattenti, ruota intorno a un centro ben preciso: Morrone, un borgo in Terra del Lavoro, con il Monte Castello, un'altura dove sorge un antico maniero. Siamo sulla strada per Caserta. Qui l'autore costruisce il suo libro sulla vita di una ragazza, Lucia, che lotta  anch'essa come Filomena, per la libertà, per il riscatto dalla condizione di donna e di contadina. Lucia non esita ad imbracciare le armi per sostenere le sue idee. Dopo una iniziale simpatia per Garibaldi, aderisce ad una formazione “partigiana” e diventa brigantessa, addirittura lei stessa dopo la cattura del tenente Francesco Correale, diventa il capo della banda, sfatando certe mentalità ataviche, che condannava la donna a certe mansioni.

Il testo di Capecelatro, poco romanzato, è costruito intorno alla vita di Lucia, di Ciro detto Ciruzzo e del tenente Correale, ci sono tutti i passaggi della storia reale, dalla fine del Regno di Francesco II alla lotta per dieci anni dei briganti contro i battaglioni savoiardi. Tre episodi fanno cambiare idea ai due protagonisti, Lucia e Ciruzzo. Il licenziamento dei lavoratori presso l'Officina di Pietrarsa, ad opera dei nuovi padroni piemontesi. Questa officina era il più grande opificio industriale d'Italia. Ciro insieme a tanti altri lavoratori è stato licenziato e poi rinchiuso in carcere della Vicaria a Napoli per essersi ribellato al licenziamento. L'altro episodio è stato l'irruzione dei garibaldini che sbrigativamente requisiscono tutti i generi alimentari nella casa della famiglia di Lucia. “Ma non erano venuti a portare la libertà?”.

Il terzo episodio, la morte di Giovanni, fratello di Lucia, a Gaeta nell'ultima resistenza del Re Francesco con Maria Sofia. Il tenente Correale porta la notizia della morte alla famiglia.

“Ma perchè sparare su dei vinti?” domandò sdegnosamente Lucia. “Perchè coloro che hanno mandato qui giù quell'esercito, proclamandosi nostri liberatori, vogliono soltanto conquistare la nostra terra, spogliarci dei nostri averi, calpestarci come padroni”, riprese il tenente. Correale non si arrende e comunica a Lucia di voler continuare la resistenza contro gli invasori. Decide di rifugiarsi nel castello sopra Morrone.

Intanto la famiglia di Lucia deve subire le angherie di Pietro Ajello, il potente proprietario terriero del luogo, il nuovo padrone che aveva comprato a prezzi stracciati le terre demaniali requisite dal nuovo Stato, magari alla Chiesa. Per questo può cacciare via dal terreno e dalla casa la famiglia di Lucia. Per evitare il tracollo economico il padre è costretto a mandare sua figlia a lavorare nel palazzo di Ajello. Qui Lucia in pratica viene sfruttata e umiliata al punto che la ragazza, per sfuggire alle avance del disdicevole personaggio, esasperata, abbandona quella casa per rifugiarsi sul Monte Castello dove c'erano i briganti.

Interessante il dialogo tra la donna e il tenente Correale, per capire la forza degli ideali di quei combattenti.“La resa senza combattere è dei vili o dei traditori e i nostri generali hanno consegnato la nostra terra a chi l'ha usurpata[...] La nostra lotta sarà forse inutile, ma mi resterà pur sempre l'appagamento di poter dire io ci ho provato e l'orgoglio per non avere chinato il capo”. Continua il tenente: “Ci chiameranno briganti, ma siamo partigiani e siamo già in tremila, ed altri ancora si stanno organizzando, per sconfiggere  chi ha occupato il nostro Paese e, se non ci riusciremo, almeno la storia potrà parlare di orgoglio meridionale”. Lucia era affascinata dai discorsi del tenente che parlava di ribellione, di un futuro dove non ci sarebbero state ingiustizie. Entrambi ritornano ad avere voglia di vivere, nonostante siano consapevoli di poter morire da un momento all'altro.

Altrettanto significativo è il momento quando il tenente insieme ad un drappello di briganti costringe il potente Ajello a restituire il terreno al povero Luigi, padre di Lucia, facendogli firmare l'atto di fronte a un notaio. Il libro di Capecelatro è ricco di episodi interessanti da leggere, nonostante i suoi personaggi si muovono nel ristretto territorio di Morrone, riesce a scrivere sinteticamente quello che già da tempo tanti storici e studiosi con documenti alla mano hanno scritto. Anche nel libro di Capecelatro, appare evidente lo scontro militare e politico tra due mondi diversi: quello del nuovo regno di Sardegna e il Mezzogiorno.“Ormai quella che si combatteva in tutto il Mezzogiorno d'Italia era una guerra civile”. L'unità forzata del Paese, voluta e realizzata dai Savoia,“aveva messo italiani contro italiani”. Scrive Capecelatro,“se in un primo momento la rivolta era portata avanti da tradizionalisti fedeli al Borbone, successivamente assunse un carattere di protesta sociale e, a questi, si aggiunsero i delusi dal nuovo corso e tutti i perseguitati dall'oppressivo regime piemontese.

Nei primi mesi di guerra furono oltre duemila i briganti o presunti tali passati per le armi, quattordici paesi rasi al suolo o dati alle fiamme, molti gli arresti e incarcerati. “Non male come inizio della nuova Italia unita sotto la corona dei signori Savoia”.

Anche lo scrittore napoletano non intende costruire una leggenda aurea intorno ai borboni. E' consapevole che la caduta del Regno è anche colpa del sistema che ruotava intorno al povero Francesco II. Tuttavia, Lucia era consapevole che“i tanto vituperati Borbone avevano comunque assicurato a lei e alla sua famiglia un'esistenza dignitosa, una casa, un lavoro[...]Ora, con Garibaldi prima e i Savoia poi, tutto sembrava crollare, disgregarsi, come se il Mezzogiorno d'Italia andasse abolito, cancellato con tutte le sue tradizioni di storia e di civiltà che ne avevano fatto uno dei principali Stati europei”.

Lucia senza saperlo diventò brigantessa , era stato Francesco a sconvolgere la sua esistenza, ha scoperchiato la sua vera indole: quella di una donna che aveva tutte le potenzialità per elevarsi al di sopra della massa, ascoltare la voce del dissenso, di contestare le regole ingiuste. “E' per istinto di conservazione che bisogna continuare a lottare, combattere”, diceva Lucia. “Per lasciare qualcosa di noi[...]Perchè i nostri figli non abbiano a maledirci, perché non si sentano traditi dai loro padri”. Francesco voleva recarsi a Sorrento dalla sua famiglia, ma è stato tradito e catturato dai soldati. Dopo ripetute violenze, ha la forza di polemizzare con l'ufficiale piemontese, che gli aveva promesso la libertà se giurava fedeltà al suo re.“Che strano concetto di libertà è il vostro. - ribatté Francesco – La libertà è quella di pensiero, quella di poter disporre della propria vita, quella di poter operare delle scelte. Schiavitù è prostrarsi innanzi al vincitore, innanzi ai potenti, è violentare le proprie idee per sacrificarle ad un effimero vantaggio. Ed allora io morirò da uomo libero anche penzolando da una vostra forca, resterò un uomo libero anche se rinchiuso in una delle vostre galere. Ma sarei uno schiavo se abbracciassi per convenienza le vostre idee. Parole piene di grande significato, che possiamo fare nostre; oggi non siamo chiamati a combattere una battaglia armata, ma certamente siamo chiamati a combattere una battaglia culturale delle idee, pronti a non arretrare sui valori che contano. Ce lo ha ricordato l'altra sera il presidente del Comitato“Difendiamo i nostri figli”, Massimo Gandolfini al teatro Rosetum a Milano.

Il libro di Capecelatro ricorda i funesti campi di concentramento dei Savoia, i lager dei Savoia, li ha chiamati, lo storico Fulvio Izzo, dove sono stati rinchiusi a morire i soldati napoletani di Francesco II. La più nota è Fenestrelle, la lugubre fortezza, con tremilanocentonovantasei gradini, a quasi duemila metri, dove il nuovo Stato italiano tentò di rieducare e far diventare civili i napoletani. Qui furono deportati circa venticinquemila meridionali che si opponevano alla conquista e alla successiva annessione delle Due Sicilie al Regno di Sardegna. Se i re Borbone potevano vantare diversi primati, come la ferrovia, il vapore, l'osservatorio astronomico, l'illuminazione stradale a gas, addirittura la prima regolamentazione sulla raccolta differenziata, ora i sabaudi potevano ostentare un loro primato: il primo lager in Europa.

Con la scomparsa di Francesco, Lucia riceve dal duca don Raffaele, il capo del Comitato borbonico, l'incarico di guidare la banda dei briganti. Lucia in un primo momento frena:“Ma voi dimenticate che sono una donna”, ribatté al duca. Teme di non essere obbedita dagli uomini, di non  riuscire nell'impresa. Ma il duca dà una risposta solenne:“Il peggior schiavo è chi  è prigioniero di se stesso. Per spezzare le catene che lo imbrigliano dovrà sapere innanzitutto sconfessare i vincoli cui è sottoposto e mi rendo conto di quanto possa essere difficile rinnegare condizionamenti di una vita. Ma chi vuole essere libero deve trovare il coraggio e la forza per farlo”. E qui si sfata un luogo comune dove si considerano i legittimisti, seguaci del Borbone dei retrogradi e nemici del progresso.

A questo punto è bello ascoltare Lucia, le sue prime parole da capo ai suoi uomini:“Chi è qui non per lottare per un ideale, ma per se stesso, abbandoni tutto e vada via. Queste persone non ci servono, costoro hanno già perso senza combattere. La nostra è la lotta contro l'emarginazione di un popolo e, di fronte al bene comune, nulla valgono gli egoismi personali[...]”.Questa, “è la lotta delle donne e degli uomini delle Due Sicilie contro chi ha voluto strapparci la nostra patria non in nome di un'unità di popoli ma di una sopraffazione tra loro, contro chi fa ricorso allo stupro e alla tortura verso chi chiama fratelli. E' la lotta di contadini senza terra, di soldati senza esercito, di madri senza figli. Noi combattiamo perchè l'oblio non cancelli la nostra storia, perché calunnie e falsità non la consegnino vilipesa ai nostri figli. Se alziamo le nostre bandiere lo facciamo per difendere la nostra identità, non per offendere quella degli altri. Noi combattiamo in nome di chi ha saputo anteporre i doveri di Stato a qualsiasi ambizione. Io sarò soltanto la referente di queste istanze di tutti, così come lo è stato il tenente Correale e, se credete che non possa esserlo solo perché donna, è inutile che combattiate per istanze sociali, non ha senso che vi ribelliate ai soprusi del forte sul debole perché starete facendo esattamente quello di cui accusate i nostri nemici”. Un vero manifesto programmatico, di cui valeva la pena citarlo per esteso.

Il nuovo regno ha impiegato dieci anni per debellare il brigantaggio. Ma quanto è costata questa guerra, voluta dai nuovi padroni, dai Piemontesi, quanti morti, quanti paesi distrutti. Capecelatro quantifica in 123.860 morti, qualcuno ha esagerato scrivendo 1 milione. Certamente sono state molte di più rispetto a tutte le guerre risorgimentali.

Ritornando al personaggio principale del libro, Lucia e la sua banda di briganti alla fine vengono sconfitti, lei stessa catturata dopo aver subito uno stupro brutale dai “liberatori”, viene incarcerata e tiene il figlio, frutto della violenza subita dalla soldataglia sabauda.

Mi piace concludere con delle splendide parole di Lucia che dopo aver catturato sei militari dell'esercito piemontese, in una delle tante sortite contro i militari del Nord, con tono fermo disse: “Veniste da fratelli a volerci portare una libertà che non vi avevamo chiesto, e quella che voi chiamate libertà è stata per noi morte, devastazione, stupro. Veniste da italiani a volerci portare una nuova patria, ma ci avete portato un'Italia costruita sul sangue e sull'odio. E quello che oggi è odio sarà domani rabbia e rancore. Ci chiamate briganti! Ma è brigante chi ruba la vita degli altri o chi difende la propria? E' brigante chi incenerisce case, poderi, paesi o chi in quelle case brucia? E dov'è adesso il vostro coraggio, perché sui vostri volti si è spento quel sorriso beffardo?”. Quei poveri diavoli erano pronti a morire, ma la donna con grande lealtà, concluse: “Adesso andate! La banda di Francesco Correale, così come tutti coloro che combattono per difendere la propria terra e non per offendere quella altrui, non spara su uomini inermi e disarmati”.

Il terzo libro che ho letto è un'ottima sintesi storica sociale e culturale del brigantaggio, scritto dallo storico e valente studioso e dirigente di Alleanza Cattolica, Francesco Pappalardo, “Il Brigantaggio postunitario. Il Mezzogiorno fra resistenza e reazione”. Il breve saggio ha il pregio di essere sintetico, che peraltro da una visione completa della guerra che ha insanguinato tutto il Sud dal 1860 fino al 1870. Naturalmente rinvio ad un prossimo intervento la presentazione dell'opera di Pappalardo.

 

 

Sono trascorsi più di cinquant’anni da quando Domenico Fisichella affrontò per la prima volta in un proprio testo edito la riflessione politica di Joseph de Maistre (Giusnaturalismo e teoria della sovranità in Joseph de Maistre). Vi è tornato più volte, in altri densi volumi. Esce ora Sovranità e diritto naturale in Joseph de Maistre, pubblicato dall’editore Pagine nella “Biblioteca di Storia e Poliica” (pp. 240, € 17).

L’ampio studio, denso di riferimenti sia all’opera del pensatore savoiardo, sia a svariati studi, affronta molteplici problemi. Come viene rilevato, “la decadenza della democrazia, espressione del disagio della civiltà europea e occidentale, riapre il dibattito sui grandi temi della sovranità e del diritto naturale. Individualismo, contrattualismo sociale, legalità e legittimità, elefantiasi legislativa, ruolo dell’etica e della religione, rapporto tra autorità e libertà, sono altrettanti problemi che ripropongono la crucialità della riflessione di quella che è stata definita la Destra tradizionalista e controrivoluzionaria”. Si comprende quindi come Fisichella non si limiti a inserire il pensiero demaistriano nel suo tempo, ma ne colga motivi da considerare fino all’attualità, per interrogarsi altresì sull’odierna, paventata finis Europae. E si capisce la molteplicità di pensatori cui Fisichella fa riferimento, per chiarirne rapporti, derivazioni, spunti rispetto a de Maistre: da Montesquieu a Hobbes, da Burke a Comte a Popper. 

Fisichella si preoccupa di smentire la riduttiva e poco storica immagine del pensatore savoiardo come puro teorizzatore della reazione, gretto e limitato. De Maistre si sofferma su un caposaldo come l’autorità, certo, ma non gli è estraneo il problema dell’equilibrio e del bilanciamento. Non trascura nemmeno accenni d’interesse economico. Sostiene l’ineliminabilità della politica. Quale convinto assertore della socialità naturale dell’uomo, de Maistre rifiuta il contrattualismo (se l’ordine sociale viene dalla natura, non può derivare da una convenzione) e nega l’individualismo (anche per la sua radicale impossibilità di serbare un ordine morale). Non pensa a un regime di democrazia liberale e competitiva, ma sostiene una monarchia rappresentativa anche se non parlamentare, con propri modi di designazione, composizione e competenze.

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