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Fare felici gli infelici

Fare felici

“Padre Clemente Vismara (1897-1988) predicava la fede, esortava a credere in Dio ed a pregare molto, a mandare i figli a scuola (…), così sarebbe migliorata la loro vita.”

In queste poche parole si può riassumere lo spirito di un grande missionario, il segreto di una vita lunga e vittoriosa, come si legge nel sottotitolo del volume di p. Piero Gheddo, Fare felici gli infelici, edito da Emi (2014, pagg.300) con la prefazione di Roberto Beretta. “Fare felici gli infelici” dando tutto sé stesso perché solo questo convince i pagani diceva il beato.

Padre Gheddo, che ha al suo attivo moltissime biografie di santi e beati missionari, si è fatto una precisa idea del concetto di santità: il santo è un uomo felice, è un esempio di promozione umana che rende l’uomo più uomo e la donna più donna, la santità è alla portata di tutti, i santi sono la dimostrazione “che il Vangelo può essere vissuto in ogni situazione umana e in ogni tempo”.

“Fare felici gli infelici” è la storia del percorso spirituale che ha portato il beato Vismara verso la santità dopo che nella precedente biografia scritta sempre da p. Gheddo, Fatto per andare lontano, aveva descritto la sua vita come un romanzo di avventure, ma vere, non inventate.

Un percorso che parte dall’esempio dei suoi genitori che, purtroppo, presto lo lasciano orfano, ma che lo rafforzano nella virtù della fede senza la quale “sarei diventato un brigante”, dice il beato Clemente. Una grande personalità, una grande gioia di vivere che trasmetteva agli altri, ma anche una forte identità e uno spirito ribelle, forte e tenace, obbediente, fedele, metodico. Tutte caratteristiche che lo renderanno un grande missionario sempre pronto a sacrificarsi per gli altri come nell’episodio che lo vede prendere in posto di un commilitone spaventato e piangente nella trincea della Prima Guerra mondiale.

La grande fede era la sua forza e tutto faceva per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Per questo motivo era un grande organizzatore che faceva organizzare tutto dalla Provvidenza e per questo la seconda virtù che lo contraddistingueva era quella della speranza, segno distintivo dei cristiani (Spe salvi, 2007, n.2) tanto che una suora che aveva vissuto con lui lo chiama “santo della Divina Provvidenza”. Infatti Vismara non rifiutava mai nessuno nel suo orfanotrofio e, alla fine, il riso non mancava mai. Tutte le offerte che riceveva finivano in riso e medicine, ma non teneva nessuna contabilità.

L’attività di Vismara, missionario e pastore nell’estremo oriente (Birmania), non si limitava alla vita spirituale, ma a migliorare anche la vita materiale delle sue pecorelle: “E’ impossibile fare i cattolici a ventre vuoto” scriveva il beato, che, assieme al segno di croce insegnava come produrre da mangiare e lo insegnava agli uomini che, in quelle società tribali, facevano lavorare solo le donne e i bambini. E li trascinava al lavoro con l’esempio perché “un cristiano che lavora è un buon cristiano” diceva.

E Vismara lo era come testimoniano anche i suoi numerosi scritti senza errori in tema di morale e di dottrina, ma come ricordava san Paolo, la più grande delle sue virtù è stata la carità radicata nella fede, un fare e un far fare che lo vedrà sempre al lavoro fino all’ultimo giorno dei suoi 65 anni vissuti in Birmania.

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