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i tiepidi vanno all'inferno 1

Chi è il prete? E’ quello che ha “il potere di Cristo”. Certamente non dev’essere codardo, un uomo d’apparato, non deve andare a caccia di promozioni, non deve essere ossequioso per interesse, non deve essere tiepido, ipocrita, e via discorrendo. Con il linguaggio del grande predicatore, padre Michel-Marie Zanotti-Sorkine, ex chansonnier nei cabaret di Parigi, che all’età di ventotto anni abbandona le scene per vestire l’abito talare, scrive contro la tiepidezza dei sacerdoti responsabili del decadere della fede nei cuori degli uomini.

Padre Michel-Marie è parroco in una parrocchia di un quartiere multietnico di Marsiglia, la sua chiesa un tempo era vuota, ora ha tanti fedeli. Il segreto di tutta questa rinascita è che l’ex chansonnier predica “i grandi precetti della Chiesa, il dono di sé, la carità verso il prossimo e la fiducia in Dio”. Il prete francese intende scuotere i suoi confratelli dalla tiepidezza, dalla debolezza, dalla leggerezza, dall’inoperosità, per questo ha scritto qualche anno fa un libro, recentemente pubblicato dalla Mondadori, “I tiepidi vanno all’inferno” (2014); lui stesso scrive che si tratta di un “Piccolo trattato dell’essenziale”, alcune riflessioni, su ciò che manca nell’uomo e nella società, alcuni li chiamano “valori, ma che in fondo non sono nient’altro che la vita quando si svolge come deve”. Sono 20 brevi capitoli, definiti dal parroco,“venti luci”.

Padre Michel-Marie analizza il momento attuale della Chiesa e del mondo cattolico, la situazione è grave, anzi gravissima. Fa un elenco abbastanza negativo, ne propongo una sintesi: “la maggior parte delle nostre parrocchie è senza eredi, la messa non trattiene più il cuore; da molte parti fa addormentare, annoia, delude, allontana persino chi la fede ce l’ha; i battesimi diminuiscono, le aule di catechismo si svuotano, la confessione agonizza…”. I credenti non praticanti aumentano, “sguazzando in uno stato di indifferenza e serena neutralità, mentre i non credenti e gli agnostici di ogni genere pullulano e si moltiplicano allegramente”. E provocatoriamente ci invita a non sminuire la realtà: “non dite che il numero non conta, che la qualità è più importante”. Soprattutto non accampiamo scuse, tipo che ci sono qua e là, “gli eterni segnali di speranza”. Certo don Michel-Marie riconosce l’esistenza dei tanti movimenti, delle associazioni cristiane, dei tanti preti, fratelli cristiani, giovani, veri araldi della fede, che ogni giorno si danno senza risparmiarsi. Nonostante tutto questo, la situazione rimane gravissima. Pessimismo? Non credo, il prete deve dare una scossa, deve provocare non deve predicare rassegnazione, e il libro di padre Michel-Marie ha questo intento.

E’ evidente che la nostra società, quella occidentale, la Vecchia Europa, sta vivendo un “inverno religioso”. “Di chi è la colpa? Nostra, prima di tutto, preti di Gesù Cristo, che non lo siamo a sufficienza”, scrive padre Zanotti- Sorkine. “Via, siamo onesti e non appelliamoci alla società moderna, con i suoi sconvolgimenti, i suoi cambiamenti, i suoi conflitti tra culture e altre problematiche emerse, per giustificare il prosciugamento dello spirito cristiano nel nostro paese”. Insiste il prete francese: “niente scuse, non sarebbe degno della santa Chiesa che si è sempre diffusa al di sopra del paganesimo o della falsità degli dei(…) E poi, pensiamo anche solo a san Paolo! Ha forse beneficiato delle circostanze più favorevoli per annunciare il Regno e edificarlo?(…) la verità è questa: non abbiamo più il sacro fuoco. L’immagine che diamo del sacerdozio è troppo insignificante. Non si tocca il cuore. I modi in cui ci poniamo sono inferiori al risultato atteso”. A questo punto il padre francese fa alcuni nomi di modelli, di santi sacerdoti a cui affidarsi, primo fra tutti san Giovanni Maria Vianney, il santo curato d’Ars, poi Vincenzo de’ Paoli, Giovanni Bosco, Massimiliano Kolbe. Pertanto rivolgendosi prima a se stesso e poi agli altri fratelli sacerdoti, ma anche ai cristiani tutti, rimettiamoci tutti, in discussione radicale e con coraggio ribaltiamo le nostre organizzazioni e i nostri piani i cui frutti spesso sono stati molto scarsi. Il padre ci avvisa se non siamo d’accordo con questa premessa, certamente un po’ pessimista ma reale, e soprattutto se crediamo che tutto vada bene, chiudiamo il libro e preghiamo per lui.

michel-marie zanotti

Per quanto mi riguarda, il libro non l’ho chiuso e l’ho letto tutto, trovandomi sostanzialmente d’accordo con il prete francese.

Sono tanti i suggerimenti di padre Michel-Marie, che orgogliosamente per farsi riconoscere nelle strade, cammina sempre in talare nera. “La veste è una divisa da lavoro, un grembiule da cottimista; seppur nera, è una ‘tuta blu’(…) Portala, questa veste, e vedrai subito i frutti dell’immaginario dell’uomo che ti collegherà istintivamente a Vincenzo de’ Paoli, a Jerzy Popieluszko, a Giovanni Paolo II, che non ebbero paura di mostrare la loro scelta in materia d’amore”.

Tra i tanti consigli, invita il prete a non essere freddo, distante, scuro in volto, “la bontà sia immediatamente percepibile nei tuoi occhi. Allenati davanti allo specchio”. Don Michel-Marie sottolinea anche che il prete deve avere classe, stile, mai la moda. Non dev’essere volgare, fare sempre il primo passo. Mai lamentarsi:“Credi che Dio ti serva le anime su un vassoio, già ben disposte, sottomesse e tutt’orecchi? Ma come puoi essere così immaturo? Dio ti manda gli storpi, i pazzi furiosi, le anime dannate, gli ottusi, i balordi, i tonti, ma sono tutti amati figli di Dio. Forza, fai piacere a Lui, salvali!”

Il prete dev’essere allegro, una punta di umorismo, ma mai ironia nel tono della voce, mai una parola contro chicchessia. Adattati a ogni persona, ai suoi limiti, alle incoerenze. “Ama gli animali e rispettali facendo loro qualche carezza, quando capita”, (faccio felice Miryam). Per quanto riguarda i problemi sociali, “se hai delle risposte dalle, ma ricordati che l’essenziale si trova oltre il tempo(…) prima di occuparti di politica, nei versetti del Vangelo guarda bene Cristo e i suoi problemi, e vedrai ciò che interessa a lui”.

Sulle questioni ecclesiali, “Dì ciò che pensi, sii ciò che sei, alla luce di ciò che la Chiesa universale scrive sul tempo esatto che tu vivi. Non sbagliare decennio. Rispondi presente all’appello del papa. Il suo orologio fa l’ora esatta. Ancora, “entra nell’orbita di santo Stefano che ha aperto la strada, e lascia alla massa dei chierici gli avvitamenti del linguaggio…”. Sulle verità di fede, scrive: “Un prete che non parla più del Cielo lo ha lasciato da molto tempo” e quindi occorre evocare il purgatorio, l’inferno, il paradiso. Curare la liturgia, la messa, niente improvvisazione, verbale o gestuale. Ognuno nel suo ruolo, il prete e il laico. Non bisogna clericalizzare i laici. Attenzione a quei fedeli “impegnati” che si collocano al di sopra dei loro fratelli che bussano alla porta della chiesa. Attenzione alle riunioni interminabili in parrocchia, “in cui la maggior parte del tempo i pensionati sollevano problemi che non esistono”. “Va oltre e portali oltre”. Astieniti da qualsiasi critica nei confronti dei tuoi fratelli, che siano vescovi o sacerdoti.

Nell’ultima parte il libro, si chiede “che cosa manca oggi all’anima della vita”, tra tante cose manca il buon senso, la gioia, la bontà, il silenzio, il desiderio d’amore, la pazienza, la perseveranza, l’umiltà…

Il perdono è una evoluzione psicologica particolarmente difficile ed articolata. Nella maggior parte dei casi richiede tempi alquanto lunghi, anche se il solo trascorrere del tempo, il più delle volte, non basta perché la persona offesa possa perdonare.

Richiede uno sviluppo propedeutico profondo e consapevole, in grado di coinvolgere ogni possibile dote e ogni risorsa della persona interessata.

Gli insulti, i torti, le calunnie, le ingiustizie, possono essere di vario genere e sono avvertiti, dalla persona che si ritiene offesa, come comportamenti intenzionali scorretti ed iniqui. Determinano angosce e tormenti sia a livello fisico che psichico.

Il rancore è la conseguenza dalla convinzione di avere ricevuto un danno, una ingiuria, un oltraggio ingiustificati.

Comunque, bisogna distinguere la diversità di sentimenti avvertiti da chi riceve una offesa rispetto a chi l’offesa la compie, in quanto chi offende tende sempre a minimizzare e svalutare le proprie colpe ponendo in risalto l’involontarietà, la propria innocenza, la propria schiettezza e rettitudine, mentre chi riceve l’offesa enfatizza ed accentua la volontarietà, la premeditazione, la perfidia, respingendo e contestando ogni e qualsiasi forma di corresponsabilità.

Il perdono richiede, anzitutto, che la persona offesa assuma un atteggiamento aperto, sereno e non ostile nei confronti dell’oltraggiatore, del denigratore. È necessario, perciò, non serbare rancori profondi, non nutrire sentimenti di avversione e, soprattutto, essere convinti di non voler ricambiare l’offesa ricevuta.

Il perdono è un susseguirsi e un evolversi di sentimenti e di stati d’animo. Richiede una notevole capacità di autocontrollo tanto dei comportamenti, quanto degli impulsi, degli istinti. Presuppone il riconoscimento di essere degni di una diversa e migliore considerazione, ma richiede, anche, la volontà di voler concedere all’offensore una preziosa occasione per dimostrare, nei fatti, che quanto è avvenuto in precedenza è stato solo uno spiacevole episodio, un equivoco, ma che non vi era affatto alcuna volontà di offendere e di ferire.

Il dolore, la sofferenza, la significatività dell’offesa e gli effetti che determinano a livello psicologico, variano da soggetto a soggetto, indipendentemente dalla gravità della offesa stessa. Una importanza particolare è data sia al tipo di relazioni esistenti tra l’offeso e l’offensore, sia al senso, al valore, al rilievo che l’oltraggio assume per la persona offesa.

Il perdono concorre ad aiutare la persona oltraggiata a liberarsi da talune circostanze logoranti e faticose. Facilita e migliora le relazioni. L’attestazione del perdono è un atto della nostra ragione ed è indipendente da chi ha cagionato l’offesa. Il perdono, così inteso, implica la capacità di effettuare una scelta consapevole, vuol dire saper controllare l’impulso a volere reagire. Perdonare, comunque, non significa affatto giustificare il modo di agire dell’altro, significa, invece, trovare la giusta determinazione e la forza di staccarsi dalla sofferenza e dal risentimento causati dall’offesa ricevuta; vuol dire, in breve, liberarsi di un qualcosa che ci angustia.

Quando la nostra mente e il nostro cuore sono chiusi ed offuscati dal rancore, avvertiamo, sempre più forte, sentimenti di indignazione, di disappunto, di collera. Non riusciamo ad intuire quanto di giusto, di positivo, di valido e di vero è presente nella situazione che viviamo.

Quando, invece, siamo aperti, leali, sinceri, allora riusciamo a percepire e ad attribuire il giusto significato, valore e senso alla vita, ma soprattutto riusciamo ad aprirci ed a cogliere la felicità.

Riscoprire il perdono vuol dire imparare a voler bene ed a rispettare l’altro.

Spesso non è affatto difficile usare la parola “Perdono”, ma non ha alcun significato ed alcun senso se non è coinvolta e chiamata in causa tutta la persona. Certamente è indispensabile ed essenziale l’intenzionalità dell’azione, ma risulta scarsamente efficace se non sono coinvolti anche la ragione, l’intelletto, la razionalità, l’animo, la sensibilità.

Il perdono assume forma ed aspetto diversi nel caso in cui ad offendere è una persona di famiglia o di comprovata fiducia. In queste circostanze risulta maggiormente difficile perdonare, dal momento che si tratta di persone con cui esiste un forte legame affettivo oltre che una fiducia piena e completa. Si tratta di offese che appaiono subito ingiustificabili e inammissibili, proprio perché arrecate da persone in cui si era riposta incondizionata fiducia. Ma, invece, sono proprio i legami affettivi che devono aiutare e stimolare la persona offesa a ricercare un ravvicinamento ed una rappacificazione. La riconciliazione, in questo caso, concorre sia a salvare una relazione ed un rapporto ormai compromessi, sia a risanare ed arricchire la qualità del rapporto stesso.

Nel messaggio evangelico non esiste una regola del perdono, né sono consentiti confini o barriere.

Dobbiamo imparare a perdonare anche perché il primo a perdonare gli uomini è stato Dio e il perdono divino rappresenta, per il genere umano, un potente ed efficace motivo di indulgenza.

Ma, in definitiva, cosa significa perdonare?

E, poi, alla luce degli ultimi fatti di cronaca, è sempre possibile perdonare?

Ed, inoltre, può davvero perdonare una madre che perde un figlio solo perché si trovava nel momento sbagliato sull’aereo, nel museo, nella chiesa, nel mercato, sbagliati?

In questi casi non si tratta affatto di perdonare una persona, più o meno conosciuta, si tratta, invece, di perdonare una ingiustificata, incomprensibile ed inspiegabile furia omicida perpetrata da gruppi di persone che pretendono, fra l’altro, di agire in nome di ideali religiosi; la sola ragione difficilmente potrà venirci in aiuto. Ma è proprio in queste circostanze che il perdono può essere considerato come un “Dono”, come un “Atto di fede”.

Perdonare, in definitiva, vuol dire possedere la capacità e la forza di rispondere con il bene alle ingiustizie, alle iniquità, ai dispiaceri, al male ricevuto, al dolore che si prova.

Le offese subite stimolano in noi la nascita di sentimenti di avversione e di vendetta. La capacità di saper perdonare, invece, consente alla verità, al bene, al buono, al giusto, all’amore, di affiorare e di sconfiggere il male, le ingiustizie, la cattiveria, la sofferenza. Solo il perdono consente alla persona di controllare, superare e vincere i risentimenti, le irritazioni, il disprezzo, il rancore, l’odio.

Concedere il perdono e chiedere di essere perdonati sono le strade, forse le uniche, che danno dignità e fortezza all’uomo. Sono gli unici percorsi che offrono alla persona la possibilità di venir fuori da ataviche situazioni contrassegnate da profondo odio, disprezzo, avversione, repulsione.

Perdonare non significa affatto far finta che nulla sia accaduto e non pensare più ad una offesa ricevuta. Spesso, ed a torto, sentiamo dire: “Dimentichiamo – non pensiamoci più – facciamo finta di nulla, ecc.”. L’atto del perdono richiede, invece, che il torto ricevuto sia rielaborato e presente nella mente di chi lo ha ricevuto, affinché ci si possa liberare dall’amarezza e dal dolore che ha provocato. Questo sta a significare che il ricordare una ingiustizia ricevuta non provoca più in noi alcuna angoscia, alcun tormento. Il suo ricordo, invece, concorrerà a farci divenire più equilibrati, più sereni e responsabili.

San Paolo affermava: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”, e sosteneva ancora che bisogna: ”Annegare il male nella sovrabbondanza del bene”.

Quando ci troviamo in momenti di raccoglimento e di riflessione siamo convinti di amare Dio, senza sapere che il difficile, per noi, è amare Dio nel nostro prossimo, anche in quelle persone che consideriamo nostre nemiche.

Nell’Antico Testamento con l’espressione “Perdonare” si voleva mettere in evidenza la discordanza e il conflitto esistente tra la volontà umana e quella divina. Nel Nuovo Testamento, invece, questo termine assume il significato di “Mettere in libertà una persona”, ma significa anche “Perdono dei peccati”.

La Parabola del “Figliol Prodigo” è un valido ed efficace esempio di perdono. Il giovane, prima di chiedere al padre di essere perdonato, si pente della sua scelta e della sua condotta di vita. Il padre, comunque, nella sua mente e nel suo animo, lo aveva già perdonato. Il perdono è una libera, cosciente ed incondizionata scelta.

Il sentiero che conduce al perdono è sempre angusto ed irto di difficoltà. Gli intoppi e gli ostacoli aumentano nel tempo perché i sentimenti negativi si radicano sempre più forti nel nostro animo, soprattutto perché, il più delle volte, ci convinciamo di avere sempre ragione.

Per fortuna esistono ancora persone disposte al perdono. Sono proprio questi validi esempi che ci invitano a scegliere tra il perdonare una offesa ricevuta o assumere comportamenti di vendetta.

Perdonare significa creare le premesse per un domani migliore e diverso a livello relazionale, affettivo ed umano. Vuol dire fidarsi dell’altro, ed è proprio questo atto di fiducia che ci consente di intraprendere la via della riconciliazione e del rispetto per l’altro.

Il perdono, in definitiva, è un beneficio per chi lo riceve, ma è un bene ancora più grande per chi lo concede. Perdonare, quindi, vuol dire abbattere quel muro che ci separa dall’altro, così come ha fatto Gesù Cristo, l’unico che ha realizzato il vero Perdono.Ebbene, solo quando saremo in grado di raggiungere questa consapevolezza ci verrà naturale e spontaneo PERDONARE!

 

 

Qualche giorno fa, entrando in un edificio pubblico un manifesto ha attirato la mia attenzione: “Student* contro le mafie”. Subito sono andato a cercare in fondo al foglio l’asterisco per capire l’eventuale rimando a qualche cosa che motivasse l’inglese contro le mafie, ma niente. Forse un errore di stampa o altro. Altro infatti, siamo arrivati all’estremo della lotta per un uso non sessista della nostra cara lingua. Non bastavano gli inglesismi che imperversano a martoriare la lingua che fu di Dante e di Manzoni ora anche gli asterischi per il trionfo del linguisticamente corretto. Questa storia ha origine alla fine degli anni 80 con le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana promosse dalla Presidenza del Consiglio e dalla Commissione per la parità e per le pari opportunità. Raccomandazioni per evitare, ad es., il maschile quando ingloba ambedue i generi o l’articolo davanti ai cognomi di donne. La cosa che ebbe risalto mediatico fu l’invito ad abolire il termine signorina. Da allora hanno iniziato a imperversare i termini come avvocata, ministra, sindaca, la vigile, tutto finalizzato ad evitare il suffisso –essa.

Una battaglia che ora sta prendendo una piega nuova: l’asterisco per evitare qualsiasi riferimento sessista e inglobare tutti per non offendere nessuno. Si, perché dire studenti potrebbe sembrare escludere le studentesse e così sarà per i giocator*, i pugil*, i vigil* e ancora quando ci sarà una riunione di avvocat* ne guadagnerà anche la sintesi e si risparmierà inchiostro. Sarà originale leggere: “All’assemblea di condominio eravamo tutt* d’accordo”. La nostra lingua italiana è fatta in questo modo certe forme maschili non sono discriminatorie nei confronti del genere femminile: la maestra che dice: “Bambini tornate in classe” non è sgrammaticata e non vuole lasciare le bambine fuori. E pensiamo al mondo animale: l’ornitorinco, la folaga, il germano, il delfino o il boa quando prenderanno consapevolezza di tutte queste discriminazioni cosa faranno e il boa femmina cosa diventerà?

Speriamo che tutto questo, che ha molto del ridicolo, venga sommerso da una sonora risata.

Ma riflettiamo comunque su come la neolingua si stia insinuando e dietro alla guerra delle parole ci sia, quasi sempre, una battaglia culturale.

Il rapporto elaborato dal CENSIS e le valutazioni espresse da autorevoli Agenzie ed Istituti ci mostrano l’immagine di una Italia che, progressivamente e in modo inesorabile, sta profondamente cambiando. Per far fronte alle sfide che il futuro ci prepara, sono necessari sia una nuova e diversa mentalità, sia operare delle scelte maggiormente radicali rispetto a quelle adottate, fino ad oggi, dai nostri governanti.

Il 47° rapporto Censis, relativo alla situazione generale dell’Italia, riporta che sono in costante aumento le famiglie che vivono una situazione di forte disagio economico e, quindi, socio-esistenziale.

Quello che appare subito evidente è che quel benessere economico vissuto dalle famiglie italiane fino ad un decennio addietro, oggi, si è notevolmente affievolito.

Particolarmente inquietante appare la situazione inerente alle possibilità di lavoro, con una disoccupazione che sembra non volersi più arrestare, anche se i mezzi di comunicazione di massa, nel decorso mese di gennaio, lasciavano intravedere una importante ripresa a seguito di un numero non trascurabile di persone che hanno trovato, finalmente, una opportunità lavorativa.

È, ormai, un luogo comune, una frase fatta, che gli italiani aspirano a divenire dipendenti pubblici; persone che, una volta ottenuto un impiego, vi si aggrappano per l’intero periodo lavorativo. Questo non corrisponde affatto alla realtà, in quanto, proprio l’ultimo rapporto Censis, mette in evidenza che sono molti quelli che, non appena si è presentata loro l’occasione, non hanno esitato affatto a lanciarsi in una nuova e diversa esperienza.

È, forse, il caso di ricordare che, oggi, sia i giovani che i meno giovani, si stanno avvicinando con crescente interesse a lavori, quali: il commercio, l’agricoltura, l’allevamento, il turismo, oltre ai lavori stagionali. I motivi di queste scelte sono da ricercare nella esigenza di rendersi indipendenti, di disporre di un reddito in grado di soddisfare almeno le esigenze primarie, di sentirsi utili a se stessi ed alla propria famiglia.

Sebbene questi positivi segnali, il mercato del lavoro appare ancora alquanto immobile, bloccato, stagnante e non in grado di soddisfare le richieste che, quotidianamente, diventano sempre più pressanti.

Le spese delle famiglie sono notevolmente diminuite non solo per quanto riguarda l’acquisto di capi di abbigliamento, dell’uso dell’automobile, delle visite mediche, ma anche per l’acquisto di prodotti alimentari. Basti pensare che anche le misure adottate inerenti al dimensionamento dellestrutture ospedaliere ha fatto sì che l’insorgere di una malattia diventi, per molte famiglie, un qualcosa particolarmente difficile da affrontare. I risparmi si sono ormai esauriti, quindi, anche il pagamento delle bollette, delle visite mediche, dei ticket sanitari, ecc., rappresenta un ostacolo non facile da superare.

Il rapporto Censis muove, comunque, da una critica alquanto importante alla attuale nostra classe politica. Nel Rapporto 2013 si legge che, soprattutto nell’ultimo periodo, sono emerse alcune criticità, quali: la rissosità, l’ostinazione, l’incompetenza, la superficialità di una classe politica incapace di affrontare e risolvere, o quanto meno attenuare, i tanti problemi che stanno spingendo l’intera nazione in un abisso da cui difficilmente potrà fare ritorno, se non a costo di enormi sacrifici a carico dei soliti cittadini.

Nel rapporto si legge, inoltre, che i nostri politici, per mantenere salde e inamovibili le loro poltrone, utilizzano e si avvalgono, da tempo, delle ormai evidenti difficoltà economiche in cui versa la maggior parte delle famiglie italiane; classe politica che non perde occasione per cercare di dimostrare, con persuasive e convincenti argomentazioni, la propria solerzia, la propria diligenza e il proprio impegno per dare, finalmente, solidità e garanzie all’intero sistema economico e finanziario italiano e, di conseguenza, delle famiglie, pur sapendo che tutte le manovre che intendono adottare non apporteranno mai nessun cambiamento concreto, valido e sostanziale alla odierna situazione, ma serviranno solo a perpetrare il noto enunciato latino “Mutatismutandi”, ovvero cambiare tanto per cambiare, tanto la sostanza delle cose resterà sempre la stessa.

Si tratta di una instabilità politica divenuta ormai cronica; infatti, corruzione, sprechi, illeciti, malaffare, dilagano sempre di più. Infatti sono proprio questi gli elementi sostanziali che continuano a creare disavanzo del debito pubblico, disoccupazione e conseguente calo dei consumi.

Raffaele Squitieri, Presidente della Corte dei Conti, nel suo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2015 ha affermato che “Crisi economica e corruzione procedono di pari passo, in un circolo vizioso, nel quale l’una è causa ed effetto dell’altra”. Ed afferma ancora che la crescita, di cui tanto si parla, “è continuamente minacciata dalla crescente corruzione e dalla illegalità”, e che “il pericolo più serio per la collettività è una rassegnata assuefazione al malaffare, visto come un male senza rimedi”. Ecco perché, rivolgendosi a Sergio Mattarella, neoeletto Presidente della Repubblica, precisa ulteriormente: Non possiamo permetterci che questo accada”.

Certamente siamo tutti d’accordo con le incisive, mordaci ed efficaci parole del Presidente Squitieri, ma siamo ugualmente convinti che se si vuole, di fatto, combattere la corruzione, il malaffare, gli illeciti, gli sprechi, gli sperperi, le appropriazioni indebite, in una parola, la “Criminalità economica”, è necessario e vincolante rendere la giustizia più efficiente e veloce e, soprattutto, avere la certezza della pena.

Ma occorre anche dare ai giovani, oltre alla certezza di un lavoro e alla fiducia nella giustizia, la consapevolezza che ognuno di noi è in grado di cambiare qualche cosa, che ognuno di noi può e deve contribuire a cambiare le cose, a migliorare il nostro Paese, senza cullarsi nell’attesa che debbano farlo sempre e solo gli altri. Puntare sempre il dito troppo in altro, ci porta a giustificare ogni nostro comportamento, anche quelli sbagliati.

Ora, perché i giovani, come dice il Presidente“Non vedano il male come qualche cosa di inevitabile, o, peggio, non si abituino al male, abbiamo bisogno di esempi di vita positivi, abbiamo bisogno di veri preti, di veri maestri, di veri genitori, in una parola, di veri educatori!”.

Spesso si sente dire:“Ci vorrebbe una rivoluzione!”, è vero, e ne siamo anche convinti tutti, ma si tratta, però, di una rivoluzione culturale ed educativa; di una rivoluzione che scardini dagli animi delle persone la sfiducia e la rassegnazione;di una rivoluzione che porti speranza, consapevolezza del bene comune, voglia di lottare per la costruzione di una comunità migliore!

E’, certamente, facile e comodo, ma assolutamente inutile, puntare sempre il dito solo contro i nostri politici; non perché siano improvvisamente divenuti fulgidi esempi di onestà e rettitudine, ma perché questo serve solo a “lavarci la coscienza”. Spesso sentiamo dire: “Ormai, non ci si può far niente, quindi tanto vale …..!”, oppure “E’ tutto un mangia mangia, quindi …. mangiamo anche noi quello che possiamo!”.

E’ anche vero che il pesce puzza dalla testa, ma parlare solo di questo aspetto, non facciamo altro che alimentare il disinteresse per la “Cosa pubblica”. Dovremmo ricordare sempre, invece, che ilmale generalizzato non è affatto un male minore.Setutti, o quanto meno in tanti,agiscono e si comportano male, questo non significa che sono autorizzato a farlo anch’io!

Spesso ci lamentiamo per l’evasione fiscale, ma, a volte, siamo anche noi i primi a preferire uno sconto al posto della ricevuta fiscale. Altre volte ancora, per far valere un nostro diritto, cerchiamo la raccomandazione, la conoscenza, non siamo disposti a lottare per averlo perché ci spetta.

È anche vero che in taluni uffici pubblici ci sono delle persone che non fanno bene il loro dovere, che non controllano, che non comunicano, ecc…ecc……, ma è altrettanto vero chein talune circostanzela persona scorretta è proprio il singolo cittadino.

Certamente, molto dipende dall’educazione e dall’esempio che abbiamo ricevuto nelle nostre famiglie, anche perché troppo spesso preferiamo non ricordare l’espressione evangelica “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, cosa che, invece, dovremmo assumere come nostra“Regola di vita!”.

Ebbene, sono anche queste quelle famose “Gocce che fanno il mare!”.

 

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