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Anche quest'anno in occasione della Giornata del Ricordo, ho inteso ricordarla  leggendo un libro. Il testo è scritto da Gaetano La Perna, «Pola - Istria - Fiume, 1943-1945. La lenta agonia di un lembo d'Italia», pubblicato dalla casa editrice Mursia nel 1993 (478 pagine , comprese le appendici)

Il libro è un contributo storico, costruito con competenza e determinazione, ben documentato con precise descrizioni, con riferimenti a fonti precise e serie. Non vorrei esagerare, ma credo di aver letto il libro più completo su questo argomento. Anche se non è facile uno studio completo ed esaustivo sul groviglio di quegli avvenimenti storici. L'autore ne è consapevole, infatti scrive: «l'elenco delle foibe istriane fin qui nominate, nelle quali furono fatti precipitare i corpi martoriati di tanti infelici, non è certamente completo [..] Studi e ricerche per giungere alla compilazione di elenchi ufficiali, completi e attendibili, delle foibe, delle cave, delle fosse comuni usate nei vari periodi dagli slavi come tombe, non risulta che siano mai stati fatti in modo sistematico [...]a tutt'oggi - scrive La Perna - non sono noti – almeno a carattere ufficiale – elenchi nominativi completi di tutte le vittime del genocidio slavo […] le ragioni sono diverse e possono essere fatte risalire, oltre che alle difficoltà insite in un tale tipo di ricerca, a svariate cause spesso legate alla travagliata storia di quelle contrade, alle vicende belliche e postbelliche, alle soluzioni politiche che hanno coinvolto in pratica l'intero territorio in questione».

Peraltro per lo studioso non facile un censimento completo delle vittime e i luoghi del loro martirio. Si incontrano diverse difficoltà, spesso sono andati dispersi le documentazione, i verbali delle commissioni giudiziarie e poi sono andate distrutte le sedi giudiziarie. Di facile reperibilità sono le fonti che appartengono alla pubblicistica fascista del tempo, che, per ovvie ragioni di propaganda, sfruttò gli eccidi compiuti dai comunisti slavi. Naturalmente questi documenti non sempre possono essere considerati del tutto attendibili e vanno presi perciò con la dovuta cautela. La stessa cosa si può scrivere, per quanto riguarda la pubblicistica comunista, soprattutto quella slava. «gli slavi hanno fatto sparire con cura e in modo sistematico ogni traccia che avrebbe potuto, anche solo indirettamente, suffragare l'infamante accusa a loro carico di genocidio degli italiani».

Del genocidio degli italiani nella Venezia Giulia e nella Dalmazia sopratutto dopo l'esodo, «si sono occupati gli esuli giuliani e le loro associazioni che hanno raccolto, in modo lodevole ma spesso occasionale e frammentario, testimonianze, memorie, ricordi, reperti fotografici, dati anagrafici delle persone uccise o scomparse, curando anche, in tempi diversi, la pubblicazione di monografie e di elenchi, non completi, di vittime e di dispersi». La Perna, lui stesso costretto all'esilio, evidenzia che queste fonti hanno il grosso inconveniente di essere sparse in una serie di archivi, poco noti, ad associazioni, unioni e famiglie degli esuli.

Tuttavia nel testo troviamo diverse citazioni di queste fonti, a cominciare dagli studi di Paolo De Franceschi, Gianni Bartoli, padre Falminio Rocchi, Antonio Pitamiz e tanti altri.

Comunque sia la ricerca del professore La Perna, rimane molto valida, perché lascia parlare i fatti, le testimonianze, i documenti e restituisce alla storia quella verità che nessun stravolgimento politico-ideologico potrà mai condizionare. E' un lavoro  serio, documentato, scritto con onestà e obiettività. Almeno per quanto riguarda il territorio di Pola, Fiume e l'Istria.

Il testo riesce a descrivere fatti che hanno visto coinvolti centinaia, migliaia di uomini e donne, a volte con meticolosa precisione. Possiamo ridurre a quattro gruppi, movimenti politici, che si contendono il territorio istriano a partire dall'armistizio dell'8 settembre del 43 fino al 1945. I primi due protagonisti, sono italiani: i fascisti con il rinnovato Partito fascista e i comunisti del PCI, che entrambi, bene o male lottano per mantenere l'italianità del territorio; gli altri due sono stranieri: i tedeschi nazisti e i comunisti sloveni e croati, entrambi mirano all'occupazione del territorio e quindi ad inglobarlo nel loro progetto espansionistico.

In mezzo a questa lotta spietata, si trova la popolazione per la maggior parte italiana, che deve subire ogni tipo di sopruso.

Con la caduta di Mussolini e del Fascismo, in poche ore il regime scompare e nessuno tenta di fare qualcosa per salvarlo. Con l'armistizio dell'8 settembre, tutti pensano che la guerra sia finita. Scompare ogni forma di autorità, l'incertezza del domani induce molti a dare l'assalto ai magazzini di generi alimentari. Furono prese di mira le caserme, i depositi e gli accantonamenti militari, gli uffici statali ormai abbandonati, dei quali vennero asportati mobili e suppellettili di ogni genere. I saccheggi scrive La Perna iniziarono subito il 9 settembre e continuarono nei giorni successivi. Naturalmente il professore fa riferimento ai centri dell'Istria, in particolare Pola e Fiume.

«Abbandonate le caserme e gli insediamenti militari, marinai e soldati iniziarono la frenetica ricerca di un abito civile; molti si misero in viaggio verso Trieste con mezzi di fortuna ed anche a piedi». Furono circa trentamila i militari italiani che rimasti a Pola, una volta occupata dai nazisti, «ai militari italiani, dopo il disarmo, i nazisti posero, in alternativa, tre condizioni: combattere al loro fianco, collaborare come lavoratori, farsi internare in Germania». La maggior parte scelse l'internamento e subito furono fatti partire.

Le truppe tedesche del Reich avevano un progetto ambizioso sui territori italiani dell'Istria, della Venezia Giulia, la Dalmazia. Miravano ad inglobarli  per fare la grande Germania. Hanno iniziato subito a trattare gli italiani come sudditi, in mezzo ad altri popoli. Anzi gli italiani, più di altri, subiscono limitazioni, condizionamenti, restrizioni. Diventano minoranze, c'è un'atmosfera di aperta ostilità verso tutto quanto è  italiano. Si arrivò a distruggere i monumenti patriottici come quello di Nazario Sauro.

A capo del progetto nazista c'era il commissario austriaco Friedrich Alois Rainer, che ha avuto questo incarico direttamente da Hitler  per tedeschizzare quei territori. La Perna descrive minuziosamente il disegno nazista, conosciuto come il «Nuovo Ordine», dove in previsione doveva risorgere la vecchia Austria nei territori della tramontata monarchia asburgica. Ma alla Venezia Giulia e alla Dalmazia guardavano con chiare mire espansionistiche anche i miliziani comunisti slavi di Tito, soprattutto quelli sloveni e croati.

La Perna nota nel libro che la tendenza all'espansione territoriale ai danni dell'Italia «fu una costante comune a tutti i movimenti politici e militari che negli anni del secondo conflitto mondiale operarono dentro e fuori la vicina Jugoslavia: agli ustascia di Pavelic, ai 'domobranci' sloveni e ai cetnici 'legali' che collaborarono tutti con i nazisti; ai partigiani comunisti di Tito, ai cetnici di Draza Mihajlovic[...] Di là dalle ideologie politiche che li separavano e dall'odio ancestrale che divide da sempre i serbi dai croati, tutti avanzarono rivendicazioni territoriali. Sotto qualunque bandiera, su tutto e su tutti, fu il nazionalismo panslavista che ebbe il sopravvento e che costrinse lo stesso PCJ, al compromesso – pertanto secondo La Perna – in qualunque modo la guerra si fosse conclusa, i confini orientali d'Italia erano già allora molto minacciati e, forse, anche irrimediabilmente compromessi».

Con queste premesse non poteva che finire male per quelle terre e soprattutto per la maggioranza degli italiani che vi abitava.

L'amministrazione Rainer si scontrava anche con i fascisti, che spesso venivano umiliati dalle sue prese di posizione. Ormai i fascisti, scrive La Perna dovevano abituarsi alll'idea che la Venezia Giulia non apparteneva né alla Repubblica Sociale Italiana, né all'Italia. Rainer lavorava nella prospettiva di una definitiva annessione del «Litorale Adriatico» al Grande Reich tedesco.

Nel IV capitolo La Perna si occupa dell'antifascismo in Istria e a Fiume e la penetrazione slava in questi territori.

Il testo di La Perna fa riferimento alla storia passata di questi territori, cita il Trattato di pace di Versailles, che ha scontentato i vari nazionalismi, in particolare quello italiano e slavo. Molto spazio viene riservato al nascente Partito comunista d'Italia, in particolare la federazione di Trieste, che con gravi crisi di coscienze, si schierò apertamente a favore delle rivendicazioni nazionalistiche delle minoranze slave. Infatti La Perna, racconta come diversi esponenti comunisti italiani avversavano le tesi slave, contrapponendo le complesse e complicate esigenze della lotta di classe, l'autodeterminazione dei popoli a quelle nazionali e sociali.

Il giudizio sulle altre forze politiche è negativo, i partiti tradizionali sembravano incerti, indecisi sulle questioni più importanti. Pertanto, «ampi spazi politici vennero in tal modo lasciati ai gruppi nazionalistici nei quali il nascente fascismo troverà fertile terreno per svilupparsi e per costruire in breve tempo il suo successo».

Il fascismo si oppose con fermezza al bolscevismo comunista e alle spinte espansionistiche del revanscismo slavo. Ricevendo il consenso di larghi strati della piccola e media borghesia, dei gruppi patriottici e di tutti quelli che intendevano difendere l'identità nazionale.

La Perna non nasconde i difficili rapporti tra le istituzioni fasciste con le minoranze slave e con gli antifascisti. «L'opposizione ideologica al regime fu sempre e dovunque duramente repressa, da qualunque parte provenisse, senza nessuna discriminante. Nessuno sfuggì a questa regola e tutti gli antifascisti istriani furono indistintamente perseguitati, non costituendo differenza alcuna la loro appartenenza all'uno o all'altro gruppo etnico, ad una o ad altra classe sociale, ad uno o ad altro partito, movimento o associazione. La repressione fu dura e indiscriminata, sorretta dalla logica del 'chi non è con noi, è contro di noi' comune a tutti i regimi dittatoriali nei quali nessun'altra ideologia al di fuori di quella dominante ha diritto di cittadinanza».

Lo scoppio della II guerra mondiale e soprattutto con le prime sconfitte dell'Asse, ha risvegliato gli attivisti comunisti. Il libro descrive tutti i passaggi della scesa in campo delle cellule comuniste e dei vari rivoluzionari che si organizzarono per le prossime battaglie. L'autore fa riferimento a diverse fonti più o meno attendibili. Elenca gruppi e sopratutto una marea di nomi, soprannomi, dei capi partigiani che a poco a poco si riorganizzano. «L'inizio del movimento di penetrazione verso Fiume e l'Istria interna – per La Perna – da parte di agitatori e attivisti comunisti, provenienti dalla Croazia, può essere fatto risalire alla fine del 1941[...]».

A questo proposito La Perna avverte che le autorità istituzionali, gli esponenti fascisti, la stampa di regime, non aveva la percezione di quello che stava maturando in quei territori. «Il Corriere Istriano», in un articolo del 17 settembre del '43, peccava di superficialità, di leggerezza e tanta parzialità, nell'affrontare l'argomento del ribellismo slavo. Nell'editoriale si concludeva ottimisticamente che era questione di tempo, poi tutto sarebbe ritornato alla normalità. Non avevano capito che quelle azioni andavano inserite in un disegno di vasta portata, diretto dalle centrali operative del PCJ. L'azione di guerriglia dei miliziani comunisti, secondo La Perna, «veniva svolta già da parecchi mesi dagli attivisti e dai propagandisti slavi, sfuggì per lo più all'attenzione degli uffici responsabili dell'ordine e della sicurezza o fu presa in considerazione assai tardivamente […] venne del tutto sottovalutata la sottile azione politica e propagandistica condotta dal clero di origine slava […]». Inoltre, continua La Perna, ben pochi, furono quelli che dovevano controllare la provincia istriana, ad avere «le idee chiare sulla consistenza e sulla portata di quel movimento che, in costante e progressiva crescita fin dai primi mesi del '43, sfocerà subito dopo l'8 settembre nel fenomeno del ribellismo armato».

Senza dubbio furono gravi le disattenzioni su quello che stava accadendo, sul deterioramento delle istituzioni statuali, l'armistizio non basta di certo a giustificare il crollo improvviso. «[...] le responsabilità di chi avrebbe dovuto interpretare, comprendere e provvedere e invece nulla fece sono enormi e non si possono che sommare a quelle derivanti dai tanti errori di giudizio, di valutazione, d'inefficienza, di miopia d'insensibilità politica compiuti dall'amministrazione italiana fin dall'inizio dell'attività di governo in quelle terre dopo la tanto attesa e sospirata redenzione».

Inizia la cosiddetta guerra di popolo del maresciallo Tito contro l'occupazione nazifascista. Una guerra che diventa una occasione irripetibile per la riaffermazione di quelle rivendicazioni, da sempre sostenute a gran voce dal nazionalismo slavo, sulle terre Giulie, sulla Dalmazia e sulle isole della costa orientale dell'Adriatico.

Tito è stato abile comandante, è riuscito a far accantonare vecchi rancori e odi aviti tra croati, serbi, macedoni e montenegrini. Il maresciallo ha offerto a questi popoli slavi, attraverso la lotta armata, il riscatto economico, politico e sociale. E superando tutte le differenze ideologiche, attraverso il Partito Comunista della Jugoslavia (PCJ), si è saputo presentare come l'unico coagulo unificante, imponendo un'unica guida militare e politica del movimento nazionale e popolare di liberazione.

Naturalmente oltre ai compromessi, il PCJ di Tito per far trionfare la sua linea politica revanscista, ha eliminato tutti i possibili oppositori interni con lucidità e freddezza tutta balcanica. La strategia di conquista dei partiti comunisti croati e sloveni era molto simile. Entrare subito in tutti i territori rivendicati con i propri attivisti politicamente preparati, e col pretesto della comune lotta al nazifascismo, bisognava avvicinare e poi organizzare tutti gli antifascisti, in particolare il Pci. Inoltre, occorreva al più presto, assumere «il diretto controllo, non solo per poter avere la direzione della lotta armata, ma soprattutto per poter imporre la soluzione finale del problema nazionale che prevedeva l'annessione alla futura Jugoslavia di tutti i territori rivendicati».

Era arrivato il momento, la propaganda martellante e capillare, lo si ripeteva in continuazione: «per le genti dell'Istria di origine slava stava arrivando il grande momento della vendetta, della rivincita, del riscatto nazionale e sociale; i padroni non sarebbero stati più gli italiani, fascisti e sfruttatori […] la giustizia popolare sarebbe stata inflessibile con tutti i traditori e i nemici del popolo[...]».

Il testo di La Perna dà molto spazio ai contrasti dei comunisti italiani, con quelli slavi, vengono pubblicate lettere, interventi di singoli esponenti e di gruppo. Si fanno riferimenti a diversi documenti. A questo proposito un quadro abbastanza dettagliato dello stato di relazioni tra la federazione regionale giuliana del PCI, di cui era segretario Luigi Frausin, e il PCS lo si può trovare in un lungo rapporto steso nel gennaio del 1944 da Giordano Pratolongo, «Oreste» per la direzione del PCI.

Nella relazione i comunisti italiani elencano i motivi di divergenze nei riguardi dei comunisti slavi. E' presente sempre l'obiettivo categorico nazionalista dei PC slavi. Dove si aggiunge anche il futuro di Trieste e della Venezia Giulia.

Per far passare il progetto revanscista, i comunisti slavi non si fermano davanti a nulla, eliminano anche i compagni italiani che non si piegano alla loro politica come l'uccisione di Giovanni Zol della brigata triestina. Peraltro secondo La Perna, molti partigiani italiani caddero nelle mani naziste, dopo essere stati traditi dai miliziani slavi. Per La Perna questo non deve stupire, si tratta della doppiezza tipicamente balcanica

Comunque sia i comunisti italiani erano sempre propensi che tutte le questioni territoriali si dovevano risolvere soltanto alla fine del conflitto, solo dopo essersi liberati dal nazifascismo. Tuttavia nella primavera del '44 ci fu la svolta filo slava della direzione triestina del PC, e La Perna, racconta quello che è successo, si dà conto di una lettera riservatissima, che doveva essere diffusa a tutte le federazioni, del torinese Vincenzo Bianco, detto «Vittorio», che era il responsabile del PCI dell'Alta Italia, dove si sosteneva i progetti espansionistici dei croati e sloveni, inoltre si sottolineava la necessità di porre subito tutte le formazioni partigiane italiane sotto il comando slavo e si accettava l'annessione di Trieste e del Litorale alla Slovenia come un inevitabile fatto storico.

In questo contesto La Perna si occupa anche della posizione della Chiesa cattolica presente nel territorio. Mi ha sorpreso in particolare, il comportamento dei sacerdoti slavi, che appoggiavano apertamente le forze comuniste slave, addirittura sono arrivati ad odiare i confratelli italiani. Questi sacerdoti erano aperti sostenitori delle tesi annessionistiche slovene e croate.

La Perna nel libro sostiene che i seminari giuliani erano diventati «delle vere e proprie fucine antitaliane e centri motori del movimento revanscista e nazionalista panslavo». La Perna fa un elenco di questi sacerdoti, seguendo delle relazioni militari e di polizia sul clero slavo, che aveva preso esplicita posizione contro l'italianità.

Scrive a questo proposito La Perna, «fu attraverso le canoniche e le sagrestie delle parrocchie rette da sacerdoti di origine slava che nei primi anni Venti passò gran parte dell'emigrazione diretta soprattutto verso la Croazia; e fu con l'aiuto di questi religiosi che, dopo l'occupazione italo-tedesca della Jugoslavia nel '41, fu favorito il ritorno e il reinserimento in Istria di molti di quegli emigrati, parecchi dei quali erano veri e propri agenti del PC sloveno e croato».

Il clero slavo secondo La Perna, dopo qualche perplessità iniziale, per via dell'ideologia atea, solidarizzò con il MPL diretto dai comunisti, anzi spesso si trovano religiosi all'interno dei diversi Comitati di Liberazione e nei fronti unici popolari. Alcuni di questi hanno perso la vita negli scontri con i nazisti. Questa alleanza singolare tra clero slavo e marxisti sciovinisti, continua ancora oggi a sollevare non poche perplessità e interrogativi, destinati forse a restare senza risposta, fra gli studiosi di quelle vicende storiche. «In realtà, non è per nulla agevole – scrive La Perna - comprendere quali condizioni vennero allora maturando e quali considerazioni prevalsero tra coloro che resero possibile la convivenza politica dell'ideologia cristiana e cattolica con quella marxista-leninista dei comunisti, decisamente materialista ed atea».

Inoltre altre considerazioni alquanto inquietanti sono che questo clero, tutto sommato era sottoposto ai vescovi diocesani e alle gerarchie della Curia romana.  Infine ancora più inquietante e del tutto inspiegabile è quell'«atteggiamento di avversione profonda nutrito da questi sacerdoti verso altri religiosi e laici cattolici, quelli italiani, che pur erano nati ed erano vissuti in quelle stesse terre abitate dalle genti slave. E la cosa – insiste La Perna - appare ancor più difficile da comprendere se si considera che di tale ostilità, di tale malanimo assai somigliante all'odio, vennero gratificati senza eccezione tutti gli italiani, compresi quelli che con il fascismo nulla ebbero da spartire. Come annunziatori del messaggio evangelico questi religiosi furono indubbiamente testimoni assai poco credibili».

Pertanto dopo queste considerazioni non è difficile comprendere l'odio razziale dei miliziani comunisti che portò a quel tipo di massacri di uomini e donne nelle foibe istriane.

Il V capitolo si occupa delle conseguenze dell'armistizio. Il libro evidenzia nel gruppo nazionale italiano uno stato di crisi e di abbandono. Accanto ai timori, alle incertezze e alle preoccupazioni più immediatamente legate alla guerra, andò diffondendosi tra gli italiani della regione una precisa sensazione di isolamento accompagnata da un profondo senso di smarrimento, ma anche di impotenza. In pratica gli italiani si sentirono abbandonati.

La Perna descrive con precisione la strategia delle varie occupazioni del territorio ad opera delle unità partigiane croate, rinforzate da elementi locali e il conseguente insediamento «in nome del popolo» dei poteri civili che avvennero in una situazione di assoluto vuoto di potere e di istituzioni. Del resto non c'era più nessuna autorità costituita, nessun potere civile, militare o politico che poteva fare resistenza. C'era una situazione di totale sbandamento, militari che scappavano, che abbandonavano i reparti, ovunque regnava il disordine e la confusione. In tempi brevi, senza ricorrere all'uso delle armi, senza dover vincere nessuna resistenza, i partigiani comunisti slavi occupano tutto quello che c'era di occupare e si impossessano di armi ed equipaggiamenti di ogni tipo.

Ecco perchè per La Perna non si può assolutamente parlare di nessuna insurrezione, di ribellione collettiva, di sommossa popolare, come ha poi sostenuto la storiografia slava di orientamento comunista. Certo in quei momenti l'unico popolo che partecipò fu quello appartenente al gruppo etnico slavo. «La popolazione italiana restò completamente estranea a tutto questo e se partecipò in qualche modo a quegli avvenimenti fu piuttosto come spettatrice attonita e sbigottita e, poco dopo, soprattutto vittima della nuova situazione venutasi a creare».

Sempre La Perna sottolinea come gli slavi dell'Istria, abilmente manipolati dai tanti agitatori, istigati dalla propaganda, si diedero al libero sfogo agli antichi odi ed alle passioni lungamente represse contro la popolazione italiana. In nome della «giustizia popolare» furono compiute numerose vendette personali, regolati vecchi torti subiti. Ovunque si svolse lo stesso cerimoniale: «dopo essersi accertati che la zona fosse del tutto libera da insidie, a bordo di corriere e di autovetture requisite e di automezzi già in dotazione all'esercito italiano, i miliziani slavi facevano il loro ingresso nelle località, agitando bandiere dai colori croati, a volte cantando inni e qualche volta sparando in aria. Armati fino ai denti, essi prendevano immediato possesso del luogo 'in nome del popolo', occupando tutti gli edifici pubblici e militari esistenti: dal piccolo ufficio postale alla residenza municipale, dalla caserma dei carabinieri a quella della guardia di finanza[...]la popolazione veniva invitata in modo molto spiccio a partecipare all'immancabile comizio durante il quale prendevano la parola il responsabile militare e il commissario politico. Nei discorsi si celebrava la 'grande vittoria' riportata, si esaltavano il Movimento popolare di liberazione, le forze partigiane, i partiti comunisti della Jugoslavia e della Croazia, l'Unione Sovietica, l'Armata Rossa e gli Alleati».

In quei giorni l'Istria fu sommersa da una marea di tricolori croati, rispetto ai quali la presenza delle bandiere rosse fu ben poca cosa. I tricolori italiani, furono fatti ritirare in tutta fretta.

Subito dopo l'8 settembre iniziarono i primi arresti e le prime esecuzioni. «Tutta la penisola occupata dagli slavi visse in quel periodo giornate terribili. Subito dopo l'insediamento delle nuove autorità iniziarono infatti le operazioni di polizia con fermi, perquisizioni, confische, interrogatori, arresti che si susseguirono, quasi senza soluzione di continuità, fino ai primi giorni di ottobre, quando sopraggiunsero in forze i tedeschi. Furono presi di mira gerarchi e militanti fascisti, podestà, segretari e messi comunali, levatrici e uffici postali, veterinari e medici condotti, ufficiali e sotto ufficiali delle diverse forze armate[...]». La Perna ci tiene a precisare che «gli arresti non avvennero mai con maniere brutali; anzi, con sottile perfidia, il più delle volte vennero fatti passare come misure provvisorie, al fine di effettuare normali accertamenti, o preventive, volte cioè a tutelare le stesse persone arrestate da possibili azioni violente di carattere privato ai loro danni».

Le persone arrestate vennero concentrate tutte nelle stesse zone, rinchiuse in delle celle sotterranee del castello cinquecentesco di Pisino. Altre ad Albona in una caserma isolata. Quasi sempre ai familiari fu tenuto nascosto il luogo di detenzione dei deportati. In questi centri di raccolta, commissari e ufficiali croati, coadiuvati da elementi locali di origine slava, accusavano questi poveretti di delitti assurdi e cavillosi erano i capi d'imputazione, furono sottoposti a lunghi ed estenuanti interrogatori, infliggendo loro umiliazioni, angherie e maltrattamenti di ogni genere. Nella stragrande maggioranza gli inquisiti non avevano commesso nulla di cui essere incolpati. L'unica colpa era quella di appartenere al gruppo nazionale italiano e di sentirsi italiani per lingua, per cultura e per tradizioni.

Davanti ai «tribunali del popolo», agli accusati non fu concessa alcuna garanzia a tutela dei propri diritti per cui nessun prigioniero ebbe la possibilità di interpellare neppure un avvocato d'ufficio. Nell'ultima decade di settembre il tribunale del popolo lavorò a pieno ritmo e l'attività dei giudici slavi fu intensissima con un altissimo numero di condanne.

La Perna racconta il supplizio dei condannati, le barbare modalità di uccisione dei condannati, ormai tante volte descritti dagli studiosi. L'altra sera abbiamo visto tutti con la fiction «Red Land» (Rosso Istria), mandata in onda da Rai 3, come venivano uccisi gli uomini e le donne, finalmente dopo settant'anni anche le foibe arrivano al grande pubblico televisivo. La Perna nel libro fa i nomi degli aguzzini tristemente famosi in tutta l'Istria per l'eliminazione fisica degli italiani, tra di essi non possono essere dimenticati Ivan Motika, il principale giudice di Pisino. Beletich, detto «drago», Tonca Surian, Ciro Raner. Giusto Massarotto, i fratelli Stemberga, Giovanni Colich, detto «il gobo», Rade Poropat, Gioacchino Rakovac e tanti altri. Tutti o quasi nomi che già avevo avuto modo di conoscere negli anni '90, quando ancora erano poche le pubblicazioni sulle foibe.

Il testo di la Perna da l'elenco delle varie foibe e il recupero delle salme più o meno identificate. Il numero delle vittime non è stato mai possibile averlo con una certa precisione. La Perna, per quanto riguarda l'Istria, e soltanto il periodo del dopo armistizio, il mese del terrore, tenendo conto del recupero dalle foibe, conta complessivamente 750 vittime. Poi ci sono quelle degli altri territori, del dopo '45. Gli storici orientativamente contano dalle 10 alle 20mila vittime. Il testo di La Perna, pubblica delle appendici, dove troviamo elenchi delle foibe e soprattutto nella 3a  appendice si pubblica i nomi, in ordine alfabetico, del genocidio degli italiani ai confini orientali dal settembre 1943 al maggio 1945 e oltre. Si tratta di nominativi di militari civili uccisi o scomparsi. Un elenco che parte da pagina 357 fino a pagina 451. L'elenco è un minuzioso e paziente lavoro che dura da anni e che non può essere considerato definitivo. In tutto sono 6.335. 2.493 appartengono a militari, a pagina 369, c'è il nome di Bruno Domenico, carabiniere a Rovigno (Pola), ucciso il 16 settembre 1943, originario di Mandanici (Me); si potrebbero fare altri nomi, come il vicebrigadiere della Guardia di Finanza,Tommaso La Spada, ucciso a Trieste nel maggio del '45, originario di S. Filippo del Mela (Me); i civili sono in tutto 3.842, compresi 39 religiosi.

Chi poteva salvare gli italiani in quel momento storico? Si chiede La Perna. In quel momento c'erano i tedeschi e i fascisti. E qui paradossalmente l'autore del libro fa intendere che la grande paura suscitata dall'avanzare delle idee rivoluzionarie, ispirate ai soviet della Russia, gran parte della popolazione italiana si convinse che il risorto fascismo potesse costituire un valido rimedio contro i disordini, scioperi e violenze di quei giorni. I fascisti repubblicani furono gli unici che dichiararono apertamente di voler combattere in difesa dell'identità di quelle terre. Anche se poi vedremo tutto questo non portò nessun giovamento agli italiani e alla loro causa, anzi finì per comprometterla ulteriormente.

Questa era la realtà in quei territori che durò fino al '45 e per La Perna, la reazione degli italiani non fu adeguata, anche perchè mancò una valida guida ideale ed un concreto aiuto materiale nella difesa dei loro giusti diritti etnici e nazionali. Su questi aspetti probabilmente non si è riflettuto abbastanza.     

 

 

Ci avevano detto che a Roma nel 1870 il Papa-Re Pio IX, prima di lasciarsi invadere dall'esercito italiano aveva ordinato, di fare soltanto una difesa simbolica. Invece non è proprio così, l'ho “scoperto”, leggendo il documentato volume del giornalista Antonio Di Pierro, «L'ultimo giorno del Papa Re. 20 settembre 1870: la breccia di Porta Pia», Mondadori (2007). Altro che difesa simbolica, quel martedì mattino del 20 settembre  1870 a Roma, si è combattuta una vera e propria battaglia tra i pontifici e l'esercito regio di Vittorio Emanuele.

Vediamo di entrare dentro al testo del giornalista romano. Roma è circondata da cinque divisioni militari, formata da 50 mila soldati italiani. Mentre la città del Papa Pio IX difesa da 11 mila uomini in armi, pronta a resistere. Ed effettivamente hanno resistito per ben 5 ore, dalle 5,05 fino alle 10,10, quando si è aperta la breccia a Porta Pia.

Il libro nonostante le 326 pagine, note comprese, fa una cronaca dettagliata, ora per ora e in presa diretta, della giornata cruciale per i destini dell'Italia e della Chiesa cattolica. E per seguire questa cronaca il testo offre, sia nella prima che nell'ultima pagina una pianta di Roma, dove si possono individuare i movimenti delle truppe dell'esercito italiano. Inoltre alla fine del libro c'è una guida ai «principali luoghi della Breccia», ma per seguire i momenti, i vari spostamenti delle truppe; però serviva una cartina topografica della città e forse anche una buona dose di cultura militare.

Il testo di Di Pierro, è scritto con una coniugazione dei verbi al presente, è come se chi scrive è testimone diretto di quanto sta accadendo. «E questo contribuisce a ricostruire meglio il mosaico degli avvenimenti anche minuti, lo stato d'animo degli assediati e degli assedianti, il travaglio del papa attaccato così duramente da un re cattolico (Vittorio Emanuele II), il disincanto dei romani, il terrore della nobiltà nera chiusa nei suoi lussuosi palazzi, la gioia dei patrioti che vedevano coronare il sogno vagheggiato da Cavour, da Garibaldi, da Mazzini e dai tanti protagonisti del Risorgimento italiano».

Tuttavia anche per scrivere questo libro, il metodo è sempre lo stesso, utilizzare le fonti negli archivi e nelle biblioteche e così pare che abbia fatto Di Pierro, vista la bibliografia finale pubblicata.

La conquista di Roma, che stanno facendo le truppe italiane, è una strana guerra non dichiarata, un esito che sembrerebbe scontato, viste le forze in campo. La prima ed unica guerra che finora l'ex Regno di Sardegna ha combattuto è stata quattro anni fa a Custoza e l'ha persa pesantemente. Tra l'altro negli anni precedenti, l'esercito piemontese non aveva dato prove esaltanti.

Ce la farà adesso contro il debole Stato Pontificio a conquistare Roma? Pare di sì. Secondo il ministro Visconti Venosta, probabilmente nessuna potenza sarebbe scesa in campo per difendere il papa. Tuttavia come scrive Di Pierro questa guerra, «doveva essere morbida, non doveva dare occasioni alla comunità cattolica – più di quante non ne offra di per sé un attacco armato al capo supremo della Chiesa – di montare uno scandalo internazionale». Ecco perché Raffaele Cadorna, il comandante generale, quello che non ha esitato di bombardare Palermo nella rivolta del “Settemezzo”, era contrario alla partecipazione alla guerra della “testa calda” di Nino Bixio, nel frattempo diventato generale dell'esercito sabaudo.

Tutto è pronto per la battaglia, l'esercito del Re Vittorio è schierato per l'attacco, tutte le porte di Roma, da quella del Popolo a San Giovanni è ormai interamente presidiato dall'esercito italiano. Occupate anche villa Borghese e villa Albani. L'artiglieria è pronta. I cannoni sono puntati contro Roma in attesa dell'ordine dell'attacco. Ma paradossalmente «i primi a far parlare le armi sono i pontifici. E la prima vittima della giornata è un artigliere italiano, il caporale Michele Plazzoli». Peraltro dalla “cronaca”, del giorno prima si apprende che nei pressi di porta Maggiore, c'è stata battaglia, con morti e feriti, addirittura i pontifici hanno fatto anche un prigioniero, il fante Giuseppe Spagnolo.

Di Pierro riporta la notizia di un altro prigioniero, un giovane ufficiale dell'esercito sabaudo, che il Papa in persona ha ordinato di liberare, motivando la liberazione con delle curiose parole: «Per isbaglio quel giovane ufficiale è entrato in Roma, ingannato dai suoi sensi, dal suo orientamento; egli è l'immagine del governo italiano[...]».

Pertanto Di Pierro può scrivere: «Chi prevedeva una resistenza puramente simbolica dell'esercito di Pio IX ora comincia a ricredersi. E a mettere in dubbio che il proposito del pontefice – come qualcuno sostiene – sia di arrendersi presto, giusto il tempo di certificare di fronte alle diplomazie europee che la santa Sede è vittima di un'aggressione militare e cede solo per evitare un inutile bagno di sangue[...]». Doveva essere così ma la battaglia provocata dagli zuavi ai Tre Archi e a Villa Patrizi, «farebbero pensare a un esercito che vuole combattere e resistere il più a lungo possibile».

Infatti secondo Di Pierro, riferendosi al comandante generale Hermann Kanzler «il vero sogno del pro-ministro pontificio, che nel 1867 aveva sconfitto Garibaldi a Mentana, era quello di coprirsi di gloria piegando in campo aperto l'odiato Bixio [...]». Praticamente Kanzler voleva combattere, non ci sta a fare una resistenza simbolica, aveva provato ad esporre la sua strategia al Pontefice, che avrebbe troncato la discussione esclamando: «Vi chiediamo di cedere, non di morire, che è quanto dire un sacrificio maggiore».

Ritorniamo alla battaglia, poco prima delle 5,10, la fucileria papalina ha rotto la quiete del mattino. «Diverso era il piano d'azione degli italiani, che, colti di sorpresa, in un primo momento nemmeno hanno risposto ai tiri nemici». I primi a sparare sono stati gli zuavi della squadra comandata dal tenente Paolo Van de Kerkhove. Seguo quello che scrive Di Pierro: «un vero e proprio inferno di fuoco si è abbattuto sulla 5a batteria causando subito gravi perdite». Ci sono morti e feriti, il giornalista fa i nomi.

 «Tra i soldati del re è il caos». Ma alle 5,15, iniziano le cannonate da parte della 13a Divisione del generale Ferrero. «E, in rapida successione, lungo quasi tutto il fronte delle mura Aureliane, entrano in azione le micidiali artiglierie dei due fronti contrapposti tra nuvole di fumo, boati da far tremare, proiettili e granate che volano da una parte all'altra portando morte e distruzione». A questo proposito sono interessanti le riflessioni del dottore Alessandro Ceccarelli, capo del servizio chirurgico del Santo Spirito, che segnala le capacità distruttive delle armi negli ultimi anni. L'arte della guerra è cambiata, così sono terribili gli strumenti di cui essa si serve. Interessante e raccapricciante la descrizione che fa il dottore sulle fratture, sulle ferite che provocano i nuovi proiettili. E ancora il dottore non aveva conosciuto l'evoluzione delle armi nella prima guerra mondiale.

In pratica in successione nel testo Di Pierro, passo dopo passo riporta i vari passaggi della battaglia. Le incursioni, gli spostamenti, gli assalti, i ripiegamenti e soprattutto la gran massa di fuoco che converge sui grossi muri, tra le varie porte, soprattutto quella di Pia e Salara, dove sono concentrati 52 cannoni dell'esercito regio.

I fronti della battaglia sono tanti, si spara dappertutto, sul versante destro del Tevere e quello sinistro.

Mentre si combatte il Papa Pio IX è nel suo studio. Le cannonate fanno tremare non solo i vetri, ma le pareti, il pavimento, la sua scrivania. Il libro descrive con molta precisione tutta la macchina burocratica vaticana, le stanze, gli uffici, i nomi dei prelati che si trovano vicino al papa. «Le stanze e i punti strategici dei palazzi vaticani brulicano inoltre di soldati e ufficiali che per compito istituzionale sono destinati alla difesa della persona del pontefice e alla rappresentanza d'onore, suddivisi in tre corpi speciali: la guardia nobile, la guardia palatina e la guardia svizzera».

Questi corpi speciali erano disposti a tutto, sorvegliavano i punti strategici anche se non avevano ricevuto ordini precisi sul da farsi in caso di assedio della cittadella del Papa. Intanto mentre infuria la battaglia, sotto le cannonate, alle ore 7,15, il papa celebra la Messa, alla presenza del corpo diplomatico, in una atmosfera surreale.

La guerra continua e lascia sul terreno altri morti, altri feriti. Lo scontro ha acquistato maggiore intensità su tutti i fronti. Ma il fronte principale è a porta Pia, è qui che si giocano le sorti della guerra, il futuro dello Stato Pontificio, il destino di Pio IX e del suo governo. Verso le 8 per una falsa notizia i pontifici cominciano a ritirarsi, ma una volta compreso l'errore, riprendono le posizioni.

Lo scontro si fa sempre più aspro, c'è da registrare che nonostante i combattimenti, nelle strade ci sono curiosi, amici, parenti dei combattenti. Può capitare che le donne cercano i mariti che stanno combattendo, soprattutto quelli di parte pontificia.

Il papa finito di celebrare la Messa, parla al corpo diplomatico, sono in 17, impettiti nelle loro uniformi d'alta rappresentanza. Il Papa è amareggiato. Nessuno è sceso in campo per difenderlo, nemmeno le grandi famiglie, delusione nei confronti dei romani assediati. Rivolgendosi agli aggressori dice: «Non è il fiore della società che accompagna gli italiani quando assale il padre dei cattolici».

Alle 9,05 i vertici militari pontifici, valutando con molto realismo che ogni ulteriore resistenza sarebbe vana, decidono per la resa immediata. Si ordina di mostrare la bandiera bianca su S. Pietro. Ma alle 10 si combatte ancora. Gli zuavi hanno grande voglia di combattere, o almeno di rinviare il più possibile il momento umiliante della resa.

Fermare la macchina della guerra non è semplice, fare arrivare a tutti l'ordine di resa non è semplice. Alcune postazioni in questi momenti drammatici non trovano neanche una bandiera bianca, ci si affanna a trovare qualcosa che assomigli.

Alle ore 10,10, il primo militare dell'esercito regio, il sottotenente Federico Cocito del 12° Battaglione bersaglieri, raggiunge il ciglio della breccia della porta. Mentre verso porta Maggiore, l'ultimo ad arrendersi è il maggiore Castella e siamo alle 10,55.

Alle truppe zuave non rimane che ritirarsi in Vaticano, per evitare di cadere prigionieri degli italiani. «I soldati sono stanchi, molti di loro covano rancore per la bruciante sconfitta, quasi tutti nutrono sentimenti di disprezzo nei confronti del popolo romano che non ha mosso un dito per difendere il Santo Padre dall'ingiustificato attacco nemico». Per la verità per certi versi neanche l'esercito regio ha simpatia per il popolo romano, capita che qualche ufficiale, rimproveri certi scalmanati che inveiscono contro inermi soldati pontifici. “dovevate reagire prima contro i papalini, non ora, che c'è la copertura dell'esercito italiano”.

Comunque sia per Di Pierro, la Roma papalina ha deluso i soldati italiani, che si aspettavano una città diversa. «Ai militari dell'esercito regio arrivati fin qui ancora non è apparso nulla della tanto decantata maestosità della città eterna: piuttosto hanno sentito una diffusa puzza di cavolo bollito, predominante su altri e variegati cattivi odori, e hanno potuto constatare con i propri occhi che la sporcizia è veramente tanta ed è disseminata dappertutto».

A questo Di Pierro non fa che citare alcuni celebri viaggiatori che emettono dei giudizi su Roma abbastanza negativi. Il testo descrive dettagliatamente la vita sociale dei romani, dei ceti popolari, in particolare il loro sistema abitativo. Il francese, Paul Desmarie, definisce Roma: la patria dei mendicanti. E qui la storia si ripete, sembra Macron oggi.

Dal XII capitolo il testo fa la cronaca delle trattative di pace, mentre l'esercito occupa la città, spuntano le prime bandiere tricolori. Il giornalista Ugo Pesci, esiliato, ora entra in città insieme ai soldati, anche Nino Costa, esule, ritornato per guidare un governo provvisorio dei romani. Il testo accenna al caso Mortara, che il fratello Riccardo vuole “liberare” dalla segregazione in Vaticano, ma questi rifiuta la liberazione.

Nascono i primi presìdi rivoluzionari, manifestanti, i cosiddetti patrioti, esuli che ritornano. C'è il rischio di scontri con i papalini. Ad un certo punto Di Pierro si pone la domanda: ma chi è questa gente che se ne va in giro a ingiuriare e ad assaltare i soldati del papa? Non è facile rispondere, per alcuni sono i patrioti romani che hanno subito le angherie dello Stato pontificio, per altri, invece sono agenti al soldo del governo italiano, mestieranti dell'anarchia, gente che viene da fuori.

In questi momenti, come in tutte le guerre, ci sono i regolamenti di conti, e poi quelli che saltano sul carro del vincitore.        

Alle ora 14 sembra che ancora la città è fuori controllo, si riscontrano incursioni di gruppi armati, pontifici che improvvisano barricate, sparatorie. La città è ancora in preda all'anarchia. «Nelle zone franche può succedere di tutto: anche che scoppi una vera e propria battaglia. Come per esempio, intorno al Campidoglio».

Intanto a Villa Albani, dove risiede il generale Cadorna, si tratta per le condizioni della resa. Il generale non accetta, nelle condizioni poste dal Papa, la parola “violenza”. Ma alla fine si arriva a una mediazione. Alle ore 17,30, si firma l'intesa. Al Papa rimane il piccolo territorio, della cittadella del Vaticano, il rione Borgo.

I militari pontifici, deposte le armi vengono condotti a Civitavecchia, i 4.800 stranieri instradati ai loro paesi. I 4.500 italiani inviati in diverse località come prigionieri di guerra.

I numeri di questa guerra inutile: 48 morti e 132 feriti tra gli italiani, 20 morti e 49 feriti tra i pontifici. Certo non sono elevati come per altre guerre, ma se il re Vittorio e suoi generali non avessero aggredito un piccolo stato inerme, riconosciuto da tutte le diplomazie del mondo, potevano essere evitati.

 

A che cosa serve ricordare dopo 29 anni il sangue versato di migliaia di giovani sulle strade attorno al viale Chang'an della piazza Tienanmen a Pechino. Nei mesi di aprile e maggio del 1989, oltre un milione di persone, guidate dagli studenti, delle varie università, occuparono pacificamente piazza Tienanmen a Pechino, chiedendo libertà e democrazia. Non solo Pechino, in tutta la Cina, decine di milioni di cittadini appoggiavano le loro richieste. «In totale, quasi cento milioni di persone vi parteciparono».

I leader del Partito comunista cinese respinsero ogni ipotesi di dialogo, e tra la notte del 3 e 4 giugno la piazza fu sgombrata dall'esercito. Ad oggi ancora non si hanno i numeri esatti dei morti e dei feriti di quella tremenda repressione dell'esercito con ogni tipo di arma, compresi i tank. Certamente più di mille manifestanti furono uccisi e migliaia di persone arrestate in tutto il paese. Ancora oggi le madri e il gruppo di parenti delle vittime scrivono lettere al presidente Xi Jimping, «definendo la serie di uccisioni un 'crimine contro l'umanità'. Il gruppo chiede a Xi anche di perseguire i responsabili e di ricompensare le vittime». Riprendo l'informazione dal mensile Asianews, diretto da padre Bernardo Cervellera. «Il Pcc ha sempre difeso il suo operato come annientamento di una 'ribellione controrivoluzionaria'. Qualche leader, come Jiang Zemin ha osato dire che il massacro è stato un 'male minore'[...]». Ogni anno per il 4 giugno, la polizia costringe madri e parenti agli arresti domiciliari. «Sembra – dice la lettera – che questa enorme e potente dittatura del proletariato abbia paura di un fragile gruppo di persone vecchie e malate». (Giugno-Luglio 2018, Asianews).

Esiste un ottimo testo uscito in contemporanea in tutto il mondo che ricostruisce nei minimi particolari la rivolta degli studenti cinesi e quindi la tragica fine in piazza. Si tratta di Tienanmen, curato da Andrew J. Nathan e Perry Link, due accademici, professori americani. Il primo insegna alla Columbia University e il secondo alla Princeton University. Il testo in Italia è stato pubblicato da Rizzoli nel 2001.

Il libro, abbastanza corposo (587 pagine), pubblica centinaia di documenti che provengono dal vertice del Partito comunista e dello Stato. Si tratta di trascrizioni integrali o parziali di testimonianze che riguardano le scelte dei vertici del partito durante quelle drammatiche settimane, della primavera del 1989 a Pechino. «Il movimento democratico che vide la luce in quei mesi fu uno degli eventi più importanti della storia della Cina comunista – scrive Nathan nell'introduzione – e il presente volume ci fornisce il resoconto dettagliato delle decisioni politiche che furono all'origine del tragico epilogo di quelle proteste».

I documenti pubblicati nel libro sono stati rilasciati da Zhang Liang, uno pseudonimo, naturalmente si tratta di un informatore che deve proteggere se stesso e la sua famiglia. Nathan ci tiene a ribadire che «il lettore avrà modo di constatare, questi documenti hanno una coerenza intrinseca, una ricchezza e una credibilità umana che sarebbe impossibile falsificare. Essi riguardano avvenimenti che ebbero luogo a Pechino, nelle province e all'interno dell'esercito; ci rivelano che cosa accadde negli incontri aperti e segreti tra gli studenti e gli intellettuali che li sostenevano [...]».

Quest'opera è un'occasione unica per conoscere dall'interno uno dei sistemi politici più ermetici. Anche perchè, per la verità, non esistono tante pubblicazioni sui fatti del 4 giugno 1989. «Il 4 giugno – scrive Liang - non è stato soltanto una protesta studentesca o un patriottico movimento democratico. Esso segnò il culmine delle più affollate, durevoli e influenti dimostrazioni per la democrazia del XX secolo».

Tra le tante domande il curatore Nathan ne pone una impegnativa: a chi giova questo progetto e chi è danneggiato. Secondo l'accademico professore americano, «la pubblicazione di questo libro avrebbe compromesso le carriere dei due leader più potenti della Cina, Jiang Zemin e Li Peng, favorendo l'ascesa dei loro rivali». Inoltre il volume potrebbe influenzare le carriere di molti dei funzionari del partito comunista.

Comunque sia il compilatore dei documenti, rendendoli pubblici ha costretto il Politburo a confrontarsi con Tienanmen, svelando le gravi responsabilità di Li Peng e dei suoi seguaci.

I documenti di Tienanmen smascherano le dure decisione degli Anziani del partito ( Deng Xiaping, Li Xiannian, Peng Zhen, Yan Shangkun, Bo Yibo e Wang Zhen) che decidono l'evacuazione della piazza senza scrupoli. Tra tutti, la decisione di Deng Xiaping.

«Troppe domande sono ancora senza risposta. - Scrive Zhang Liang- in quanto testimone e partecipante di quell'evento, è mio dovere nei confronti del popolo cinese e della storia pubblicare un fedele e completo resoconto delle decisioni che furono all'origine di quei tragici avvenimenti».

Un altro elemento importante nei processi politici nel 1989 era il peso dell'esercito. Infatti nota il curatore, che era importante per i leader comunisti tenere il comando delle forze armate.

Infine ci sono gli studenti che secondo Nathan, «non avevano intenzione di lanciare una sfida mortale a quello che sapevano essere un regime estremamente pericoloso, né il regime intendeva usare la forza contro gli studenti. I due schieramenti condividevano molti obiettivi e un linguaggio comune, ma gli errori di valutazione e le difficoltà di comunicazione fecero asserragliare entrambi su posizioni che rendevano sempre meno attuabile la possibilità di un compromesso»

Il movimento studentesco ebbe inizio il 15 aprile con la morte del riformatore Hu Yaobang. Nella notte tra il 19 e il 20 aprile i dimostranti e la polizia si scontrarono davanti alla Porta Xinhua del palazzo Zhongnanhai, dove ci sono gli uffici e le residenze dei vertici dello Stato cinese e del Partito comunista. Da questo momento per la classe politica cinese, le organizzazioni studentesche rappresentano un pericolo paragonabile alla rivoluzione culturale. Più avanti il 21 maggio la sicurezza presso la residenza dei leader del Partito centrale fu rafforzata. Venne raddoppiata la guardia armata delle abitazioni degli anziani, e sono state poste mitragliatrici davanti ad ogni palazzo.

Il 22 aprile una enorme folla partecipò ai funerali di Hu Yaobang, i dirigenti comunisti pensarono che dopo le esequie, gli studenti si sarebbero dispersi. Non fu così, anzi gli studenti rafforzarono le loro manifestazioni. Il libro ripercorre scrupolosamente, giorno per giorno quello che è successo. Due mesi intensi di attività politica. I documenti raccontano confronti, discussioni, interventi, reazioni, riunioni più o meno segrete, sia dei vertici politici cinesi che delle associazioni studentesche.

Al centro di questa storia, c'è sempre la piazza Tienanmen, che in quelle settimane, si trasforma in simbolo della Nuova Cina libera. I dirigenti comunisti non potevano sopportare un affronto così grave, del loro luogo sacro e solenne, era inammissibile che la piazza fosse ridotta a una specie di comando di guerra, centro di trasmissione nazionale della controrivoluzione, dove si lanciavano attacchi furiosi al Partito e al governo. Wang Zhen, uno degli anziani, prima di prendere la decisione di evacuare la piazza, così si esprimeva sulla rivolta: «Maledetti bastardi! Chi si credono di essere per calpestare vergognosamente il sacro suolo di Tienanmen per tanto tempo e restare impuniti? Se la sono cercata. Dovremo dare ordine ai soldati di andare ad arrestare questi controrivoluzionari, compagno Xiaping![...] Dobbiamo agire senza indugi, altrimenti non potremo mai perdonarci le conseguenze […] Chiunque tenti di rovesciare il Partito comunista merita la più indecorosa delle morti!».

Tutti erano convinti che bisognava reprimere rapidamente e in modo deciso i disordini. Occorre sradicare il morbo controrivoluzionario e restituire la piazza al popolo. «Dagli altoparlanti installati abusivamente da questa minoranza risuonano senza interruzione attacchi contro il Partito e le più alte istituzioni dello Stato, diffondono propaganda controrivoluzionaria ed esortano ad abbattere il nostro governo». Gli stralci dei rapporti fanno riferimento alla «statua di una Dea davanti al monumento agli Eroi del popolo, come se volessero chiamare a nume tutelare della loro lotta la libertà e la democrazia americana».

Intanto il movimento studentesco si intensifica anche nelle province, e gli interessi non erano solo quelli che riguardavano lo studio, le università. «Gli studenti avevano ampliato i propri interessi, includendo politica, economia, cultura, istruzione, teoria ideologica, costumi e ordine sociale». E quello che contava, stavano suscitando le simpatie dei funzionari e membri del corpo insegnante.

I membri del Partito comunista ordinano a tutto il personale di mescolarsi tra gli studenti per esortarli a rientrare in aula. Il testo mette in evidenza il notevole interesse che ha suscitato l'editoriale del 24 aprile, uscito sul Quotidiano del Popolo, il primo quotidiano del partito. Il testo firmato da Deng Xiaping, divenne una nuova causa di insoddisfazione non solo tra gli studenti, ma anche tra i cittadini. Per il vertice del Partito l'editoriale, invece andava studiato da tutti per uniformare il pensiero e la visione dei fatti. Ogni scuola organizzazioni partitiche, tutte le autorità scolastiche, dovranno svolgere un accurato lavoro di formazione e indottrinamento tra gli studenti. «Dovrete assumere al più presto il controllo della situazione e usare il corretto pensiero politico per risolvere qualsiasi smarrimento e equivoco possa sorgere tra gli studenti». Così si esprimeva il compagno Li Tieying al Forum dei segretari di partito di alcune università.

Bisogna stroncare il fenomeno sul nascere. Non possiamo permettere che quei ragazzini vengano sobillati. La battaglia è complessa e durerà a lungo secondo Li Peng, che presiedeva il Comitato permanente del Politburo. Presso i palazzi dello Zhongnanhai dove erano riuniti i vertici governativi, arrivavano diversi rapporti riguardanti le varie manifestazioni studentesche in tutto il paese. Un'altra preoccupazione si aggiungeva per i dirigenti comunisti, si tratta della visita di Gorbaciov, il segretario Pcus: «mentre Gorbaciov è qui, deve regnare ordine in piazza Tienanmen. Ne va della nostra immagine internazionale. Che figura facciamo se la piazza è nel caos?». Se lo chiedevano in tanti.

I vertici erano convinti che gli studenti non agivano da soli, dagli slogan diffusi nella piazza, sono molto simili a quelle faziose di «Voice of America», inoltre appartengono anche ad alcune testate giornalistiche e radiofoniche di Hong Kong e Taiwan. Naturalmente i comunisti avevano tutto l'interesse di colpevolizzare i media stranieri. Infatti sono convinti che «un elemento importante in questi disordini è stato il grande appoggio, sia morale che materiale, dato direttamente o indirettamente ai cospiratori e organizzatori da diverse forze reazionarie, organizzazioni e singoli individui, in patria e all'estero». Questo appoggio spirituale e materiale secondo gli organismi comunisti di Pechino ha imbaldanzito la Federazione autonoma degli studenti (Fas).

Il 1 giugno il ministero della Sicurezza di Stato, accusa l'Occidente di infiltrazioni, interventi e attacchi sovversivi. Sottoponendo al Centro un rapporto proprio su questo.

I comunisti intravedono una infiltrazione ideologica e culturale da parte di tutte le amministrazioni americane, che non hanno mai rinunciato a queste infiltrazioni. Gli alti vertici cinesi descrivono bene la situazione, scendendo nei dettagli, per quanto riguarda l'aspetto religioso: «In anni recenti gli Stati Uniti hanno anche inviato in Cina dei missionari sotto mentite spoglie di insegnanti uomini d'affari, medici e tecnici per condurre in segreto opera di evangelizzazione». Tra l'altro dai documenti risulta che nell'ambasciata americana si nascondono agenti della Cia, che ogni giorno, la sera si recano in piazza Tienanmen o all'Università di Pechino o alla Normale e incitano ai disordini.

Pertanto secondo i dirigenti comunisti, l'Alleanza cinese per la democrazia (Acd), «non è che uno strumento in mano agli Stati Uniti contro la Cina. Questo ricettacolo della feccia della nostra società ha sede a New York e ha collaborato con l'associazione cinese di sostegno al Kuomintang [...]».

Mentre poi a livello politico, sono presenti le forze reazionarie di Taiwan e Hong Kong, in particolare i servizi segreti militari e il Kuomintang di Taipei.

Il 2 giugno gli Anziani del Pcc decidono l'evacuazione della piazza. Fino all'ultimo  si auguravano che non ci fosse spargimento di sangue. Durante la riunione Deng interviene sulle cause dell'instabilità in Cina, oltre ad essere attribuite ai Paesi Occidentali, che con la scusa dei «diritti umani», vogliono inserirsi nei nostri affari, si fa anche autocritica. Deng dice: «[...] dobbiamo ammettere la nostra parte di responsabilità. Due anni fa  sostenevo che gli errori più grandi hanno riguardato il campo dell'istruzione […] si è trascurato l'aspetto dell'educazione ideologica e molti altri sono rimasti ambigui».

Il 3 giugno nel pomeriggio, i soldati entrarono in città e si scontrarono con la popolazione arrabbiata, le speranze dei leader di evitare spargimenti di sangue, colarono a picco. Ormai hanno capito che avevano a che fare con una «sommossa controrivoluzionaria», che poteva essere repressa solo con la forza. Intanto nel pomeriggio gli alti dirigenti comunisti cinesi si riunirono in seduta d'emergenza per discutere del peggioramento della situazione. Dai verbali dell'incontro del Comitato permanente del Politburo, si nota una certa agitazione, per giustificare la repressione si cerca di trovare innumerevoli giustificazioni. Intanto gli uomini dell'esercito si stanno sforzando  e cercano di contenersi di fronte alle provocazioni degli studenti. Tutti sono d'accordo che la situazione deve tornare alla normalità. E soprattutto di fronte al mondo che ci guarda, occorre far capire che non è colpa nostra degli spargimenti di sangue.

Da questo momento è un susseguirsi di bollettini, di ordini, all'esercito di liberazione.

Per quanto riguarda l'esercito, gli ufficiali erano pronti, determinati a superare ogni difficoltà, appoggiavano incondizionatamente la decisione di instaurare la legge marziale. «Grazie alla grande attenzione data all'educazione politica ed ideologica, tutto il corpo degli ufficiali e degli effettivi è preparato a resistere e a restare saldo in mezzo al tumulto, combatterlo senza risparmiare i colpi e affrontare compatto e unito le tempeste politiche di queste ore».

Nei documenti si evidenziata l'efficienza per raggiungere gli obiettivi fondamentali della sicurezza, si era studiato ogni minimo particolare, esaminato tutte le possibili eventualità, che potevano accadere nella piazza. Viene sottolineato che la maggior parte dei soldati proviene dalle campagne, pertanto entrano per la prima volta in un centro urbano. E soprattutto sia gli ufficiali che la truppa sono consapevoli che stanno espletando una missione speciale. Le truppe sono stazionate nel parco Zhongshan, qui da due settimane, gli ufficiali hanno condotto un'imponente opera di rieducazione ideologica che li ha resi pronti  a procedere all'evacuazione di piazza Tienanmen. 

Il racconto minuzioso dello sgombero della piazza, nella notte del 3 e l'alba del 4 giugno, come si può immaginare fu abbastanza tragico e sanguinoso. Da una parte c'era un esercito tra i più potenti al mondo, dall'altra studenti inermi che si difendevano a mani nude.

Termino con un volantino distribuito dalla Federazione autonoma degli studenti (Fas): «L'intero popolo cinese non può tollerare questo massacro fascista. Il sangue non sarà stato versato invano; la lotta non deve finire qui […] Non abbiamo un esercito nostro, siamo indifesi di fronte a truppe moderne ben equipaggiate. Chiediamo ai cittadini di Pechino e a tutto il popolo cinese di astenersi dal lavoro e di boicottare i mercati. E' necessario inoltre ottenere l'appoggio della comunità internazionale». Ma la comunità internazionale, al di là dei proclami, alla fine non si muove come non si è mossa nel 1956, quando i ragazzi di Budapest combattevano contro carri armati sovietici.

Comunque sia in Cina le proteste continuarono, il libro fa l'elenco di ben 181 località dove si dimostra contro la repressione del governo. Mentre tra il 10 e il 30 giugno ci sono i rastrellamenti di attivisti del movimento democratico che vengono incarcerati. Però molti di quelli che hanno guidato la rivolta riuscirono a fuggire dalla Cina.

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