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Devo confessare una verità: tra i tanti libri non letti, presenti nella mia biblioteca, non ho ben chiaro quali sono i criteri di scelta per la lettura di un testo e poi per l'eventuale recensione. D'altro canto può capitare di trovare un libro interessante nella solita outlet libraria di Milano e leggerlo subito. Così è stato per «Europa Imperiale. Storia e prospettive di un ordine sovranazionale», autore, Otto Von Habsburg, Edizioni Culturali Internazionali Genova [ECIG], (1990). Attenzione all'autore, si tratta del primo degli otto figli di Carlo, ultimo imperatore austroungarico, e di Zita di Borbone Parma. Mi riferisco all'ultimo arciduca ereditario d'Austria e Ungheria, che oltre ad essere deputato dal 1979 del Parlamento Europeo, è stato presidente dell'Unione paneuropa.

Naturalmente è tutto datato, per essere più precisi, il saggio è stato scritto nel 1986. E l'arciduca è scomparso nel 2011. Europa imperiale, è composto di 5 parti. Ho scelto di proporne i contenuti soltanto, la prima e l'ultima parte. Anche perché nelle altre, l'autore affronta argomenti riguardanti la politica e la storia europea e mondiale degli anni '70, '90. I difficili anni della cosiddetta “guerra fredda” nei Paesi dell'Europa Centrale sotto la dominazione comunista sovietica. E poi la politica dell'Europa occidentale, con riferimento a quella americana, uscita dalla seconda guerra mondiale.

Il saggio propone delle ottime osservazioni di Von Habsburg sulla storia, le caratteristiche e gli ingranaggi del Sacro Romano Impero, che nel bene e nel male era riuscito nella sua lunga storia, a pacificare regni, territori e negli ultimi anni a condizionare le spinte nazionalistiche. Quando scompare l'Impero, esplodono le ambizioni esasperate dei nazionalismi che hanno fatto scoppiare la carneficina della prima guerra mondiale. Probabilmente sarebbe riuscito anche ad evitarci le due sanguinarie rivoluzioni nazionalsocialista e quella bolscevica. Infatti, dopo il 1918, nel Centroeuropa sorse uno spazio vuoto, previsto dall'imperatore Carlo, che sarebbe stato occupato con la violenza, prima dalla Germania e poi dall'Unione Sovietica.

Certo oggi sembrerebbe completamente anacronistico occuparsi di Impero, di Monarchia, di Regno. D'altro canto di questi tempi, di aggressione e cancellazione del passato, da parte dei vari gruppi antagonisti europei e soprattutto americani, è arduo sostenere certe tesi politicamente scorrette. Anche se come ho evidenziato recensendo un interessante saggio di Raffaele Simone “Come la democrazia fallisce” (Garzanti, 2015) è del tutto evidente che l'istituzione democratica attraversa una grave crisi, ce ne stiamo accorgendo da oltre un anno come le nostre democrazie liberali, stanno gestendo l'esplosione pandemica. Sostanzialmente stanno sospendendo tutte le più elementari libertà personali.

L'idea di Impero, il principio di un ordine sovranazionale garantito da una monarchia universale, ha impresso il suo segno su tutta la storia dell'Occidente, da Roma fino alla fine dell'Impero Austro-Ungarico.

Quando è stato scritto questo saggio, nell'Unione europea, forse si sentiva il bisogno di ideali cosmopoliti  sovranazionali per una ricerca di unità e prosperità. Il libro non intende offrire argomenti risolutivi, tuttavia, scrive l'arciduca, «il nostro futuro non può essere raggiunto solo attraverso la politica partitica o la tecnologia. Esse sono importanti ma non decisivi[...]».

Il politico nonché arciduca Otto von Habsburg è consapevole che la politica se vuole programmare il futuro ha bisogno di conoscere la Storia. «Chi vuole far incontrare popoli diversi deve sapere ciò che li unisce e ciò che li divide».

Von Habsburgh si rende conto che argomentare su un tema come quello dell'”«Impero”, si espone spesso al rischio di incomprensioni e di attacchi politici ingiustificati». Un Impero non va concepito come un potere territoriale, peraltro, «non lo si può neppure limitare ad una sola nazione poiché il suo compito è proprio di agire come cerniera tra diversi popoli e stati».

Le osservazioni del politico austro-tedesco non intendono ricreare antiche e ormai scomparse forme politiche del passato. Tuttavia in questo periodo storico che si discute su progetti di unificazione europea, è una buona cosa, «riportare alla luce quei tratti sovranazionali e imperiali che dopo la Rivoluzione Francese sono stati completamente cancellati dagli accecanti colori nazionalisti».

Otto von Habsburg descrive sinteticamente i vari passaggi della storia del Sacro Romano Impero a partire da Carlo Magno. Trasmesso dai popoli dell'Oriente, attraverso i Romani, fino ai Franchi. Il modello, l'idea di impero, è un concetto cristiano-occidentale, si forma sotto la spinta della filosofia della storia di S. Agostino, un altro fattore decisivo fu il ruolo di San Benedetto, che ha salvato la cultura classica di Atene e di Roma.

A partire dalla notte di Natale dell'800, Carlo, l'imperatore, sovrano progenitore dell'Europa, «creò una tradizione e un'immagine imperiale che restarono valide fino al 1806 e, nei territori danubiani, addirittura fino al 1918».

Peraltro Von Habsburg è convinto che i problemi del popolo tedesco sono iniziati con la fine del Sacro Romano Impero, cioè nell'anno 1806. «Nonostante molte debolezze e carenze di costruzione, l'Impero aveva loro offerto per circa un millennio un tetto protettivo sotto al quale essi poterono vivere in maniera corrispondente alla loro essenza, alla loro tradizione e alla loro posizione geografica».

Per l'arciduca, la missione storica dei tedeschi fu fin dai tempi antichi sovranazionale e imperiale. La loro funzione, nonostante le guerre, era di equilibrare, di mettere in collegamento le diverse culture e di scambiare beni materiali e spirituali con altri popoli, come gli italiani, i francesi, gli slavi, i magiari, i baltici, i scandinavi.

D'altro canto i tedeschi agirono sempre come popolo imperiale, del resto, l'idea imperiale, si pone al di sopra delle nazioni e per questo motivo, non può mai puntare ad un predominio nazionalistico.

Il predominio nazionalistico dei nazisti, contraddiceva questa funzione storica. L'autore del saggio fa riferimento alla svolta nazionalista iniziata nel 1848, proseguita nel 1866, che minacciava l'esistenza, lo stato plurinazionale asburgico. E ci sono date importanti che hanno portato alla rovina gli Stati centrali europei, come la sconfitta di Sadowa nel 1866. Dopo questa sconfitta, il segretario di Stato vaticano Antonelli, esclamò, “Casca il mondo!”. «Con la vittoria del nazionalismo nell'area tedesca iniziò la decadenza d'Europa e il popolo imperiale tedesco non fu più fedele alla sua missione. La rinuncia tedesca alla grande idea dell'Occidente cristiano, l'”Orbis Europaeus Christianus”, non poté che agire in modo devastante su tutti i popoli vicini, perché distrusse la parte centrale del continente».

Pertanto, la cosiddetta inimicizia tra Austria e Prussia, fu un terribile errore storico. E comunque di questo sono responsabili sia Vienna che Berlino.

Il testo apre spiragli di storia eccezionale che hanno visto protagonisti re, imperatori, come la difesa dell'Europa dagli assalti turchi. Su questo tema da segnalare, una scheda su uno dei condottieri prototipo dell'Impero. Il grande stratega e politico, un vero europeo, il Principe Eugenio di Savoia. Il principe è l'esemplare prodotto delle caratteristiche sovranazionali dell'Impero. Rifiutato da Luigi XIV, l'imperatore Leopoldo I lo accolse nel suo esercito dandogli la possibilità di fare una carriera prestigiosa. Il suo battesimo di fuoco, iniziò a Kahlenberg, il 12 settembre 1683, quando l'esercito imperiale sotto la guida spirituale di padre Marco D'Aviano, sconfisse i turchi che assediavano Vienna. Da questo momento il principe savoiardo si distingue in tutte le battaglie contro il pericolo turco. Tra queste battaglie si ricorda, Zenta, poi quella di Superga contro i francesi, infine Belgrado.

Il principe Eugenio va ricordato non solo per le battaglie, ma anche come un grande mecenate dell'arte barocca. Un principe che pensava in grande, hanno scritto.

Il saggio “Europa Imperiale”, offre passaggi significativi dove si smascherano alcuni miti, nel capitolo (L'Impero e il Danubio), l'arciduca, ricorda che la monarchia danubiana non fu una artificiale prigione dei popoli, tenuta assieme dalla dinastia regnante, come viene descritta da certa storiografia internazionale.

Il compromesso nato nel 1867, dello Stato asburgico, chiamato Austria-Ungheria, «era una necessità strategica non solo per tutti i popoli minori che in essi trovavano rifugio, ma anche per l'intera Europa». Basta guardare la carta geografica (i Carpazi e i Sudeti), dove convivono popoli, che hanno svolto, peraltro blocco storico contro gli attacchi dei turchi, come i Magiari, Cechi, Slovacchi, Croati, tedeschi.

Attraverso la casa asburgica le zone danubiane divennero il nodo cruciale di molteplici influssi sovranazionali. Qui in questo territorio composto da molti popoli, gli imperatori realizzarono profonde riforme, che hanno prodotto grandiosi risultati.

Otto von Habsburg è convinto che la pluralità di popoli significa ricchezza per tutti.

«Questo non vale solo per la vita culturale, ma anche in politica. La storia ci mostra quali pericoli provengono da stati nazionali centralistici. Uno stato composto di molti popoli, nel quale esista un equilibrato rapporto tra le varie singole nazioni, è già per sua natura costretto a comportarsi pacificamente».

Il classico esempio che rafforza questa tesi, è la Svizzera. Essa è costituita, oltre che dai Romanci, anche dai Tedeschi, Francesi e Italiani e pertanto ricerca sempre di stare in pace con la Germania, la Francia e l'Italia.

Continuando la sua descrizione il figlio di Carlo I d'Austria, sottolinea la straordinaria eccezione del variopinto panorama dei popoli della monarchia asburgica. Elencando i vari popoli facenti parte, a partire dagli Austriaci, fino ai Bulgari o i Gorali. E ognuno ci teneva a differenziarsi per cultura e religione. Perfino i bosniaci, dove spiccava il gruppo musulmano, si comportavano da buoni sudditi nei confronti dei loro sovrani cattolici, inserendosi, sorprendentemente armonicamente nell'intero edificio della monarchie e dell'esercito.

 Comunque sia l'autore del libro sfata un altro mito, quello che l'Austria-Ungheria, l'impero sarebbe crollato lo stesso dall'interno. Gli storici seri hanno smentito tutto questo. «I popoli di quello stato, così frettolosamente dichiarato morto, combatterono tra il 1914 e il 1918 con grande valore per la sua conservazione[...]»

A mitigare e comporre le varie tensioni fra i popoli, poteva farlo per Habsburg, solo la corona sovranazionale, il che avvenne con differenti risultati. L'arciduca fa riferimento ad alcune riforme costituzionali che permisero ai singoli popoli di avere un crescente sviluppo nazionale. Si fanno presenti alcuni compromessi politici che regolavano la vita dei popoli sotto la corona asburgica, vita che successivamente sarà sconvolta dalla snaturale sottomissione egualitaria comunista. Il dominio comunista nel bacino del Danubio, in un primo tempo ha coperto con la violenza i problemi locali legati ai gruppi etnici. Il figlio di Carlo qui ricorda come suo padre, negli ultimi mesi di vita a Madeira, soffrisse molto per non aver potuto evitare la minaccia incombente nell'area danubiana.

Ricorda anche che suo padre per soddisfare le rivendicazione tedesche e magiare, aveva in progetto un'idea modernissima, trasformare lo stato asburgico in una federazione di liberi popoli. «Tale progetto avrebbe senz'altro reso possibile un futuro migliore ai popoli danubiani che non le idee folli di un Benes, di un Hitler o di un Stalin».

Tuttavia Habsburg è convinto che dalla storia dello stato plurinazionale asburgico nel cuore del nostro continente si possa imparare molto per l'Europa di domani.

L'ultima parte (Anima dell'Impero) sviluppa proprio questo aspetto come attraverso l'anima cristiana dell'Impero, che guardava ad Atene e Gerusalemme, ci possa essere un futuro migliore per l'Europa. Ma questo è un argomento di oggi, l'Europa da tempo ha rifiutato le radici cristiane e quindi è davanti ai nostri occhi lo stato in cui è ridotta.

 

Vita, dignità del persona umana,famiglia, diritto, lavoro, Stato, educazione, immigrazione, ecologia, sussidiarietà, solidarietà, su questo e altre tematiche che riguardano la società, i cattolici, in virtù della loro Fede, hanno qualcosa da dire? Si. Sono i temi che affronta la Dottrina Sociale della Chiesa, un vasto e articolato insegnamento che la Chiesa offre a tutti gli uomini di buona volontà per favorire lo sviluppo integrale della società.

Peraltro sono gli argomenti che sta affrontando, Alleanza Cattolica, in un corso online sulla Dottrina Sociale della Chiesa, che sto seguendo, ad oggi mancano 2 sezioni.

Proprio in questi giorni ho ricevuto due volumetti che hanno lo scopo di introdurre allo studio della Dottrina Sociale della Chiesa, si tratta di «La Dottrina Sociale Cattolica. Sfida per il terzo millennio», Il Cerchio- Iniziative editoriali (Rimini 1991), scritto da Riccardo Pedrizzi  e «Una luce sul mondo. Dalla Rerum Novarum alla Caritas in Veritate», Editoriale Pantheon (Roma, 2011) di Riccardo Pedrizzi e Giovanni Scanagatta.

Anche se sono entrambi datati i due testi possono essere utili in particolare per far conoscere il grande patrimonio documentale della Dottrina Sociale, soprattutto in certi ambienti politici, mi riferisco a quell'area culturale della Destra italiana. Infatti il dottor Pedrizzi è stato senatore della Repubblica per tre legislature e Deputato alla Camera per una. Ho un ricordo particolare del senatore Pedrizzi, negli anni 1995-96, durante la mia permanenza nella Riviera Jonica messinese ho curato anche una Rassegna Stampa, oltre ad una trasmissione radiofonica, capitava di presentare interessanti articoli del senatore  pubblicati su Secolo d'Italia, quotidiano di Alleanza Nazionale.

Intanto leggo sul suo blog che è stato responsabile nazionale per le politiche della famiglia e presidente nazionale della consulta cattolica di AN per i problemi etico-religiosi si è impegnato in particolare sui temi della salvaguardia della vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, della difesa e della valorizzazione del ruolo della famiglia quale cellula fondante della società e della tutela del diritto naturale dei genitori di poter scegliere quale tipo di educazione dare ai propri figli partecipando a convegni e tenendo conferenze su tutto il territorio nazionale.

Il testo formato tascabile su La Dottrina sociale di Pedrizzi, è prefato da monsignor Domenico Pecile, vescovo di Latina, il quale scrive: «Questo volume ha, tra l'altro, il pregio di consentire una lettura agevole anche a chi non ha una assidua frequentazione con i problemi affrontati, soprattutto in virtù di una agile raccolta di brevi saggi che possono servire da guida per il lettore […]». Per il presule, «La lettura dei saggi introduttivi, costituirà un indispensabile ausilio per quanti vorranno trovare un orientamento autenticamente cattolico in un momento di grande smarrimento, seguito all'eclisse di quelle ideologie che sembravano aver surrogato anche il ruolo della dottrina cristiana».

Il testo è introdotto dal filosofo torinese Rocco Buttiglione, citando il grande filosofo Augusto Del Noce, scrive: «Il difetto principale che si rimprovera alla dottrina sociale cristiana è quello di costituire un insieme di precetti astratti che male si adattano alla applicazione nel corso di una storia in continuo movimento».

L'agile testo di Pedrizzi è composto da nove capitoli e poi da un'antologia, di alcune encicliche dei Papi, a partire dalla Rerum Novarum, fino alla Sollecitudo Rei Socialis.

Nel I° capitolo, Pedrizzi descrive l'Ottocento rivoluzionario, figlio della Rivoluzione Francese, criticato dai vari pensatori controrivoluzionari a partire da Joseph De Maistre, padre della sociologia cattolica, che aveva capito, che la rivoluzione francese era lo spartiacque della Storia. Vengono citati gli altri che si sono opposti ai principi dell''89, Luis Gabriel De Bonald, Juan Donoso Cortes, Giuseppe Toniolo, promotore dell'Unione Cattolica per gli Studi Sociali.

Nel II° capitolo tratta del ruolo pubblico del Cristianesimo. Nel 1991, Pedrizzi indica una rinascita della Dottrina sociale, sotto l'impulso del grande pontefice Giovanni Paolo II. Anche se ancora ci sono sacche di resistenza da parte di certo clero che si attarda su posizioni di tipo sessantottino.

Infatti, Pedrizzi nota che dopo il Concilio Vaticano II, la Dottrina Sociale è stata messa in sordina, e per certi versi anche contestata all'interno della stessa Chiesa. La Dottrina sociale della Chiesa viene rilanciata dopo la pubblicazione dell'enciclica Laborem exercens e soprattutto, dopo il forte discorso tenuto da Giovanni Paolo II a Loreto nel 1985, dove si invitava il laicato cattolico a «superare quella frattura tra Vangelo e cultura che è, anche per l'Italia, il dramma della nostra epoca[...]».

Giovanni Paolo II con grande forza da Loreto, invita i cattolici a non avere paura di Cristo, «non temete il ruolo anche pubblico che il Cristianesimo può svolgere per la promozione dell'uomo e per il bene dell'Italia».

Inffatti, per Pedrizzi, erano stati dimenticati e messi in discussione, proprio il ruolo pubblico della Chiesa e la rilevanza sociale del cristianesimo. Artefice di questa dimenticanza è stato il Laicismo, che ha esaltato le dottrine liberali e quelle marxiste. E comunque alla data in cui è stato scritto questo manuale (1991), Pedrizzi rilevava buone prospettive di successo per l'insegnamento della Dottrina sociale, senza complessi d'inferiorità. Queste prospettive si intravedevano nel rilancio delle Nuove Settimane Sociali, dove si auspicava una buona presenza di cattolici fedeli alla Tradizione.

Il IV° capitolo si occupa dell'impegno vero e proprio del “laico” cattolico, che è il semplice fedele che non ha abbracciato una vocazione religiosa. Evitando le strumentalizzazioni, il laico cattolico si impegna per il bene comune, attraverso la teologia morale, cerca «di impostare correttamente i problemi contingenti e concreti che si pongono all'uomo di oggi; attraverso essa possono interpretare la realtà politica, sociale ed economica 'esaminandone la conformità o la difformità con le linee dell'insegnamento del Vangelo'». Il grande imput che aveva impresso il pontefice polacco, rappresentava una grande opportunità, una grande occasione presentata alla Chiesa italiana, per animare cristianamente la nostra società. Una volta si usava dire, restaurare la civiltà cristiana.

Il V° capitolo, Pedrizzi sintetizza i principi della Dottrina Sociale che non tramontano mai«A cento anni, dunque, dalla promulgazione della prima enciclica sociale (1891; Rerum novarum), che diede l'avvio allo sviluppo sistematico di questa dottrina [...]». Si rileva che per la prima volta la DSC entra come materia d'insegnamento in tutti i seminari, in tutte le facoltà ecclesiastiche, in tutte le scuole superiori di scienze religiose.

Il VI° capitolo si occupa del pontificato di Pio XI, Papa Ratti, che per certi versi è stato vilipeso calunniato e poi attraverso una congiura del silenzio si è cercato di minimizzare il suo operato. Un Papa che prodotto ben 30 encicliche, la proclamazione di 550 santi e beati, la convocazione di 17 concistori, la creazione di 74 cardinali, con la nomina dei primi vescovi asiatici e africani. La nascita della Radio Vaticana, commissionata allo scienziato Guglielmo Marconi.

Non possiamo elencare tutte le encicliche di Pio XI, Pedrizzi, si dilunga su la Divini redemptoris, l'enciclica sulla condanna del comunismo ateo. «Il Papa individua l'antropologia di questa filosofia, dimostrandone il carattere profondamente illiberale e materialista; ne spiega anche il successo preparato e facilitato da un liberalismo laicista e amorale[...]».

Il VII° capitolo si occupa dell'educazione nella Dottrina sociale della Chiesa. Rendendosi conto che il passaggio dalla teoria alla pratica non è facile, a causa dell'egoismo profondamente radicato negli esseri umani, come diceva Papa Giovanni XXIII. Il testo individua a chi spetta educare e chi è il soggetto dell'educazione, qual è l'ambiente naturale dell'educazione, quali sono i fini dell'educazione cristiana in genere.

L'VIII° capitolo affronta le tematiche ecologiche, ridotte all'ecologismo, una delle tante ideologie che ammorbano il mondo.  Tuttavia il testo di Pedrizzi evidenzia che anche nel mondo cattolico di allora c'era una giusta sensibilità ecologica. Non c'era bisogno di Greta Tumberg.

Il IX° e ultimo capitolo (La Chiesa e i mercanti). Qui Pedrizzi mette in guardia da una manipolazione in atto (almeno allora) di un'abile appropriazione indebita della DSC da parte dei liberisti e dei collettivisti. Certamente ribadisce Pedrizzi, la DSC non è una terza via tra capitalismo liberista e collettivismo marxista. Inoltre smaschera certe ipotesi di voler forzatamente mettere insieme, la DSC, in una sorta di miscuglio tra capitalismo e socialismo.

Il testo «Una Luce sul mondo» con una introduzione del senatore Maurizio Sacconi e una prefazione del cardinale Salvatore De Giorgi, vuole offrire preziosi spunti di riflessioni utili per orientare l'azione di tutti, verso una visione del mondo e della vita che metta al centro la persona, che deve operare per il bene comune.

Il testo viene pubblicato dagli autori in occasione delle celebrazioni per i centoventi anni dell'enciclica Rerum novarum, gli ottanta della Quadragesimo Anno, i quaranta della Octogesima Adveniens ed i venti della Centesimus Annus.

Anche in questo testo viene richiamata l'attenzione sui temi della Dottrina sociale cattolica, che appaiono punti fermi ed approdi ideali e culturali a cui fare riferimento.

Anche in questo testo si fa riferimento in particolare al grande Magistero dei pontefici, Leone XIII, Pio XI, Giovanni Paolo II e infine Benedetto XVI.

Chiudo con un auspicio del professore Giovanni Scanagatta, a conclusione del suo saggio su Benedetto XVI e la DSC, a proposito di un rinnovato impegno dei cattolici in politica, scrive: «I cattolici devono uscire dal loro recinto in cui si sono rifugiati e impegnarsi senza paura nella partecipazione, come insegna in modo incisivo il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa [...]». Il professore guarda al mondo dei movimenti e delle associazioni ecclesiali. I cattolici devono fare la loro parte in politica, superando le differenze e le divisioni, come è avvenuto all'indomani della seconda guerra mondiale. Un grande aiuto può darlo certamente il grande insegnamento di san Giovanni Paolo II.

 

 

Sabato scorso proprio nel giorno dedicato alla Madonna di Guadalupe ho finito di leggere il libro, “Una Storia unica. Da Saragozza a Guadalupe”, di Angela Pellicciari, Edizioni Cantagalli (2019). Chissà se è un segnale che viene dall’alto.

Sicuramente la storia raccontata dalla scrittrice marchigiana è nel segno della Vergine Maria Madre di Dio.

In poche pagine (centocinquanta) l’autrice riesce a sintetizzare una grande storia, probabilmente unica. Si tratta della liberazione della Spagna, dal dominio musulmano, per la difesa con eroismo di un grande patrimonio di fede, di cultura e di civiltà ereditate dall’epoca romana.

 In un’epoca come l’attuale, molto “suscettibile” in tema di rapporti con l’islam, il libro di Angela Pellicciari decisamente non può non accendere qualche curiosità o polemica. “Se si pensa che la riconquista sia il frutto di arcaismo, superstizione, intolleranza e povertà, inevitabilmente si finisce col ritenere che la Spagna musulmana fosse un modello di tolleranza, apertura culturale, modernità e ricchezza […] il disprezzo per la storia della cattolica Spagna rende incomprensibili due fatti rilevanti, quanto unici, che restano senza spiegazione:

– come mai la Spagna ha saputo non solo mantenere la fede sotto l’occupazione musulmana (anche la Grecia e l’Armenia l’hanno fatto) ma anche, caso unico al mondo, è stata capace di liberarsi dal giogo islamico;

– come mai la Spagna è riuscita in pochissimo tempo a evangelizzare e latinizzare un intero continente».

La risposta a questi interrogativi si trova nel libro della Pellicciari: la forza della Spagna cattolica fu davvero la fede. Non la violenza, non il sopruso, non l’avidità, non la brama di potere e di proselitismo, come invece si sono rassegnati a pensare anche molti cattolici. E pensare che all’epoca (1496, a riconquista appena ultimata) fu il Papa in persona a «gratificare i sovrani spagnoli con un titolo prestigioso, mai utilizzato fino ad allora», quello di “Re Cattolici”, ricorda la Pellicciari.

La Pellicciari inizia da un episodio, frutto della tradizione. Nei primi anni quaranta dell’epoca cristiana, la Vergine Maria appare su una colonna a Giacomo presso Saragozza. Da qui nasce l’immagine venerata attraverso i secoli, la Vergin del Pilar, patrona della Spagna.

Il primo a parlarne di questo miracolo è Isidoro di Siviglia; tuttavia, il miracolo per eccellenza da collegare alla Vergine della Colonna, è quello capitato a un contadino che aveva subito l’amputazione di una gamba, miracolosamente riavuta dalla Madonna.

Il libro affronta i vari passaggi della difficile riconquista dei cristiani spagnoli del proprio territorio occupato dagli eserciti musulmani, a partire dal regno delle Asturie, dalla sperduta grotta di Covadonga (Grotta di Nostra Signora). Da qui inizia la reqonquista, del territorio spagnolo.

I re e le regine a cominciare da Alfonso I, che guidarono questa riconquista sono ricordati “chi come santo, chi come giusto, chi come casto, chi come cattolico. Perché il regno delle Asturie nasce fin dall’inizio in difesa della fede e delle virtù che da questa scaturiscono”. Questi sovrani che difendono la fede cristiana hanno il diritto e dovere della riconquista. Anche perché hanno la protezione celeste, per mezzo di S. Giacomo che riposa nel “campus stellae”, a Compostella.

Il primo a sperimentare l’efficacia di questa protezione del santo patrono è il re Ramiro I delle Asturie. Da allora il grido di guerra degli spagnoli contro i mori sarà: “Santiago y cierra! Espana!”. Santiago Matamoros, Giacomo uccisore dei mori. Intanto, Oviedo diventa la capitale religiosa e politica dell’intera Spagna. E se nelle Asturie “è tutto un fervore di fede, di ricostruzione, di ripopolamento, di strenua difesa della libertà, nell’emirato di Cordoba è tempo di martirio. Schiacciati dall’oppressione del governo musulmano, i cristiani danno testimonianza nell’unico modo che è loro concesso: col sangue”. La Pellicciari racconta della decapitazione di un sacerdote, Perfecto, che nell’850 ha osato sfidare i musulmani, definendo Maometto, un falso profeta. Dopo di lui, altri 49 cristiani, hanno affrontato con coraggio il martirio.

Per la riconquista della Spagna ci sono voluti settecento e ottantuno anni. In questi lunghi secoli succede di tutto, scrive la Pellicciari. “Il fronte cristiano che si scompone e ricompone e il mondo musulmano che attraversa periodi di grande decadenza e lotte intestine per poi tornare a riprendere vigore con nuove dinastie”.

In questo lungo periodo si susseguono personaggi e battaglie di grande valore simbolico. A cominciare della riconquista di Toledo, l’antica capitale, con le eroiche gesta di Rodrigo Diaz, El Cid Campeador, l’uomo valoroso per antonomasia, intrepido, libero, fedele, forte, che segna l’immaginario collettivo spagnolo attraverso l’epica narrazione delle sue gesta nel poema “El Cantar de mio Cid”.

Inoltre, la storica segnala che in questo periodo, nasce in Spagna, la prima specie di parlamento, nato proprio nel 1188, quando Alfonso IX istituisce le Cortes di Leon, un prototipo di parlamento.

Intanto, il Portogallo diventato regno indipendente, inizia le spedizioni sul mare, alla scoperta di nuove terre. Una delle personalità a distinguersi è Enrico il Navigatore.

Ritornando alla Spagna, alla sua riconquista, si tratta di una storia che vale la pena raccontare per Angela Pellicciari. La Chiesa è al centro di questa riconquista, un’impresa incredibile, resa possibile soltanto dalla fede, non certo dalla superiorità militare o dal calcolo di convenienza. Scrive la Pellicciari raccontando la riconquista:

«La Castiglia si forma così: vescovi e monaci, contadini-soldati liberi, città romane ripopolate, roccaforti costruite a presidio del territorio, con la chiesa sempre al centro. Un reticolo di fede, di interessi, di imprese, di attività, che si organizzano per ripopolare, difendere, estendere il territorio strappato ai mori e riguadagnato a Cristo. Per riconquistare la Spagna. Per tornare a vivere liberi, ritrovando la bellezza della cultura romano-cristiana». Tutto questo può accadere grazie all’opera grandiosa di due sovrani, giovani e belli: Isabella e Ferdinando. Due sovrani che hanno saputo amministrare e rendere grande la Spagna, ma anche che hanno saputo dare l’impulso a riformare la Chiesa. Quando ci sarà tempo dovrò presentare l’impareggiabile studio di Jean Dumont, “La regina diffamata”, (SEI, 2003), “Santa o diabolica?” La verità su Isabella la Cattolica, un libro che smonta “la leggenda nera” sulla sovrana di Spagna.

Comunque sia per la Pellicciari, gli spagnoli applicano gli stessi metodi della riconquista alla conquista delle Indie. Infatti, «Non si capisce la conquista senza la riconquista. Perché gli spagnoli applicano in entrambi i casi un modello consolidato: si comportano nella conquista delle Indie come al tempo della riconquista quando c’era da ripopolare i territori sottratti ai mori. Appena si prende possesso di un posto gli si dà un nome, si traccia un minimo di pianta del futuro centro abitato, si costruisce la chiesa, il municipio, la piazza e, intorno, le strade e le case».

Un’altra sorpresa offerta dal libro della Pellicciari è il continuo riferimento al legame tra fede e ragione contenuto nelle Istruzioni inviate ai conquistadores dalla regina Isabella, per la quale l’autrice ha un debole evidente.

«Per rendere possibile e facilitare il superamento dell’arretratezza culturale degli indios, Ferdinando ed Isabella promuovono il matrimonio fra indiani e cristiani: “Che alcuni cristiani si sposino con alcune donne indie, e le donne cristiane con alcuni indios in modo che gli uni e gli altri si aiutino e si insegnino a vicenda, così da conoscere sia la nostra religione sia come lavorare le terre e condurre le proprietà in modo che gli indios e le indie possano vivere come uomini e donne dotati di ragione”. Il diffuso meticciato scaturito dalle indicazioni della corona dà origine a una nuova civiltà, la civiltà indio-latina, con la sua marcata, allegra e vivace originalità, sia artistica che artigianale».

La Pellicciari spiega come i cattolici spagnoli difesero, anche con le armi, anche con la «guerra giusta», le popolazioni indie più deboli dalle altre tribù che le attaccavano, le schiavizzavano, le mangiavano.

«La descrizione delle atrocità commesse in nome degli dèi è così spaventosa che, per capire la rapidità e la stessa possibilità della conquista, vale la pena di leggere alcuni brani dei racconti che ci hanno tramandato gli esterrefatti soldati e religiosi spagnoli. Il soldato Bernal Díaz del Castillo così racconta i primi tempi dell’esplorazione dello Yucatan nel 1517: in un’isoletta “abbiamo trovato due case ben lavorate, davanti ad ogni casa c’erano alcuni gradini da cui si accedeva a degli altari, su quegli altari c’erano idoli di figure malvagie, che erano i loro dèi. Lì in quella notte erano stati sacrificati 5 indios, i cui petti erano stati squarciati, le braccia e le gambe tagliate, le pareti delle case erano piene di sangue”.

Poco lontano da lì, altro orrore. Durante una ricognizione nelle vicinanze di Tenochtitlán i soldati si imbattono in “templi in cui erano stati sacrificati uomini e ragazzi, e le pareti e gli altari dei loro idoli erano pieni di sangue, e i cuori offerti agli idoli; hanno anche trovato i coltelli di selce con cui aprono i corpi per estrarne il cuore. Pedro de Alvarado ha detto che tutti quei corpi erano senza braccia e senza gambe, e che gli indios hanno spiegato che li avevano tagliati per mangiarseli; i nostri soldati sono rimasti inorriditi da tanta crudeltà. E smettiamo di parlare di tanto sacrificio, perché da lì in poi in ogni città non abbiamo trovato altro”».

Secondo la Pellicciari la colonizzazione per i re cattolici di Spagna significava liberazione attraverso l’evangelizzazione. Tanto è vero che il divieto di ridurre in schiavitù gli indios da parte dei sovrani iberici anticipò di trent’anni la condanna della pratica da parte dei papi.

«A maggior ragione Isabella è fermissima contro la mentalità schiavista che rischia di affermarsi nelle nuove provincie sulla scia delle idee e del comportamento di Colombo. Anche se oggi è difficile crederlo, Isabella ordina, sì, la colonizzazione di territori enormi e lontani, ma la sua motivazione principale è l’evangelizzazione. Isabella desidera e, per quanto può, ordina che il Vangelo sia predicato nelle Indie e che ciò avvenga in condizioni di libertà».

In conclusione il testo descrive la straordinaria vicenda dell’apparizione a Juan Diego Cuauhtlatoatzin (letteralmente “aquila che parla”) della Madonna a Guadalupe e della costruzione del santuario. La Pellicciari lascia intendere concludendo il libro, l’apparizione della Madonna potrebbe apparirebbe fuori contesto se non fosse che in quel 1531 «l’adesione al cristianesimo da parte degli indiani è entusiasta. Gli indios hanno sete della dottrina cristiana e fanno chilometri per ascoltare le prediche dei loro catechisti».

La Vergine è apparsa il 12 dicembre 1531, col volto di colore bruno come gli indios (la si chiamerà morenita), con le mani giunte sul petto leggermente rigonfio perché incinta dei suoi figli americani. “Gli spagnoli – scrive Pellicciari – hanno ragione: hanno davvero portato la regina del cielo e suo figlio”.

L’ultima appendice del volume è proprio la ricostruzione del caso stesa in forma quasi poetica dall’azteco Antonio Valeriano. Altra bella sorpresa. E un utile ripasso per ex scolari male indottrinati.

 

Dal 1° marzo 2021 torna accessibile al pubblico il Mausoleo di Augusto, una delle più imponenti opere architettoniche della romanità e il più grande sepolcro circolare del mondo antico. Già dal prossimo 21 dicembre si potrà prenotare in anticipo la visita al monumento, chiuso dal 2007 per la partenza delle indagini archeologiche preliminari alla realizzazione del grande progetto di recupero e restauro eseguito da Roma Capitale. L’intervento di musealizzazione in corso è finanziato grazie all’atto di mecenatismo della Fondazione TIM.
 
L’iniziativa è stata presentata venerdì, 18 dicembre dalla Sindaca di Roma Virginia Raggi, dal Presidente della Fondazione TIM Salvatore Rossi, dal Vicesindaco di Roma con delega alla Crescita culturale Luca Bergamo, dalla Soprintendente speciale di Roma Daniela Porro e dalla Sovrintendente Capitolina Maria Vittoria Marini Clarelli.
 
“A pochi giorni dal Natale facciamo un regalo ai romani e ai cittadini di tutto il mondo. Dal prossimo primo marzo sarà riaperto al pubblico il Mausoleo di Augusto, un capolavoro dell’antica Roma, un tesoro di inestimabile valore che rinasce in tutto il suo splendore. Abbiamo pensato a un’iniziativa speciale: potrà essere visitato gratuitamente da tutti fino al 21 aprile, giorno in cui si celebra il “Natale” di Roma, e per farlo sarà possibile prenotare la visita online da lunedì. Per i residenti a Roma l’ingresso resterà gratuito per tutto il 2021. Torneremo a scoprire uno dei patrimoni storici dell’umanità. Un obiettivo raggiunto grazie a un proficuo lavoro di squadra, soprattutto, grazie al sostegno e all’atto di mecenatismo della Fondazione Tim. Una testimonianza significativa dell’efficacia e della lungimiranza della collaborazione tra pubblico e privato. Nel caso specifico una grande azienda italiana che ha investito nella cura e valorizzazione dell’immenso patrimonio architettonico, archeologico e storico della nostra città. Una ricchezza che dobbiamo proiettare nel futuro, preservare e tutelare”, dichiara la Sindaca di Roma Virginia Raggi.
 
“E’ motivo di orgoglio e soddisfazione essere al fianco di Roma Capitale in questo importante progetto per il recupero e la valorizzazione del Mausoleo di Augusto, uno dei luoghi simbolo della città e patrimonio archeologico mondiale. Da subito abbiamo ritenuto che fosse importante sostenere l’iniziativa per ridare vita ad uno dei siti più visitati al mondo. Il nostro contributo risponde infatti all’esigenza di promuovere il modello di partecipazione privato a supporto del pubblico nell’interesse della collettività con il duplice obiettivo di valorizzare il patrimonio del Paese, diffondere l’arte e la cultura”, dichiara Salvatore Rossi, Presidente Fondazione TIM.
 
“Dopo 14 anni, a marzo prossimo il Mausoleo di Augusto sarà nuovamente visitabile. E’ l’esito del delicato lavoro condotto dalla Sovrintendenza Capitolina, grazie a un importantissimo atto di mecenatismo della Fondazione TIM e a fondi di Roma Capitale. E’ un lavoro che continuerà ancora con altri interventi rilevanti che i visitatori potranno seguire e capire, formandosi così una chiara idea della complessità di interventi sul patrimonio culturale, delle altissime competenze necessarie e del valore che restituiscono alla comunità. In primavera grazie alla collaborazione tra Fondazione TIM e Sovrintendenza i visitatori potranno inoltre navigare attraverso la storia del Mausoleo grazie alle possibilità offerte dalle tecnologie multimediali. L’apertura del Mausoleo ha un significato ancora ulteriore perché si collega all’impegno della Sovrintendenza grazie a cui sono partiti i lavori nella piazza Augusto Imperatore, che dovrebbero concludersi per questa prima fase a dicembre 2021. Ringrazio coloro che hanno messo intelligenza e impegno per questo risultato, davvero emblematico, di cui penso si debba essere tutti felici e orgogliosi”, dichiara il Vicesindaco con delega alla Crescita culturale, Luca Bergamo.
 
“Il Mibact, attraverso la Soprintendenza Speciale di Roma, è sempre stato presente in questa operazione di recupero, nell’ambito dei compiti di tutela con la valutazione e condivisione dei progetti del restauro dell’edificio. Un ruolo svolto in chiave propositiva, finalizzato alla valorizzazione di importanti reperti e alla piena restituzione alla città del mausoleo di Augusto, anche grazie alla risistemazione della piazza di fronte all’ingresso del monumento attesa da tempo”, dichiara Daniela Porro, Soprintendente Speciale di Roma.


 
“Il Mausoleo di Augusto, monumento chiave nel passaggio dalla Roma repubblicana a quella imperiale, è l’esempio forse più eloquente del riuso, della reinterpretazione e della riscoperta delle vestigia antiche nella storia della città. Divenuto fortilizio durante il Medioevo, giardino all’italiana nel Rinascimento, arena per tori e bufale nell’età del Grand Tour, auditorium nei primi decenni del Novecento, fu recuperato in chiave politica nel Ventennio. Per tutte queste fasi l’attuale restauro, con gli studi che lo hanno accompagnato, ha fornito nuovi, importanti elementi di conoscenza”, afferma la Sovrintendente Capitolina Maria Vittoria Marini Clarelli.
 
Le visite, della durata di circa 50 minuti, si svolgeranno dal martedì alla domenica dalle ore 9 alle ore 16 (ultimo ingresso alle 15). Saranno completamente gratuite per tutti dal 1° marzo al 21 aprile 2021 con prenotazione obbligatoria sul sito www.mausoleodiaugusto.it
Dal 22 aprile, e per tutto il 2021, l’accesso resterà sempre gratuito per i residenti a Roma.
 
A partire dal 21 aprile 2021 la visita al Mausoleo sarà arricchita con contenuti digitali, in realtà virtuale e aumentata, in collaborazione con la Fondazione TIM. I servizi museali saranno gestiti da Zètema Progetto Cultura.
 
Dopo la prima fase di restauro conservativo terminata nel 2019 e realizzata mediante un finanziamento pubblico di 4.275.000 euro (di cui 2 milioni versati dal Mibact e 2.275.000 da Roma Capitale), è attualmente in corso la fase di valorizzazione del monumento, finanziata dalla Fondazione TIM con un atto di mecenatismo.
 
I lavori, diretti dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, permetteranno di realizzare un itinerario museale completo che racconterà le varie fasi storiche del Mausoleo, affiancato da un percorso privo di barriere architettoniche e accessibile a tutti, in concomitanza con i lavori di sistemazione di Piazza Augusto Imperatore, avviati a maggio 2020.
 
Grazie agli interventi di restauro del Mausoleo realizzati finora, con la sistemazione di numerose concamerazioni interne e l’avvio dell’allestimento del percorso museale, è possibile anticipare a marzo 2021 la fruizione del monumento rispetto ai termini previsti per il completamento delle opere di musealizzazione. Anche con il cantiere in corso, il pubblico potrà quindi effettuare una visita dell’area centrale e accedere agli spazi in sicurezza.


 

Sta fecendo discutere il presepe allestito in Piazza S. Pietro. L’opera è un dono della città di Castelli (Teramo) centro famoso da secoli per le sue ceramiche. Il presepe è stato realizzato tra il 1965 e il 1975 dai docenti e alunni dell’Istituto d’arte “F.A. Grue”. Nella sua interezza è composto da 54 grandi statue, tra cui figurano anche un islamico, un rabbino ebreo, un astronauta e persino un boia (in riferimento alla pena di morte) ma solo alcune figure sono esposte a San Pietro.

Si tratta di un’opera moderna, che probabilmente non è stata apprezzata, visto che in rete, si stanno manifestando diverse critiche. Sulla pagina di Vatican news, si leggono solo commenti negativi, peraltro identificandoli con il pontificato di papa Francesco.

Probabilmente e non scrivo altro, sarebbe stato apprezzabile un presepe in linea con la tradizione. Tuttavia, papa Francesco l’anno scorso ha dedicato una splendida lettera apostolica la “Admirabile signum”, sul valore del presepe, firmata proprio presso la grotta, al Santuario di Greccio, dove nel Natale del 1223 S. Francesco organizzò la prima rappresentazione della Natività.

In un’epoca come quella contemporanea, dove la secolarizzazione e gli eccessi del politicamente corretto ci hanno ormai abituato a notizie sui simboli cristiani della Natività proibiti nei luoghi pubblici, papa Francesco intende “sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe” e “la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze”. Il papa esprime l’augurio che “questa pratica non venga mai meno” e che “possa essere riscoperta e rivitalizzata” là dove fosse caduta in disuso. E’ una pratica che si impara da bambini, quando i genitori e i nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine.

La lettera apostolica del papa contiene una ricostruzione storica di quanto avvenne nella notte del 1223 nella valle del reatino. Il Poverello d’Assisi, scrive Francesco, con l’invenzione del presepe realizza “una grande opera di evangelizzazione” capace di arrivare fino ai nostri giorni “come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità”.

La lettera apostolica passa poi ad analizzare il significato dei singoli segni che compongono generalmente la rappresentazione della Natività. Naturalmente nel documento non mancano i riferimenti alla salvaguardia del creato e la predilezione per i poveri irrompono anche in questa bella tradizione e lo testimonia la collocazione delle “montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori” e delle “statuine simboliche (...) di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore”. “I poveri sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi”, mentre “il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. Il papa nel presepe fa spazio a figure che non hanno relazione con i racconti evangelici.

Tuttavia, il presepe riporta alla mente l’attesa per il suo allestimento negli anni dell’infanzia e dunque alla famiglia, ovvero il luogo privilegiato per la trasmissione della fede. Per papa Francesco, “Non è importante come si allestisce il presepe,- scrive papa Francesco -  può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita”.

In conclusione, il presepe è parte integrante del “processo di trasmissione di fede” che Francesco definisce dolce e al tempo stesso esigente. Questa bella tradizione che il papa a Greccio invita a non abbandonare ma, al contrario, a rilanciare laddove non più utilizzata, favorisce la nostra presa di coscienza nel credere che “Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria”.

Pertanto, non allestire il presepe nelle scuole a Natale è la negazione della nostra identità e il suicidio della nostra cultura cristiana, dei nostri valori e il rifiuto delle nostre radici. La sensibilità che ci porta ad assumere comportamenti rispettosi dell’altrui diversità, non può prescindere dal rispettare, anzitutto, noi stessi, e dal fatto che comunque il rispetto deve essere reciproco.

Da qualche anno si ripete il solito stupido e ridicolo disegno di cancellare le nostre tradizioni natalizie, in particolare quello più caratteristico: il presepe. Non mancano presidi o insegnanti che con una grande dose provocatoria, impediscono ai propri studenti anche a quelli non cattolici, di poter conoscere quel messaggio universale di pace che è il Santo Natale. Per la verità a cancellare totalmente il Natale ci aveva pensato Erode, con il suo metodo radicale, ora ci provano in tanti modi i fautori del “multiculturalismo”, della “libertà”, della “democrazia”, alla fine la scusa è quella di non “offendere” lo “zero-virgola” di alunni islamici presenti nelle scuole.

Tuttavia, il problema, in verità non viene creato da chi ha altre fedi religiose, ma da quei laicisti che non ne hanno affatto e usano come alibi il rispetto dei non-cristiani e la paura degli attentati terroristici.

Anche se c'è qualche inaspettato buon segnale da parte di “laici, come Vittorio Sgarbi che in una trasmissione proclama l’umanità nuova nata da quel Bambino e augura “Buon Natale a tutti voi che non siete nati il giorno in cui è nato Gesù Cristo, ma dovete a Gesù Cristo la vostra libertà, la bellezza, l’indipendenza della donna, tutto…”

In pratica cancellando le nostre tradizioni natalizie stiamo censurando il nostro modo

di essere e di vivere, pensando di educare i nostri ragazzi alla tolleranza. Di questo passo arriveremo ad abolire Dante, Manzoni, i dipinti dei grandi artisti, i musei, le chiese ricche di statue e di affreschi, città intere che in ogni edificio, non solo religioso ma anche pubblico, parlano di fede. Finiremo per censurarli tutti, ma così certamente non saremo più colti, più intelligenti, né più accoglienti, soltanto più aridi e infelici.

Tempo fa un dirigente scolastico si chiedeva: "Che senso ha togliere o negare ai bambini il gusto di una tradizione popolare, segno di una bimillenaria cultura, di diffusione planetaria, radicata nel sentimento, nell’arte, nella letteratura, nella storia, nella vita di ogni ceto sociale e specialmente in un paese come il nostro? Quante forme di cultura radicano nelle varie religioni e da esse traggono la loro specificità ed essenza, persino quando, nel tempo, si discostano dai loro significati originari? Perché pensare che non debbano aver spazio a scuola, se di culture si tratta? ".

 Inoltre il dirigente scolastico precisava che “il presepio non è un precetto religioso; non è un atto liturgico; non è un fatto propagandistico, e nemmeno un atto di culto, per quanto di ovvia ispirazione religiosa, "ma in quanto tradizione popolare è un fatto 'culturale'. E la cultura non si nasconde alla vista, non offende e non si occulta: si spiega. Si aiuta a capirla, a interpretarla. Il che non significa imporla. Senza chiusure per la cultura altrui, ma soprattutto senza imbarazzo, e tanto meno vergogna, per la propria”.

Allora quali sono i motivi per cui occorre spogliarsi delle nostre tradizioni, dei nostri segni? Forse per favorire il “dialogo” (parola-talismano dell'Occidente liquido) con i lontani, in questo caso, gli islamici? Non credo che riusciamo a dialogare meglio rendendoci nudi, attaccandoci a “niente”, soprattutto di fronte al credente in Maometto, erede consapevole di una grande religione come l'islam. Anzi è probabile che ci disprezzerà perchè ci siamo spogliati della nostra fede, della nostra cultura. E' una pia illusione credere che gli islamici si possano convertire alla nostra cultura occidentale, impregnata di relativismo religioso, libertà sessuale, edonismo, aborto, disordine familiare, omosessualismo, ideologia del gender e tanto altro. O forse pensiamo di corrompere o di integrare i musulmani, con il sex-shopping olandese, o il “nulla” dei Paesi del Nord Europa, ex protestanti, che ormai si sono adagiati su un paganesimo vissuto. 

Non sarà forse che il problema siamo noi e non i diversi? E' proprio così “Siamo noi che non sappiamo rendere ragione del bimbo nella mangiatoria”, scriveva l'informatore parrocchiale di Santa Maria delle Grazie al Naviglio in Milano.

Probabilmente siamo un popolo che non ha più nulla da raccontare che non ha qualcosa di caro da difendere. Peraltro, solo un popolo sa essere accogliente, altrimenti si diventa solo tolleranti. Essere tolleranti non è positivo, si tollera qualcosa che si sopporta a fatica, qualcosa che potrebbe essere spiacevole, dannosa, mal sopportata. Infatti, “si tollera chi ci sta vicino, sino a quando non ci dà troppo fastidio. Invece, il cristianesimo ci educa ad accogliere”. Naturalmente, però, chi accoglie l'altro deve amare le sue differenze, per quello che è, ma nello stesso tempo non si deve vergognare di se stesso. Dunque, no alla tolleranza, si al rispetto degli altri.

Ma poi questi passi indietro, che dovremmo fare noi cristiani, non potrebbero essere un'offesa nei confronti di tantissimi martiri cristiani, non solo del passato, ma soprattutto di oggi, che continuano ad essere “trucidati perseguitati proprio perché hanno avuto il coraggio di non fare passi indietro?”. “Siamo proprio sicuri che questa spasmodica ricerca di tranquillità serva alla causa della pace?” Sono alcune domande poste ai lettori, qualche anno fa da La Nuova Bussola quotidiana.

Forse sarebbe opportuno che molti cattolici rileggessero alcuni significativi passi del Vangelo, incominciando con quello di Matteo: “non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada.. Chi ama il padre a la madre più di me non è degno di me”?

 Altro passo: “Guardatevi dagli uomini perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro ed ai pagani”; Oppure, “sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi persevererà fino alla fine sarà salvato»; “chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli...”.

E che dire infine, di quel “birichino di San Paolo, che ci invita ad annunciare Cristo in modo «opportuno», ma se occorre anche in modo «inopportuno?

 

 

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