Trent'anni dall'inizio di Mani Pulite

Una pagina della nostra storia che ha modificato radicalmente il panorama partitico e politico della fine del secolo scorso. In un momento che vedeva la fine dell’impero sovietico e il crollo del comunismo, almeno di quello europeo e con esso la fine, nominale, dei partiti comunisti, “Mani pulite” smantella i partiti che, almeno in parte, si erano opposti al comunismo. Su Il Foglio del 18 febbraio il direttore Claudio Cerasa, commentando una lettera, traccia un sintetico bilancio parlando del pool di magistrati che dettero il via a quella pagina storica e si chiede: “Chi c’era nel pool? C’era Antonio Di Pietro poi candidato col centrosinistra. C’era Gerardo D’Ambrosio, divenuto poi senatore del Pd. C’era Gherardo Colombo, indicato nel 2012 dal Pd nel cda della Rai e oggi a capo della commissione per la legalità del Comune di Milano (centrosinistra). C’era Francesco Saverio Borrelli, che nel 2017 sostenne la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Pd. C’era Francesco Greco, che ieri un sindaco del Pd, Roberto Gualtieri, ha scelto come consulente della legalità del comune di Roma.” Queste “coincidenze” chiariscono una pagina di storia poco chiara? Lo chiediamo a Roberto Pertici,  docente di Storia contemporanea all’Università di Bergamo.

“Effettivamente ci sono aspetti ancora poco chiari in tutta questa storia, nei suoi meccanismi e nelle sue connessioni internazionali. Nessun paese occidentale ha vissuto una crisi di sistema di queste dimensioni, paragonabile solamente a quanto accaduto nei paesi comunisti dopo la caduta del Muro di Berlino.

Cosa è stato veramente “Mani pulite”?

“Un pool di magistrati che ha spazzato via il Partito Socialista, la Democrazia Cristiana, il Partito Repubblicano, quello Socialdemocratico e quello Liberale : cioè le forze che avevano innervato la vita politica della Prima Repubblica. Una serie di partiti storici, che corrispondevano alle grandi correnti ideali della storia italiana dell’ultimo secolo”.

Forse perché il sistema di finanziamento ai partiti vedeva la corruzione in primo piano.  Ma esistevano partiti veramente puliti?

“Per partiti di quel tipo i costi della politica erano molto alti: non solo nel momento delle frequenti campagne elettorali, ma nella loro vita quotidiana (stampa, strutture edilizie, iniziative pubbliche, funzionari di partito). Al tempo stesso, essi svolgevano un ruolo di raccordo fra cittadini e Stato che fu per alcuni decenni di grande importanza, tanto che nel 1974 fu votata una legge che prevedeva un finanziamento pubblico a loro favore (la cosiddetta legge Piccoli). Ma essa evidentemente non bastò, perché da parte dei partiti continuò il ricorso a finanziamenti illeciti, in buona parte ricavati da tangenti sulle commesse pubbliche.  Questa prassi era comune a tutti i partiti, anche se in misura diversa, in relazione al loro peso specifico nei meccanismi del potere. Ne era parzialmente fuori il Partito Comunista per il semplice fatto che aveva ricevuto da sempre finanziamenti cospicui da parte dell’Unione Sovietica. Il libro di Valerio Riva L’oro di Mosca pubblicato nel 1999, fornisce delle cifre piuttosto impressionanti: nel 1978 e nel 1979 si parla ancora di 4 milioni di dollari e il flusso continuò fino agli ultimi anni attraverso diversi canali. Una volta finito il comunismo, il capitalismo italiano, che aveva sempre dovuto pagare queste tangenti, insieme ad alcuni ambienti internazionali, ritenne che era l’ora di farla finita con questo sistema. Altre volte si erano aperte grandi inchieste sulla corruzione, ma sempre erano state insabbiate. Nei mesi di “Mani Pulite” si creò un legame rocambolesco tra una parte della magistratura e alcuni grandi giornali, che facevano riferimento ad alcuni settori dello Stato e a poteri economici e finanziari, per azzerare la classe politica”.

Qual era il loro progetto?

“Su questo la discussione storiografica è ancora molto aperta. Questi ambienti economici e finanziari hanno sempre avuto bisogno di un “partito regime”: il grande centro “liberale” dopo l’unità d’Italia, il fascismo per vent’anni, la Democrazia Cristiana per cinquanta. Un partito affidabile, che gestisca lo Stato e li lasci liberi di fare i loro affari senza preoccuparsi più di tanto della dialettica politica: insomma garantisca stabilità. Io credo che questa nuova forza l’avessero identificata nel partito successore del Partito Comunista, il Pds poi Ds: gli ex comunisti, che intanto si stavano convertendo con grande e disinvolta rapidità all’economia di mercato, che cercavano di dare prova di affidabilità alle istituzioni europee e agli ambienti atlantici, furono ritenuti interlocutori degni di considerazione, per il loro (si diceva) senso dello Stato e per la loro fama di buoni e onesti amministratori. Dopo la bufera giudiziaria, poi, non avevano più rivali”.

Ma qualcosa è andato storto.

Ci fu chi, come Giuliano Urbani, cominciò a chiedersi a chi si sarebbe rivolta quella parte del paese (probabilmente maggioritaria) rimasta sostanzialmente senza rappresentanza politica. Sembra che costoro si siano rivolti prima a Mario Segni, allora sulla cresta dell’onda, per proporgli di capitanare un’aggregazione di forze, fra cui inevitabilmente ci sarebbero dovute essere anche Alleanza Nazionale e la Lega di Bossi. Segni non riuscì a superare la pregiudiziale antifascista e il suo quarto d’ora inesorabilmente passò. Gianni Agnelli, a cui pure alcuni si erano rivolti, non aveva certo voglia di confondersi con la politica, ma fece il nome di Berlusconi: “Lui forse è uomo capace di farle, le cose che chiedete”. La storia successiva è fin troppo nota: Berlusconi “scese in campo” e, inaspettatamente, vinse le elezioni del ‘94.

Ma il Centro destra non diventò mai il “partito regime” e Berlusconi non divenne mai un uomo dei “poteri forti”.

“Certo. Il famoso avviso di garanzia anticipato dal Corriere della Sera fece cadere dopo pochi mesi il primo governo Berlusconi. Qualche anno dopo, in un pubblico dibattito alla Versiliana a Marina di Pietrasanta, chiesi a Paolo Mieli, l’allora direttore del Corriere, se lo avrebbe rifatto. “Forse non lo rifarei più, ma a quel tempo per noi fu una scoop troppo grosso”.

Dopo trent’anni si può dire che il Pci/Pds/Ds/Pd, che non era riuscito nell’intento di bloccare la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994, si appresti ora a diventare il nuovo partito regime?

“Difficile dare una risposta precisa.  Se, nonostante l’evidente appoggio degli ambienti che contano e la poca consistenza dei suoi avversari, Il PD non è riuscito finora è diventarlo del tutto, è stato per  i suoi limiti, per le divisioni che lo percorrono, per la debolezza dei suoi leader.

 

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