Enrico Rossi, l’ispettore di polizia in pensione che ha riferito all’Ansa l’esito di una sua inchiesta in base al quale c’erano due esponenti dei Servizi a bordo della moto Honda notata in via Fani durante il sequestro di Aldo Moro, verra ascoltato dai pm romani, il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo ed il sostituto Luca Palamara. L’ispettore in pensione sarà dunque convocato presto a piazzale Clodio per essere sentito nell’ambito degli accertamenti ancora in corso sui fatti del 16 marzo 1978.
Sul presunto coinvolgimento dei servizi segreti nelle fasi del sequestro di Aldo Moro, il procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli, interpellato dall'ansa, ha detto che oggi stesso richiederà gli atti di indagine alla Procura di Roma "per le opportune valutazioni". E verrà ascoltato dai pm romani Enrico Rossi, l'ispettore di polizia in pensione che ha riferito all'ansa l'esito di una sua inchiesta in base al quale c'erano due esponenti dei servizi a bordo della moto Honda notata in via Fani durante il sequestro.
"E' stato impropriamente fatto riferimento alla mia funzione - ha detto Ciampoli all'ansa - per riportare opinioni personali di altri. Nel mio ruolo di Procuratore Generale di Roma, informo che oggi stesso chiederò gli atti relativi alla vicenda di cui si parla per l'esercizio di tutti i poteri attribuitimi dall'ordinamento". .....
Le rivelazioni di Rossi hanno riacceso il dibattito sul sequestro e l'assassinio del leader Dc da parte delle Brigate Rosse. Luciano Infelisi, nel 1978 primo inquirente a occuparsi dei fatti di via Fani, è categorico: "Sento il dovere di dichiarare, per quanto di mia conoscenza, che dalle indagini da me condotte su incarico dell'allora procuratore Giovanni De Matteo, e che si conclusero con numerosi ordini di cattura nei confronti di Gallinari, della Faranda e di altri brigatisti, non è mai emerso alcun coinvolgimento di presunti aiuti da parte dei servizi segreti alle Br che idearono ed eseguirono il rapimento di Moro e l'eccidio della sua scorta". E ancora: "Mi domando che valore può aver avuto una lettera anonima, e perché l'ex ispettore della polizia, che non si è mai occupato del caso, abbia deciso a distanza di oltre 25 anni dall'efferato delitto, di prospettare una tesi che non ha avuto alcun riscontro. Tutte le strade investigative furono battute da me e dai colleghi che si succedettero, e mai emerse alcunché. Posso concludere che la dietrologia è veramente dura a morire, ed è di per se pericolosa perché annulla la responsabilità dei veri autori, alla ricerca di fantasmi".
Per una volta secondo le agenzie di stampa sono tutti d'accordo: magistrati e Br. La Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 è un mistero. I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono - sicuramente - gli unici colpi verso un 'civile' presente sulla scena del rapimento, l'ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro
Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati sempre chiarissimi su quella moto blu di grossa cilindrata: "Non è certamente roba nostra". L'ingegner Marini si salvò solo perché cadde di lato quando una raffica partita da un piccolo mitra fu scaricata contro di lui 'ad altezza d'uomo' proprio da uno dei due che viaggiavano sulla moto. I proiettili frantumarono il parabrezza del motorino con il quale l'ingegnere cercava di 'passare' all'incrocio tra
via Fani e via Stresa...e cosi la storia che in questi giorni vengono fatte nuove rivelazioni :
16 marzo 1978, ore 9,02: una Fiat 132 con a bordo il presidente della Dc Aldo Moro e il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, guidata dall'appuntato Domenico Ricci, percorre via Mario Fani, seguita dall'Alfetta con i tre agenti della scorta, Raffaele Jozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Le due vetture sono partite, come quasi ogni mattina, dall'abitazione di Moro, in via del Forte Trionfale, e, seguendo il percorso abituale verso il centro, hanno raggiunto via Fani. In via Fani, davanti al bar Olivetti (chiuso per il riposo settimanale), pochi metri prima dell' incrocio con via Stresa, una Fiat 128 con targa diplomatica frena bruscamente e viene tamponata dalle auto dei Moro, che restano bloccate. In tre minuti, un ''commando'' di brigatisti formato, almeno 'ufficialmente', da nove persone (più una decima con funzionisolo di vedetta), vestiti con divise da aviatori civili, uccidegli uomini della scorta e sequestra il presidente della Dc.
Solo Jozzino, ferito, riesce a sparare qualche colpo, inutilmente, prima di essere finito. I terroristi hanno sparato in tutto 91 colpi, 49 dei quali adopera di un unico killer, che usava un'arma mai ritrovata. Un testimone esperto di tiro definirà quel brigatista ''un tiratorescelto'' che sparava come ''Tex Willer''. Il commando era formato da Valerio Morucci, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari e Raffaele Fiore (il cosiddetto 'gruppo di fuoco'), Mario Moretti e Bruno Seghetti (alla guida di due auto), Barbara Balzerani, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri (nel ruolo di 'cancelletti'), più Rita Algranati che, più distante, doveva segnalare agitando un mazzo di fiori l'arrivo del corteo di auto con Moro a bordo. Molti testimoni hanno però parlato della presenza di due persone su una moto Honda. In più, nella ricostruzione ufficiale non quadra il fatto che tutti i terroristi avrebbero sparato da un solo lato, mentre una perizia (e alcune testimonianze) sembrerebbero dimostrare che uno dei killer era sul lato opposto. Moro stava andando alla Camera, dove Andreotti avrebbe presentato il suo nuovo Governo, il primo con l'appoggio del Pci, nato proprio dal paziente e faticoso lavoro di Moro. All'angolo dell'agguato c'era di solito il furgone di un fioraio, ma quel giorno era rimasto a casa perchè aveva trovatoil suo mezzo con tutte le ruote squarciate. Da un balcone, un testimone, carrozziere, scatta diverse foto. La moglie, giornalista dell'Asca, consegna il rollino al giudice Infelisi. Alle 9,24 polizia e carabinieri dispongono posti di blocco sulle strade in uscita dalla citta', mentre in via Fani sono arrivati i responsabili dell' ordine pubblico ed Eleonora Moro.Lo statista, secondo la ricostruzione in seguito fatta da Morucci, con una ''132'' scortata da altre due vetture ha raggiunto Monte Mario. Il presidente della Dc viene trasferito su un furgoncino e con questo viene portato in un parcheggio sotterraneo in via dei Colli Portuensi e qui trasbordato su un'auto ''blu'' che lo porta nella ''prigione'' di via Montalcini.
Alle 10:10 arriva all'ansa la prima telefonata di rivendicazione delle Br. Nella giornata viene proclamato lo sciopero generale e centinaia di migliaia di persone manifestano a Roma e in tutte le piu' grandi citta', mentre si susseguono i vertici a Palazzo Chigi, in questura, al Viminale. Il caos è aumentato dal fatto che i telefoni della zona, proprio in quel momento, rimangono muti. Un malfunzionamento dovuto, secondo la Sip, al sovraccarico delle linee.....ed ecco oggi la rivelazione :
"Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall'uomo che era sul sellino posteriore dell'Honda in via Fani quando fu rapito Moro. Diede riscontri per arrivare all'altro. Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo. Dipendevano dal colonnello del Sismi che era lì". Enrico Rossi, ispettore di polizia in pensione, racconta all'ansa la sua inchiesta.
L'ispettore racconta che tutta l'inchiesta è nata da una lettera anonima inviata nell'ottobre 2009 a un quotidiano. Questo il testo: "Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...". L'anonimo fornì anche concreti elementi per rintracciare il guidatore della Honda. "Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più". Il quotidiano all'epoca passò alla questura la lettera per i dovuti riscontri. A Rossi, che ha sempre lavorato nell'antiterrorismo, la lettera arriva sul tavolo nel febbraio 2011 "in modo casuale: non è protocollata e non sono stati fatti accertamenti, ma ci vuole poco a identificare il presunto guidatore della Honda di via Fani". Sarebbe lui l'uomo che secondo uno dei testimoni più accreditati di via Fani - l'ingegner Marini - assomigliava nella fisionomia del volto ad Eduardo De Filippo. L'altro, il presunto autore della lettera, era dietro, con un sottocasco scuro sul volto, armato con una piccola mitraglietta. Sparò ad altezza d'uomo verso l'ingegner Marini che stava "entrando" con il suo motorino sulla scena dell'azione.
"Chiedo di andare avanti negli accertamenti - aggiunge Rossi - chiedo gli elenchi di Gladio, ufficiali e non, ma la "pratica" rimane ferma per diversi tempo. Alla fine opto per un semplice accertamento amministrativo: l'uomo ha due pistole regolarmente dichiarate. Vado nella casa in cui vive con la moglie ma si è separato. Non vive più lì. Trovo una delle due pistole, una beretta, e alla fine, in cantina poggiata o vicino ad una copia cellofanata della edizione straordinaria de La Repubblica del 16 marzo con il titolo 'Moro rapito dalle Brigate Rosse', l'altra arma". E' una Drulov cecoslovacca, una pistola da specialisti a canna molto lunga che può anche essere scambiata a vista da chi non se ne intende per una piccola mitragliatrice. Rossi insiste: vuole interrogare l'uomo che ora vive in Toscana con un'altra donna ma non può farlo. "Chiedo di far periziare le due pistole ma ciò non accade". Ci sono tensioni e alla fine l'ispettore, a 56 anni, lascia. Va in pensione, convinto che si sia persa "una grande occasione perché c'era un collegamento oggettivo che doveva essere scandagliato". Poche settimane dopo una "voce amica" gli fa sapere che l'uomo della moto è morto e che le pistole sono state distrutte. Rossi attende molti mesi - dall'agosto 2012 - prima di parlare, poi decide di farlo, "per il semplice rispetto che si deve ai morti".
Chi continua, a distanza di tanti anni, a nutrire molti dubbi è Maria Fida Moro, figlia maggiore dello statista: "Non so se in via Fani c'erano davvero uomini dei servizi segreti - commenta - per quel che ho capito ci sarebbero delle prove. Il punto è che ogni pista è possibile e va
battuta: perché dovremmo credere sempre e solo alla versione dei brigatisti?. La storia del caso Moro va tutta ancora scritta e forse ci sono altre presenze sul luogo della strage, oltre a quelle di cui si parla a proposito della moto. Non ho le prove, è un mio convincimento. Ma bisogna cercare ancora e anche per questo solo io, di tutta la mia famiglia, ho firmato per riaprire l'inchiesta. Non voglio fare guerra ai fantasmi ma richiamare le persone alla propria coscienza".